I pirati dei Caraibi (e non solo)
Golfo del Messico, 11 novembre 2019. Otto uomini armati salgono a bordo di una nave battente bandiera
italiana e sparano.
Un marittimo, Vincenzo Grosso, viene ferito alla gamba. Se la caverà. Gli assalitori arraffano quel
che possono e fuggono in meno di dieci minuti. La nave si chiama Remas e appartiene alla Micoperi, società di Ravenna che svolge la manutenzione delle piattaforme petrolifere per contodella compagnia messicana Pemex con cui ha un contratto da 220 milioni di dollari. Il blitz della Remas non è episodico, ma solo l’ultimo di una serie di attacchi alle infrastrutture petrolifere nel Golfo del Messico, dove i pirati attaccano per rubare carburante ma anche solo oggetti di valore dall’equipaggio (è il caso della nave italiana) e attrezzature tecniche, che poi rivendono al mercato nero.
In Messico un simile abbordaggio non accadeva da anni, ma in Venezuela episodi simili avvengono in media uno ogni 40 giorni, con il picco nel 2017, quando se ne sono verificati 11. A settembre 2019 erano già sei gli assalti in Venezuela, cinque in Perù, tre in Colombia e in Ecuador, due in Brasile, uno rispettivamente a Panama, Repubblica Dominicana e Haiti. Totale: 23 atti di pirateria marittima conclamati.
Niente di fronte alla media africana (54 episodi nel medesimo periodo) e asiatica (40). Nel mondo, dal 2015 a oggi ci sono stati quasi mille assalti di pirateria di cui si ha conoscenza diretta, anche se a volte
le compagnie preferiscono tacere per ragioni di opportunità. A farne le spese nel 2019, le navi battenti bandiera delle Isole Marshall (22 episodi), Liberia (18) Singapore (17) e Panama (10).
Se dalla fine degli anni Novanta fino alla metà del 2000 gli incidenti erano segnalati principalmente dall’Asia, dal 2005 al 2013 la maggior parte ha riguardato la pirateria africana, somala in particolare.
Oggi, anche se il fenomeno cresce rapidamente in Sudamerica, è il Golfo di Guinea a farla da padrona. In
Somalia, gli attacchi vengono portati in maniera sistematica soprattutto da gruppi di guerriglieri armati di kalashnikov e i cui motoscafi hanno mortai da 82 millimetri, tali da centrare un obiettivo a 5 chilometri
dalla costa. Di solito, il movente è meramente economico, ma capita che i sequestri delle navi abbiano anche un valore territoriale o politico. È il caso del Golfo di Aden, dove da anni le petroliere
saudite e iraniane (o che, comunque, commerciano per loro conto) sono prese di mira dai pirati, ritrovandosi al centro di episodi motivati tanto dalla guerra fredda in corso tra Riad e Teheran, quanto da
quella calda in atto in Yemen.
Diverso il discorso in Nigeria, cui spettail primato di assalti anche nel 2019: sono già 29 quelli portati a termine al 30 settembre scorso. A queste latitudini, leazioni di pirateria sono una costante. A pianificarle oggi sono prevalentemente i jihadisti di Boko Haram, che agiscono secondo modus operandi e tecniche consolidate, per finanziare la guerra contro lo Stato centrale che i guerriglieri del Borno hanno scatenato in nome del Jihad, a partire dalla comparsa dello Stato Islamico
nel 2014 (cui Boko Haram era affiliata).
Nel Golfo di Guinea gli arrembaggi hanno una lunga tradizione, che i mercantilihanno imparato a conoscere fin dal 1301. Ancora oggi, è il mare dove non solo si verificano più azioni di pirateria, ma anche il cuore dei sequestri di navi e persone, con l’86 per cento degli episodi di sequestro degli equipaggi a livello globale e quasi l’82 per cento di sequestri di navi, con 74 membri di equipaggi rapiti
in 14 incidenti solo quest’anno.
Secondo Marco Di Liddo, senior analyst del Centro Studi Internazionali di Roma, «la pirateria nel Golfo di Guinea è in costante e significativa ascesa. Mentre la pirateria nel Golfo di Aden, quella dei pirati somali per intenderci, è da otto anni in drastico calo, quella nel Golfo di Guinea cresce. Questi pirati sono in
larga maggioranza di origine nigeriana, provengono dagli Stati federali del sudovest (Delta e Bayelsa su tutti) e sono di etnia Ijaw e Igbo. Due popoli che, sin dall’origine della Nigeria indipendente
nel secondo dopoguerra, hanno subìto una pesante discriminazione politica ed economica. Minoranze, cioè, che vedono le proprie terre natie soffrire per i costi dello sfruttamento indiscriminato dei giacimenti di petrolio che, provocando inquinamento, danneggiano le attività di pesca, agricoltura e allevamento. Non bastasse, il governo elargisce pochi fondi per lo sviluppo locale. Igbo e Ijaw si sentono derubati dallo Stato e abbandonati a loro stessi».
Un bel problema anche per la Cina: in quest’area ha grandi interessi economici collegati al progetto Belt and Road Initiative, che teme di vedere danneggiato
dalle continue azioni di pirateria. Secondo Antonio Selvatici, docente di master d’Intelligence presso l’Università di Firenze, Tor Vergata e Università della Calabria, Pechino oggi sarebbe pronta addirittura a
intervenire militarmente a tutela dei suoi faraonici investimenti legati alla Via della
Seta: «Le azioni di pirateria infastidiscono i cinesi, le cui navi militari hanno accesso nei porti civili dual use, da loro finanziati,costruiti e gestiti, così come nel Pireo e a Gwadar, in Pakistan.
Non è un caso se di recente la fregata cinese Yancheng abbia partecipato alle esercitazioni navali nel Golfo di Guinea potendo usufruire di un ricovero nel porto nigeriano. Tra i due Paesi vi è un’intesa
profonda che riguarda l’aspetto economico ma anche militare: due navi corvette
costruite dalla China Shipbuilding Industry Corporation sono state acquistate dalla Nigeria. Il piano di sicurezza China Africa Action Plan, le navi militari cinesi che aderiscono all’Anti Piracy Task Forces e il sofisticato Beidou Satellite System potrebbero presto rafforzare la presenza cinese nel Golfo di Guinea. Quindi sì, la Cina già oggi può intervenire militarmente contro la pirateria, in ragione degli importanti interessi economici e legami politici e militari con i Paesi affacciati sul Golfo».
I pirati colpiscono ovunque vi siano significative rotte commerciali, nonostante tali autostrade marittime siano presidiate da navi militari. Le ridotte dimensioni delle barche da assalto e la rapidità dei blitz rendono estremamente difficile contrastare il fenomeno. Nella maggior parte dei casi, la pirateria mira
alle imbarcazioni mercantili ancorate o in procinto di esserlo, quasi mai a quelle ormeggiate in porto. Colpisce soprattutto le seguenti tipologie di navi: portarinfuse (adibite al trasporto di carichi non stivati
in container), navi-cisterna (chimiche e prodotti), portacontainer e contenitori, petroliere, rimorchiatori. Il metodo preferito è l’abbordaggio: un protocollo che prevede la salita a bordo di una parte
del gruppo di assalitori - una costante immutabile negli anni - seguito dal tentativo di dirottamento. Che, però, riesce solo raramente: tra il 2018 e il 2019 su 220 atti di pirateria, l’abbordaggio è stata effettuato 202 volte, il dirottamento solo otto (con 42 tentativi non riusciti, però).
Chi immagina che ad assaltare le
enormi navi commerciali con semplici barchini siano gruppi di disperati o ex pescatori di aree marittime distrutte dall’inquinamento o dai rifiuti tossici smaltiti illegalmente (vedi Somalia), ha ragione solo in parte. Vero è che permane una forte componente di assalti all’arma bianca, ma il pirata del terzo millennio è sempre più spesso un ex militare o paramilitare, o un navigato terrorista, che sceglie
l’obiettivo con ricerche approfondite sul web, e usa smartphone moderni con app dedicate al rilevamento satellitare per selezionare la «preda». Può utilizzare anche canocchiali di
ultima generazione e visori notturni che gli consentono di evitare attacchi alla luce del sole, così da non essere avvistato. Impiega armi non convenzionali come mitragliatrici e lanciarazzi (più per «fare scena»
che per reale necessità), e non disdegna raffiche di avvertimento prima di colpire. Inoltre, la sua imbarcazione è quasi sempre di scarsa qualità per simulare agli occhi del timoniere che si tratti di una comune barca di pescatori. Dotata, però, di potenti motori fuoribordo.
Il problema della pirateria per chi la subisce non sta tanto nel numero o nella pericolosità degli episodi, piuttosto nelle regole d’ingaggio. Pur avendo a bordo militari o contractor, gli armatori e la legge del mare non sempre sono riuscite a definire i protocolli da usare in tali situazioni di rischio. Un
esempio su tutti, nel 2012, quello dei marò Salvatore Girone e Massimiliano La Torre che scortavano in funzione anti-pirateria una petroliera italiana e che sono stati arrestati dalle autorità indiane per l’uccisione di due uomini su un peschereccio.