Esperimenti di welfare state nell’Africa sub-sahariana
Africa

Esperimenti di welfare state nell’Africa sub-sahariana

Di Sara Nicoletti
28.11.2019

Secondo un recente report della Banca Mondiale, l’Africa sub-Sahariana è l’unica area del globo nella quale il numero di persone al di sotto della soglia di povertà (definita come un guadagno di almeno $1.90 al giorno) aumenta invece di diminuire. A vivere in condizioni di povertà estrema sono circa 413 milioni di Africani, più della metà dei circa 736 milioni a livello globale.[1]

Nonostante le dimensioni del problema, diverse istituzioni internazionali hanno espresso l’intenzione di sviluppare delle politiche sociali che siano in grado di alleviare, almeno parzialmente, quella che ormai sembra essere la condizione naturale dell’Africa, ovvero la povertà. Innanzitutto, 13 Paesi africani nel 2006 hanno sottoscritto il Livingstone Call for Action, nel quale si sono impegnati a produrre dei piani di trasferimenti sociali nell’arco di due o tre anni. Inoltre, le stesse Nazioni Unite con i Sustainable Development Goals per il 2030, e persino l’Unione Europea hanno inserito nei loro obiettivi per il prossimo decennio quello di contribuire allo sviluppo di politiche sociali efficienti nei Paesi in via di sviluppo allo scopo di mettere un freno alla povertà. Infatti, se ad oggi esistono misure di previdenza sociale nell’Africa sub-Sahariana, esse escludono più persone di quelle a cui forniscono supporto,[2] contribuendo a rafforzare le disuguaglianze sociali ed economiche che dovrebbero invece affievolire.

Nel provare ad analizzare gli schemi di welfare esistenti, si riscontra immediatamente una difficoltà a far rientrare le categorie africane di welfare nella tipologia di Esping-Andersen, soprattutto a causa del fatto che tutte e tre le dimensioni individuate dall’autore, attorno alle quali si sviluppa la tipologia, non sono altrettanto facilmente misurabili in Africa. Il primo parametro, quello della de-mercificazione, suppone infatti un equivalente livello di mercificazione, ovvero di partecipazione nel mercato del lavoro formale, che è assente o poco rilevante in Africa. In secondo luogo, escludendo il Sud del continente, non si dispone di dati a sufficienza per quanto riguarda la stratificazione sociale. In ultimo, la famiglia è ritenuta la principale responsabile del welfare, in quanto lo Stato è spesso assente o inefficiente.[3] Questi elementi rendono ostica non solo la classificazione dei welfare regimes africani secondo la tipologia precedentemente menzionata, ma secondo qualsiasi tipologia.

Questa ricerca è volta a presentare brevemente la letteratura esistente sul tema e delle possibili classificazioni, per poi concentrarsi su un case-study riguardante un esperimento di reddito di base in Kenya, e trarre le dovute conclusioni.

Diversi studi hanno tentato di classificare i regimi sociali africani inserendoli in gruppi differenti di tipologie già esistenti o create ad hoc per descrivere i Paesi in via di sviluppo più in generale. Come menzionato sopra, queste classificazioni hanno però incontrato delle difficoltà di applicazione a causa della mancata mercificazione della società, eccezion fatta per Sud Africa e Namibia, che avrebbe permesso lo sviluppo di welfare regimes vicini alle tipologie occidentali. Data la poca rilevanza di questo tipo di ricerche, ci concentreremo invece sulla classificazione operata da Wood and Gough, che raggruppa tutti i Paesi dell’Africa sub-Sahariana in un unico cluster, definito “regimi di insicurezza”. Questi regimi sono tutti caratterizzati dalla dipendenza dal supporto dei Paesi sviluppati, livelli irrisori di spesa pubblica e basse aspettative di vita.[4]

Ancora più interessante è inoltre la divisione effettuata da Mkandawire, basata sull’eredità coloniale. Un primo gruppo di Paesi africani rientra nella categoria definita labour reserve economies, ovvero quei Paesi dell’Africa del Sud e dell’Est, le cui economie coloniali erano basate sulla manodopera a basso costo. Perciò, alte imposte permettevano di finanziare regimi discriminatori e l’istruzione era tenuta a bassi livelli. Oggi, l’allargamento della popolazione pagante le tasse ha permesso un’estensione dei benefici sociali, ma i sistemi di assicurazione privata rimangono centrali. L’altra categoria, comprendente l’Africa occidentale, prende il nome di cash crop economies. Qui i coloni sfruttavano la terra, rendendo i colonizzati parte del processo di produzione. I livelli di scolarizzazione erano, e sono, più alti, ma le imposte basse producono un basso livello di spesa pubblica, rendendo perciò necessario il ricorso a politiche assistenzialiste dall’estero.[5]

Un dibattito momentaneamente aperto è quello che contrappone il cosiddetto targeting all’universalismo dei trasferimenti sociali. Mentre nel primo caso sono soltanto i più bisognosi a ricevere assistenza, attraverso un means test di vario genere, nel secondo i benefici vengono garantiti a tutta la popolazione. La maggior parte delle misure sociali in Africa si basa sul targeting, ma esso è fortemente criticato, nonostante il suo maggiore potere redistributivo, perché aumenta la stigmatizzazione di coloro che ne beneficiano, un tema molto sentito in Africa. Allo stesso tempo, visto il non elevato numero di benestanti in grado di finanziare un sistema universale, esso è considerato impraticabile al momento.[6]

Viste le problematiche dei sistemi di welfare nell’Africa sub-Sahariana, potrebbero funzionare esperimenti di micro-credito? È questa la domanda a cui hanno cercato di rispondere i promotori di un esperimento sul reddito di base a opera della cooperativa statunitense GiveDirectly. Il progetto, finanziato dalle donazioni di molte aziende della Silicon Valley, consiste nell’erogazione dell’equivalente di $22.50 al mese per dodici anni a 40 villaggi del Kenya; 80 villaggi riceveranno i soldi per due anni, mentre 100 villaggi non riceveranno alcuna somma ma saranno monitorati come gruppo di controllo.

Nonostante i timori che il denaro potesse essere sperperato e potesse disincentivare la ricerca di un’occupazione, i primi risultati sembrano confortanti, in quanto la maggior parte delle persone spende quei soldi per beni di prima necessità, avendo così modo di dedicare gli altri introiti ad attività più produttive.[7] [8]Per quanto scettico sia il mondo accademico sulle potenzialità del micro-credito a livello strutturale e a lungo termine, per il momento sembra che la popolazione stia beneficiando dell’esperimento. Non bisogna dimenticare, in ogni caso, che l’alleviamento momentaneo di condizioni di povertà non può supplire a deficit strutturali del sistema, e che l’esperimento si basa ancora una volta sulla dipendenza da finanziamenti erogati da associazioni di Paesi sviluppati. Sarebbe estremamente improbabile l’avviamento di un’attività simile da parte, per esempio, del governo keniota, sia per mancanza di fondi che per mancanza di volontà politica.

Seppure gli esperimenti condotti dalle ONG internazionali non vadano sottovalutati nei loro effetti benefici, è chiaro che l’Africa sub-Sahariana ha bisogno di un cambiamento strutturale che non sia un palliativo, ma una riforma seria e sistematica delle pratiche sociali e delle economie dell’area. Adesina propone sei modi per ripensare le politiche sociali in Africa: innanzitutto, è necessario avviare un processo di crescita economica sostenuta attraverso un passaggio a un’economia industriale. In secondo luogo, bisogna recuperare la funzione di nation-building delle politiche sociali e, terzo, rendere le politiche sociali universali invece che targeted. Inoltre, una ripresa dell’economia non può prescindere da una ricostituzione dello Stato. È ugualmente importante ripensare il policy-making secondo quelle che sono le peculiarità delle società africane, e individuare una leadership che abbia la sua base nella realtà africana, non nell’aiuto dall’estero.[9]

È infine fondamentale che delle norme globali siano create non solo nel campo dell’istruzione, dove, seppur difettose, sono già presenti, ma anche nel campo pensionistico e della salute. In questi ambiti, infatti, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale si sono spesso trovate in disaccordo, producendo modelli contrastanti che hanno ulteriormente danneggiato e frammentato la realtà sociale africana.

In conclusione, dopo aver esaminato alcune tipologie proposte dagli studiosi che ci hanno fornito un’idea della situazione rispetto alle politiche sociali in Africa, e dopo aver esposto il funzionamento di un esperimento di reddito di base in Kenya, possiamo affermare che, per quanto irrealistica possa sembrare come proposta, un reale miglioramento si avrà solo quando alle misure assistenzialiste delle ONG  e delle associazioni internazionali si aggiungerà una riforma strutturale delle economie africane.

[1] Friederike Müller-Jung, “World Bank report: Poverty rates remain high in Africa”, dw.com https://www.dw.com/en/world-bank-report-poverty-rates-remain-high-in-africa/a-45926382 (17 Ottobre 2018). Accesso effettuato il 24 Marzo 2019.

[2] Candace Miller, “Social Welfare in Africa: Meeting the Needs of Households Caring for Orphans and Affected by AIDS” in Alberto Minujin and Enrique Delamonica (eds), Social Protection Initiatives for Children, Women and Families. (New York: New School University and UNICEF, 2007), p.4.

[3] Daniel Künzler e Michael Nullert, “Varieties and drivers of social welfare in sub-Saharan Africa. A critical assessment of current research”. Sozialpolitik. 2:2 (2017), Article 2.1, p.3-4.

[4] Ibid. p.6.

[5] Ibid. p.7-9.

[6] Ibid. p.9-11.

[7] Marco Dotti, “Reddito universal di base: è in Kenya il più grande esperimento della storia”, vita.it http://www.vita.it/it/article/2019/02/13/reddito-universale-di-base-e-in-kenya-il-piu-grande-esperimento-della-/150660/ (13 Febbraio 2019). Accesso effettuato il 24 Marzo 2019.

[8] Martin Siele, “Details of World’s Biggest Universal Basic Income Experiment in Kenya”, Kenyans.co.ke https://www.kenyans.co.ke/news/33012-details-worlds-biggest-universal-basic-income-experiment-kenya (10 Settembre 2018). Accesso effettuato il 24 Marzo 2019.

[9]‘Jìmí O. Adésínà, “Social Policy and the Quest for Inclusive Development: Research Findings from Sub-Saharan Africa”, Social Policy and Development Programme Paper No.33 (Maggio 2007), UN Research Institute for Social Development.

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