Minori jihadisti tornano dalla Siria in Europa, che fare di loro? _ International Business Time

Minori jihadisti tornano dalla Siria in Europa, che fare di loro? _ International Business Time

12.03.2017
  • Oltre ai foreign fighters “di ritorno” occorre pensare anche ai minori che rientrano in UE dai territori del califfato;
  • Il rischio di attacchi in Europa potrebbe aumentare e Bruxelles rivede le norme del regolamento Schengen;
  • Monitorare tutti i sospetti foreign fighters è praticamente impossibile per chiunque.

Con la stretta finale su Raqqa e Mosul la fine del califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, leader e ideologo di Daesh, è sempre più vicina e presenta il suo salato conto da pagare: il possibile ritorno dei foreign fighters.

La questione è stata già denunciata, ma mai affrontata realmente, più volte nel corso degli anni ed ha cominciato ad essere presente sui media di tutto il mondo in tempi più recenti: sembra che la politica e le diverse agenzie di sicurezza nazionale non abbiano ancora pronto un piano operativo per l’identificazione, la de-radicalizzazione o la repressione dei combattenti che fanno ritorno a casa.

Sono circa 40.000 i combattenti stranieri che, partendo da 110 nazioni diverse, hanno raggiunto i territori del califfato in Siria e Iraq per combattere e perorare la causa di Daesh: molti paesi, come l’Italia, hanno legiferato rendendo illegale l’unirsi alla lotta armata islamista in quei territori, come anche il favoreggiamento, considerati oggi nella sfera di reati del terrorismo. Alcuni paesi come la Tunisia o il Marocco - ma la cosa è dibattuta anche in qualche cancelleria europea - stanno studiando la fattibilità di revocare la cittadinanza a quelle persone partite per combattere con Daesh, rendendole così apolidi e irricevibili dalle autorità nazionali di praticamente qualsiasi paese del mondo. Di fatto condannandole alla transumanza perpetua, il che significa lasciare che mine vaganti circolino liberamente sempre più arrabbiate.

Alcuni funzionari del governo inglese, citati dal quotidiano The Guardian, sarebbero particolarmente preoccupati non tanto dalla prospettiva del ritorno in patria dei combattenti fedeli al califfo quanto più di cosa fare dei bambini, alcuni dei quali nati nei territori dello Stato Islamico, che torneranno nel Regno Unito con i propri genitori. “L’unica esperienza analoga che abbiamo fatto fu la gestione dei bambini coinvolti nelle pratiche barbare di sette religiose estreme” hanno spiegato i funzionari britannici: “È possibile che tornino a casa indottrinati, che siano stati danneggiati e quindi siano profondamente pericolosi”.

“Il jihadista che torna ‘a casa’ in Europa è adesso ancor più pericoloso perché in questi mesi si è caricato di odio ideologico, alimentato anche dalla rabbia di non aver potuto contribuire a realizzare lo Stato Islamico che voleva costruire. Ecco perché c’è il rischio che qualcuno voglia mettere in pratica il progetto di trasferire nelle nostre città ciò che si vive oggi ad Aleppo, con autobombe ed attentati che puntino a riprodurre nei Paesi occidentali la situazione esistente in Siria o in Iraq” ha dichiarato all’AdnKronos, lo scorso ottobre, Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali.

La questione non è di poco conto: molti minori sono stati costretti a seguire la propria famiglia, dal Regno Unito come dalla Francia, dalla Germania come dai Balcani, dall’Italia e dal nord-Europa come anche da tutto il nord-Africa, sopratutto dalla Tunisia, magari partendo poco dopo la proclamazione dello Stato Islamico dal minbar di una moschea di Mosul ovest, avvenuta il 29 giugno del 2014. Sono passati oramai quasi tre anni, i bambini portati nei territori di Daesh all’età di 7-8 anni oggi ne hanno più di 10, hanno frequentato le scuole coraniche del califfo, qualcuno i campi di addestramento e molti, se adolescenti, probabilmente hanno anche imbracciato il kalashnikov. Altri nei territori del califfato ci sono nati e su di loro si pone un grave problema di cittadinanza. Tutti hanno assistito all’orrore della repressione dei tribunali islamisti, alle decapitazioni di massa e alle feste organizzate dai miliziani di Daesh per scaldare i cuori e “fare comunità”: “Si tratta di un sfida enorme per i tribunali familiari, il diritto di famiglia e l’assistenza sociale” scrive il Guardian.

Di recente Julian King, commissario europeo per la sicurezza (a dispetto della Brexit è inglese), si è detto preoccupato per il ritorno dei circa 850 foreign fighters britannici che potrebbero “tornare con l’intenzione di pianificare ed eseguire attacchi” nel prossimo futuro. Ragion per cui Londra lavora a stretto contatto con i funzionari turchi per intercettare i combattenti stranieri sulle linee ferroviarie (il mezzo più gettonato per rientrare a casa) e l’intelligence del Regno Unito tiene sotto controllo i movimenti di molti combattenti, una sfida importante per tutte le nazioni da cui sono partiti. Aeroporti come il Charles De Gaulle di Parigi hanno pianificato una forte stretta sui controlli passeggeri per identificare i sospetti e bloccarli ma i funzionari della sicurezza dell’Unione Europea hanno ammesso più volte che i servizi di intelligence comunitari, a L’Aja è operativo un gruppo centrale di antiterrorismo, non hanno le risorse né le capacità per mantenere gli occhi aperti su tutti i sospetti. Il problema riguarda davvero tutti: secondo l’FSB (l’intelligence russa) un anno fa erano ben 3.000 i cittadini russi arruolati tra le fila del califfato, la maggior parte di origini caucasiche (Cecenia, Daghestan, Inguscezia, Kabardino-Balkaria).

Le Monde ha pubblicato in prima pagina, il 21 febbraio scorso, un pezzo nel quale descrive un Eliseo “in grave imbarazzo” perché la Francia non vorrebbe che le siano consegnati combattenti francesi di ritorno da parte degli altri Paesi: “La sorte degli uomini combattenti è per noi decisamente meno importante di quella dei bambini e delle donne partiti come volontari. Una parte di loro, che attualmente lancia richieste di soccorso per poter rientrare, o che potrebbe arrendersi, sono sinceramente distrutti da tutto quello che hanno vissuto. Ma ci sono anche quelli che non hanno rinunciato alle loro convinzioni e che vogliono continuare ad agire rientrando in Europa” scrive il giornale francese citando una fonte “affidabile” dell’intelligence francese.

Dall’Italia i foreign fighers che hanno seguito le sirene del califfo sono stati circa un centinaio e in totale dall’Europa sono partiti circa 4.300 combattenti, uomini e donne e in alcuni casi famiglie intere. Il ministro dell’interno Marco Minniti, parlando il 3 marzo scorso ad un convegno organizzato dalla Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI) ha detto che “una parte significativa di questi combattenti è sicuramente morta sui campi di battaglia, ma un’altra parte ancora c’è e, quindi, c’è il rischio di una diaspora di ritorno. […] È chiaro che abbiamo convissuto in passato, e probabilmente continueremo a convivere in futuro, con una minaccia terroristica particolarmente agguerrita”.

Ciò che sta facendo oggi l’Europa è cercare di arginare quello che potrebbe essere un fiume in piena: il nuovo regolamento adottato il 7 marzo dal Consiglio UE modifica le norme di Schengen e prevede controlli sistematici sui database per tutti i cittadini europei e non, siano essi in ingresso o in uscita dalle frontiere esterne dell’Unione. Ragion per cui Bruxelles tollera, e in parte vorrebbe copiare, il modello di accoglienza dell’Ungheria (che ha varato una legge per deportare i migranti e i richiedenti asilo all’interno di container posti lungo il confine meridionale con la Serbia, dove saranno trattenuti fino al probabile rigetto della domanda di accoglienza), promuove politiche come quelle dei respingimenti dei naufraghi provenienti dalla Libia, foraggia dittature spietate come quella del Sudan e dell’Eritrea per “risolvere le cause delle migrazioni” a suon di formazione militare, forniture e centinaia di milioni di euro e addirittura emette sentenze, come recentemente ha fatto la Corte Europea di Giustizia, che affermano che gli Stati membri dell’UE non sono obbligati a dare i visti umanitari e quindi una famiglia siriana rifugiatasi in Libano e richiedente un visto di 90 giorni per il Belgio può tranquillamente restare dove sta, visto che c’è il “rischio” che una volta in Belgio facciano richiesta di asilo.

Le questioni sul tavolo sono moltissime. Garantire la sicurezza da un lato e il rispetto del diritto umanitario dall’altro, come anche mantenere gli obblighi internazionali che le nazioni europee sarebbero tenuti a rispettare. Ma c’è un elemento sul quale si discute molto poco e che invece ha una rilevanza enorme: i minori nati da genitori combattenti europei nei territori del califfato, quelli che sono stati portati lì con la forza ed oggi sono sopravvissuti, quelli che sono diventati maggiorenni nel frattempo, giovani menti indottrinate e plagiate dalla propaganda islamista, che fine faranno? Che tipo di accoglienza, quali percorsi di recupero, sono previsti per questi innocenti?

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