Le azioni di rappresaglia iraniana contro i Paesi del Golfo dopo un eventuale attacco israeliano
Medio Oriente e Nord Africa

Le azioni di rappresaglia iraniana contro i Paesi del Golfo dopo un eventuale attacco israeliano

Di Francesco Tosato
01.10.2012

La pubblicazione dell’ultimo rapporto AIEA sullo stato del programma nucleare iraniano, avvenuta il 30 agosto scorso, che sancisce i progressi del Paese persiano nello sviluppo della tecnologia nucleare compatibile anche con l’utilizzo a fini militari, (crescita costante dello stock di uranio arricchito sia al 3,5% che al 20%, introduzione di centrifughe più sofisticate e studio di nuove tecniche di arricchimento con tecnologia laser) unite all’impossibilità per gli ispettori di verificare la reale natura del sito missilistico di Parchin (al cui interno si sospetta la presenza di una camera di scoppio destinata ai test degli esplosivi necessari alla costruzione di ordigni atomici) ha nuovamente fatto salire la tensione nel governo israeliano. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu si è dichiarato totalmente insoddisfatto dei passi finora compiuti dalla Comunità Internazionale per impedire all’Iran di giungere alla soglia (che Israele considera critica) della possibilità tecnica di assemblaggio di ordigni nucleari (“break-out option”).

Tale decisa presa di posizione di Netanyahu, unita alle esercitazioni svolte dalla protezione civile israeliana tra agosto e settembre, hanno rafforzato le voci sui media internazionali che ritengono possibile un raid israeliano sui siti nucleari iraniani nella finestra temporale compresa tra settembre e il prossimo novembre. Questa scelta sarebbe dettata dalla volontà di approfittare delle contemporanee elezioni presidenziali americane, per mettere l’alleato statunitense (la cui attuale amministrazione democratica è fortemente contraria ad un’azione di forza in quanto giudicata non risolutiva e attualmente controproducente) di fronte al fatto compiuto. Tuttavia, tale opzione avrebbe la grave controindicazione di escludere, almeno in fase iniziale, il diretto coinvolgimento dell’apparato militare americano nel raid con conseguenti pesanti implicazioni negative in termini di effetti terminali sugli obiettivi, coordinamento con l’alleato USA e possibilità di supporto logistico e informativo.

Infatti, un raid israeliano, per quanto ben congegnato e tecnicamente eseguito, avrebbe comunque solo lo scopo di “prendere tempo” e ritardare di alcuni anni il raggiungimento della “soglia critica” da parte dell’Iran a causa dei limiti oggettivi cui una tale azione sarebbe soggetta. In primo luogo, le infrastrutture chiave del programma nucleare degli ayatollah sono efficacemente disperse su tutto il territorio del Paese, prevalentemente localizzate in bunker corazzati situati a decine di metri nel sottosuolo e adeguatamente difese da sistemi SAM anche se non di ultima generazione. In secondo, poi, le capacità di proiezione dell’aeronautica militare israeliana, unite all’ipotizzato utilizzo di missili balistici Jericho a testata convenzionale e missili cruise lanciati dai quattro sommergibili Dolphin, per quanto rilevanti, non consentono, in completa autonomia, di assicurare contemporaneamente la distruzione di tutte le infrastrutture nucleari, missilistiche e di rilevanza strategica dell’Iran. L’attacco, quindi, dovrebbe essere concentrato, ridondante su un numero ristretto di obiettivi considerati estremamente paganti e limitato nel tempo ad un massimo di 24 ore onde evitare che rischi, costi e sforzo logistico diventino insostenibili (si ricorda ad esempio che la IASF dispone di sole 8 aerei cisterna Boing 707-300).

Fatte queste premesse, risulta evidente che, a seguito di un’azione a sorpresa esclusivamente israeliana, gioco forza concentrata contro le installazioni nucleari, il complesso militare iraniano rimarrà in grado di attuare iniziative di rappresaglia non solo verso Israele, ma, verosimilmente, anche verso le monarchie sunnite del Golfo (i Paesi, cioè riuniti nel Consiglio di Cooperazione del Golfo - CCG), alleate degli Stati Uniti. L’eventualità che questi Paesi rientrino tra i principali obiettivi della reazione iraniana è dovuta al fatto che, oltre ad essere sunniti, e quindi tradizionali rivali della teocrazia sciita iraniana, molti di essi ospitano basi USA (il quartier generale della Quinta Flotta dell’US Navy è basato a Manama in Bahrain, mentre la più grande base aerea USA della regione è situata ad Al Udeid in Qatar) o sono sede di installazioni militari in grado di contrastare efficacemente il potenziale missilistico iraniano (sistemi antibalistici THAAD e Patriot Pac-3 schierati in Arabia Saudita, UAE e Kuwait). Infine, l’Iran potrebbe considerare corresponsabili di aver reso tecnicamente possibile il raid quei Paesi che consentissero la “violazione” del proprio spazio aereo ai velivoli con la Stella di Davide. Ad oggi sono state ipotizzate tre rotte per i pacchetti d’attacco israeliani: la prima, prevede che i velivoli attraversino il Mediterraneo tra Cipro e la Siria, costeggiando in seguito il confine tra Siria e Turchia ed entrando in Iran dall’Azerbaijan (anche se questa rotta è considerata poco probabile a causa dei pessimi rapporti diplomatici tra Israele e Turchia a seguito dell’incidente della Mavi Marmara); la seconda, che è anche la più diretta, prevede il sorvolo di Giordania ed Iraq (anche questa con il rischio di serie complicazioni diplomatiche con Amman) e la terza che attraverserebbe il nord dell’Arabia Saudita e il Golfo Persico (ipotizzando una fattiva collaborazione saudita vista l’impossibilità di sfuggire al robusto sistema di sorveglianza radar e SAM del paese).

L’Iran potrebbe agire nei confronti dei Paesi aderenti al CCG principalmente attraverso tre azioni di ritorsione da attuarsi singolarmente, o anche contemporaneamente, che nello specifico potrebbero essere:

  1. il tentativo di chiusura dello stretto di Hormuz (che per le implicazioni a livello economico e strategico obbligherebbe gli USA ad intervenire immediatamente per ripristinare il traffico mercantile);

  2. l’attacco con missili balistici a breve e medio raggio alle infrastrutture militari e petrolifere dei Paesi del CCG (anche in questo caso, trattandosi di attacco diretto contro paesi alleati gli USA sarebbero obbligati ad intervenire in loro difesa);

  3. la destabilizzazione dei Paesi del CCG tramite il supporto logistico e militare attivo alle rivendicazioni delle componenti sciite presenti nell’area arabica (Yemen, Bahrain, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita) e attivazione del network di operativi facenti capo ai Pasdaran (Forza Qods – Operazioni Esterne Dei Pasdaran) e degli Hezbollah al fine di realizzare attentati terroristici contro soft target riferibili alle monarchie del Golfo e situati all’estero.

Chiusura dello Stretto di Hormuz

Lo stretto di Hormuz è l’unico braccio di mare che collega il Golfo Persico al Mare Arabico, è lungo circa 180 km e nel punto più stretto è largo appena una quarantina di chilometri. Questa via d’acqua riveste un’importanza fondamentale per l’economia mondiale in quanto è attraverso di essa che il petrolio della Penisola Arabica (55% delle riserve mondiali di greggio) viene esportato in tutto il mondo. Si calcola che, ancora oggi, nonostante i tentativi di diversificazione adottati dai Paesi del Golfo (attraverso la creazione di pipe-line che bypassino questo punto nevralgico), circa il 40% del greggio trasportato per via marittima sia costretto ad attraversare questo choke-point. Il traffico delle grandi petroliere è regolato attraverso due canali, uno in entrata e l’altro in uscita, larghi appena 3,2 km e divisi da un’ulteriore zona cuscinetto della stessa larghezza. Il controllo di questo fondamentale tratto di mare è suddiviso tra tre Stati: Oman e UAE a sud e Iran a nord, con l’interessante caratteristica che la natura frastagliata e ricca di caverne, isolette e insenature della costa persiana si presta benissimo a operazioni di guerriglia e attacco mordi e fuggi al naviglio in transito. Lo stesso Capo di Stato Maggiore della Difesa USA, il Generale Martin E. Dempsey, commentando le esercitazioni condotte dalle Forze Armate iraniane tra il dicembre 2011 e i primi di gennaio 2012 ha confermato la capacità tecnica del regime degli ayatollah di bloccare lo stretto di Hormuz, per un periodo limitato di tempo, attraverso l’utilizzo congiunto dell’arsenale a disposizione della Marina Iraniana e della forza navale dei Pasdaran e composto da: mine navali, missili antinave, barchini veloci e sommergibili. A seguito di un atto ostile, le forze navali iraniane potrebbero procedere al minamento dello stretto utilizzando i tre sommergibili classe Kilo (recentemente oggetto di interventi di ricondizionamento ai motori, all’elettronica e agli stabilizzatori da parte dall’industria iraniana), più altre unità “civili” attrezzate allo scopo; di seguito potrebbero utilizzare le innumerevoli unità leggere dei Pasdaran armate di razzi e mitragliatrici per attaccare a sciame il naviglio commerciale in transito, mantenendo in agguato gli asset più pregiati come i sommergibili Kilo, i più piccoli midget classe Yono e Nahang e le motomissilistiche di origine cinese C-14 e Houdong per colpire eventuali unità militari straniere che cercassero di ripristinare la circolazione marittima. A tale già impegnativa insidia si aggiungerebbe il network delle postazioni mobili di difesa costiera armate con il missile antinave di origine cinese C-801/C-802 (gittata compresa tra 12 e oltre 100 km, in grado di colpire qualsiasi punto dello stretto oltre ad ampie porzioni del Golfo dell’Oman e del Golfo Persico), lanciarazzi campali multipli e artiglieria.

Data la natura asimmetrica e multiforme delle minacce, il già segnalato andamento frastagliato della costa, le acque non particolarmente profonde (che aumentano le problematiche di clutter marino rendendo difficile l’individuazione di sommergibili e midget) e le traiettorie obbligate che riducono la libertà di movimento per le grandi navi da combattimento necessarie a scortare le unità dragamine, un intervento navale volto a ripristinare la libera circolazione nello stretto di Hormuz, richiederebbe tempo ed un’attenta pianificazione, mentre ogni singolo giorno di impraticabilità dello stretto genererebbe danni per miliardi di dollari alla già asfittica economia globale, con prezzi del petrolio alle stelle e export per lo meno dimezzato per le economie del Golfo.

Va infine rilevato che, la principale remora del regime iraniano all’attuazione di un simile atto di ritorsione, ovvero la certezza di danneggiare anche il proprio flusso di export di petrolio, che utilizza la stessa rotta è venuta a cadere con l’imposizione dell’embargo USA e UE al greggio iraniano che sta dando un colpo durissimo alla già traballante economia persiana.

Attacco con missili balistici alle infrastrutture petrolifere e militari dei Paesi del CCG

In alternativa o in aggiunta a quanto esposto, le autorità iraniane potrebbero colpire selettivamente i Paesi del CCG con l’arsenale missilistico. Secondo l’ultimo report del Dipartimento della Difesa americano, datato aprile 2012, l’Iran ha compiuto notevoli progressi nel miglioramento della propria tecnologia missilistica ed in particolare ha ottenuto significativi risultati in termini di raggio d’azione, letalità e accuratezza dei sistemi. Viene inoltre precisato che l’arsenale missilistico iraniano consiste primariamente di lanciatori mobili non legati a postazioni di lancio prefissate e quindi dotati di migliori possibilità di sopravvivenza in caso di attacco a sorpresa.

Attualmente, sebbene gli analisti occidentali siano abbastanza divisi sulla reale consistenza e gittata dei missili balistici iraniani, è possibile delineare un quadro sufficientemente chiaro per quanto concerne i sistemi a breve raggio (SRBM) in quanto risultano in servizio: Scud B, Scud C, M-7 (CSS-8), M-9 (CSS-6), M-11 (CSS-7), Fateh-110 e Zelzal. Questi ordigni, utilizzabili da meno di un centinaio di lanciatori, tutti con gittate comprese tra i 200 e i 1000 km utilizzano combustibile liquido, ad eccezione del Fateh-110, possono caricare testate singole o a submunizioni e sono già in grado di minacciare porti e installazioni strategiche dei Paesi del CCG, tra cui la sede della Quinta Flotta USA in Bahrain che dista solo 120 miglia dalle coste iraniane.

Per quanto riguarda i missili balistici a gittata intermedia (MRBM) la parte del leone spetta al missile balistico Shahab-3 nelle sue diverse versioni, che possiede una gittata compresa tra i 1800 km (effettivamente accettati dall’intelligence occidentale) e i 2500 km dichiarati dalle autorità iraniane. Tale famiglia di ordigni, è caratterizzata da lanciatori mobili, da un’alimentazione a combustibile liquido, oltre alla possibilità di impiego di testate a submunizioni. Se il raggio d’azione di 2500 km fosse confermato, gli Shahab sarebbero in grado di raggiungere qualsiasi punto dei Paesi del CCG. Infine l’ultimo nato in questa categoria dovrebbe essere il missile Sajil, che si caratterizza per l’introduzione dell’alimentazione a combustibile solido, la gittata di 2000 km e ulteriori miglioramenti in termini di precisione e di varietà del payload. Il Sajil, se fosse già operativo in molti esemplari, consentirebbe agli iraniani di superare quello che per ora è il maggior limite della propria forza missilistica e che in parte annulla i vantaggi della mobilità, ovvero l’alimentazione a combustibile liquido che richiede lunghi tempi di lancio rendendo così possibile l’avvistamento dei lanciatori. A fronte di tali potenzialità iraniane i paesi del CCG sono comunque in grado di contrapporre uno dei più moderni e stratificati sistemi di difesa antimissile basato principalmente sulle batterie di missili MIM-104 Patriot PAC-3 e sul già citato nuovo sistema THAAD in via di schieramento negli UAE assieme al radar di scoperta in banda x AN-TPY-2 destinato al Qatar, coadiuvati dalle unità da difesa aerea d’area dell’US NAVY, incrociatori (CCG) e cacciatorpediniere (DDG) lanciamissili dotate di sistema AEGIS e missili Standard SM-3.

Destabilizzazione e terrorismo

L’ultima forma di rappresaglia ipotizzata, sicuramente più indiretta, ma non meno insidiosa nel lungo periodo, è il supporto militare e logistico massiccio dell’Iran alle rivendicazioni delle componenti sciite presenti negli stessi Paesi del CCG o ai loro confini. Il regime degli Ayatollah potrebbe tentare di destabilizzare il Bahrain (governato da una dinastia sunnita, ma abitato in gran parte da sciiti e già teatro di violenze settarie lo scorso anno), influenzare negativamente la situazione in Iraq riprendendo a foraggiare la guerriglia sciita (determinando la frantumazione per linee etniche del Paese) e in Yemen trasformandolo definitivamente in un failed state; inoltre potrebbe tentare di sobillare la componente sciita del Kuwait (che rappresenta il 30% della popolazione del paese) e soprattutto quella della Provincia Orientale dell’Arabia Saudita, ricca di petrolio e abitata in gran parte dalla minoranza sciita. In questa regione si sono verificate manifestazioni di sostegno alla ribellione sciita nel vicino Bahrain del 2011, sfociate in disordini e scontri anche a fuoco con le forze di sicurezza saudite. E’ plausibile dunque ritenere che la Provincia Orientale sia una dei canali di pressione che Teheran può sfruttare a suo vantaggio in caso di ostilità. Infine a corollario di questa strategia incentrata sulla penisola arabica i Pasdaran potrebbero sfruttare la rete logistica degli Hezbollah e gli operativi della Forza Qods per colpire soft target ad alto valore simbolico all’estero riconducibili ai Paesi del CCG, come è già accaduto recentemente con il progetto del fallito attentato all’ambasciatore saudita in USA.

Per concludere, un’operazione di attacco agli impianti nucleari iraniani senza il diretto coinvolgimento delle forze USA sarebbe destinata, nel migliore dei casi, ad un successo solo parziale, ovvero il rallentamento del programma nucleare, ma esporrebbe le monarchie del golfo e le basi USA nell’area ad azioni concrete di rappresaglia con il rischio dello scoppio di un conflitto regionale su vasta scala che né gli USA né i loro partner del CCG attualmente vogliono.

Conscia dei rischi e desiderosa di evitare di finire tra i potenziali obiettivi di azioni di ritorsione iraniane, l’Arabia Saudita, Paese leader del CCG, ha ritenuto di far trapelare tramite la stampa, che abbatterà qualunque velivolo con la Stella di Davide che tentasse di attraversare il suo spazio aereo per raggiungere l’Iran, ponendo un ulteriore ostacolo alla fattibilità del raid e smentendo le voci che volevano i sauditi pronti a chiudere un occhio pur di vedere depotenziati i rivali iraniani.

In conclusione, qualora il combinato di sanzioni e pressioni internazionali non riuscisse ad ottenere il risultato sperato (e non è detto, dato che l’Iran ha già ridotto l’export di greggio del 50%, con gravi danni per la sua economia, l’inflazione viaggia al 30% annuo, la moneta ha perso il 50% del valore sul dollaro ed il malcontento popolare inizia a montare) è lecito ritenere che un’eventuale iniziativa militare esclusivamente israeliana avrebbe un’efficacia ridotta e, molto probabilmente, controproducente in quanto consentirebbe all’Iran di disporre di maggiori capacità di rappresaglia rispetto ad un intervento a guida statunitense. Parimenti, bisogna aggiungere che, man mano che s’innalza la tensione regionale, diviene sempre più difficile immaginare uno scenario di rappresaglia iraniana che non costringa gli Stati Uniti al confronto militare.

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