Siria: un nuovo narcostato sul Mediterraneo?
All’indomani dello scoppio delle Primavere Arabe sarebbe stato difficile prevedere il collasso economico e politico siriano a seguito di una sanguinosa guerra civile durata più di un decennio. Ancora più complesso, però, sarebbe stato immaginare la recente trasformazione istituzionale di questo Paese verso la forma di un “narcostato”, con tutte le drammatiche conseguenze che questo fatto comporta sulla vita dei civili e sulle possibilità di una stabilizzazione interna di lungo periodo.
Come riportato anche da autorevoli fonti giornalistiche (quali il New York Times e l’Economist), la Siria è recentemente diventata uno dei principali hub mediterranei per la produzione e il commercio di droga, in particolare di captagon. Questa sostanza, un’anfetamina prodotta originariamente durante gli anni ’60 nella Germania Occidentale per stimolare l’attenzione, è stata messa al bando circa quarant’anni fa a causa dei suoi alti livelli di dipendenza. Ciononostante, la sua produzione è continuata ad alti ritmi per via della diffusione che il captagon ha avuto – e continua ad avere – nella Penisola Arabica, soprattutto in Paesi come gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar e l’Arabia Saudita. A contribuire, infine, alla sua larga diffusione ha avuto un ruolo centrale anche lo Stato Islamico, che dal commercio illegale della sostanza ha tenuto ricavi utili per finanziare alcune sue imprese criminali, tra cui gli attentati di Parigi del 2015.
Ad allarmare i principali osservatori internazionali non è però il fatto che si sia sviluppato un cartello della droga in quello che è de facto uno Stato fallito, quanto piuttosto che queste attività illecite stiano avvenendo sotto la guida diretta dell’élite militare e politica del Paese. La produzione e il commercio di captagon in Siria è infatti gestita principalmente dalla Quarta Divisione Corazzata, ovvero una delle migliori unità delle Forze di Sicurezza siriane¬ leali al Governo. Questa divisione è comandata da Maher al-Assad, fratello minore del Presidente Bashar al-Assad e uomo estremamente potente nello scenario politico del Paese. Inoltre, anche Amer Khiti, noto uomo d’affari siriano arricchitosi durante la guerra civile per via di alcune attività legate al contrabbando, ha preso parte a queste attività.
Il coinvolgimento nella produzione del captagon riguarda, inoltre, le truppe di Hezbollah, un gruppo armato sostenuto informalmente dall’Iran stanziatosi da decenni nelle due aree a maggioranza sciita del Libano, ovvero nell’estremo sud e nel nord-est. Per questo motivo, una delle principali zone della Siria in cui si produce il captagon confina proprio con la Valle della Bekaa situata nel Libano orientale e già a lungo utilizzata dalle milizie di Hezbollah come centro nevralgico per la produzione di hashish. L’altra zona della Siria dove attualmente avviene la maggior produzione di droga è la città portuale di Latakia. Qui è infatti nata una rete di produzione informale che fa affidamento, come luoghi di produzione, su case abbandonate o capannoni dismessi direttamente protetti dalle milizie armate. Una volta prodotto, il captagon – o le altre sostanze stupefacenti – segue due diverse rotte commerciali. Una parte viene spedita via mare direttamente dal porto della città, mentre la quantità restante viene contrabbandata in Libia e in Giordania e, solo in un secondo momento, inviata nella Penisola Arabica.
Le implicazioni di questa situazione sono duplici. Da un lato, è molto probabile che il contrabbando di sostanze stupefacenti abbia superato l’export legale complessivo del Paese che, nel 2020, è ammontato a 2,3 miliardi di dollari. Secondo alcune indagini indipendenti, infatti, il valore di mercato del captagon esportato dalla Siria nello stesso anno dovrebbe ammontare ad una cifra molto vicina ai 3,46 miliardi di dollari – questo dato potrebbe essere molto più alto se si includono anche tutte le altre tipologie di droghe esportate. Difficilmente, però, gli introiti generati contribuiranno alla ricostruzione economica e infrastrutturale del Paese. È anzi molto probabile che questa attività vada a finanziare in parte i gruppi armati che supportano e proteggono la produzione del captagon, come Hezbollah e la Quarta Divisione Corazzata, e in parte i conti privati di personalità vicine al Presidente al-Assad. Inoltre, alla luce delle attuali sanzioni statunitensi imposte all’economia siriana dal Caesar Act, il commercio di droga è diventato uno dei canali principali per fare entrare nel Paese una valuta forte come il dollaro americano. Dall’altro lato, la diffusione di questa nuova attività illecita rischia di minare seriamente le già deboli possibilità di ricostruzione del Paese.
Con il termine narcostato si è infatti soliti identificare una particolare situazione sociale e politica in cui sia i tre poteri fondamentali dello Stato e sia le Forze Armate sono infiltrate dai cartelli tramite meccanismi coercitivi o di corruzione. È possibile, inoltre, che i processi di produzione della droga siano guidati in maniera occulta da alcuni uomini facenti parte dell’esecutivo. In questi casi, però, una debole distinzione, sia formale che sostanziale, continua a dividere le istituzioni politiche e le attività illegali. In altre parole: il governo centrale, seppur in maniera inefficiente, tenta di combattere i gruppi legati alla criminalità organizzata. Nella situazione siriana questo paradigma è assente. L’Inviato Speciale per la Siria durante l’Amministrazione Trump, Joel Rayburn, contattato dal New York Times nel dicembre del 2021, ha dichiarato: «è letteralmente il Governo siriano ad esportare la droga. Non si stanno voltando dall’altro lato mentre il cartello conduce le sue attività. Sono proprio loro il cartello della droga». Al di là delle valutazioni strettamente teoriche, questa situazione mette in luce l’importanza del ruolo dello Stato nell’evitare la proliferazione di attività illecite grazie al monopolio dell’uso legittimo della forza. Una prerogativa, questa, completamente assente nel caso siriano, il quale presenta un coinvolgimento diretto dell’élite del Paese nelle stesse attività che sarebbe un suo dovere combattere.
Inoltre, questa trasformazione istituzionale è avvenuta all’interno di un quadro politico, sociale ed economico già particolarmente compromesso. In primo luogo, il governo di al-Assad non è ancora riuscito a riconquistare l’intero territorio nazionale del periodo pre-2011 che, attualmente, rimane conteso con i ribelli sostenuti dalla Turchia, dalle Forze Democratiche Siriane che comprendono numerose minoranze etniche, alcuni gruppi armati nel sud e i resti dello Stato Islamico perlopiù concentrati in alcune zone tra loro isolate nella parte orientale del Paese. In secondo luogo, il Presidente ha dovuto affidare la propria sopravvivenza politica a due attori chiave della regione mediorientale, ovvero Russia e Iran. Durante l’ultimo decennio questi due Paesi hanno fornito un forte sostegno militare alle truppe leali ad Assad, cambiando in maniera significativa l’inerzia della guerra civile. Questo supporto non è stato però concesso a titolo gratuito: Mosca e Teheran sono entrati nel conflitto con il fine di incrementare la loro influenza in Siria, soprattutto nella fase di ricostruzione del Paese. Per questo motivo, la strategia iraniana di “ibridazione” adottata con successo nel caso libanese grazie all’interferenza di Hezbollah nella vita politica del Paese rischia di essere replicata anche nel contesto siriano post-guerra civile, erodendo fortemente la legittimità dei futuri governi indipendentemente da chi sarà posto alla loro guida. Un discorso simile può essere esteso anche all’influenza che Mosca cercherà di esercitare su Damasco per ottenere contratti esclusivi per ricostruire le infrastrutture del Paese o, come già accaduto, per la ricerca di riserve energetiche nella zona economica esclusiva siriana. In terzo luogo, i principali indicatori socio-economici mettono in evidenza la drammatica situazione vissuta dalla popolazione civile siriana. Accanto all’aspetto più tangibile della guerra civile, ovvero la distruzione di città e infrastrutture vitali, sono emersi numerosi problemi legati alla malnutrizione, alla povertà, al lavoro minorile e alle violazioni dei diritti umani. Ad oggi, 12 milioni di siriani – su una popolazione totale di 18 milioni – non hanno un accesso stabile e continuativo al cibo. Inoltre, circa 500.000 bambini stanno attualmente vivendo in una situazione di malnutrizione cronica. Questo quadro è stato esacerbato dallo scoppio della pandemia di Covid-19, il cui impatto in Siria si è manifestato nel 2021 in maniera violenta: i prezzi del cibo sono aumentati del 236% mentre il tasso di povertà è cresciuto fino ad un allarmante 90%.
La Siria sembra dunque essere entrata in un vortice senza via di fuga. Da un lato, il collasso delle istituzioni economiche e politiche ha azzerato le possibilità di sviluppo endogeno di un Paese che continua a reggersi sugli aiuti umanitari per evitare la morte di milioni di individui. Dall’altro lato, la classe dirigente e le Forze Armate leali al regime, invece di garantire la stabilità e la sicurezza interna, hanno iniziato ad essere coinvolte direttamente in una serie di attività illecite – come la produzione del captagon – che sarebbe loro compito combattere. Queste tendenze non possono far altro che destare crescenti preoccupazioni, soprattutto tra coloro che avevano visto nelle Primavere Arabe un momento di rottura delle inique strutture politiche e sociali del Medio Oriente e che, legittimamente, avevano auspicato un futuro diverso e, con ogni probabilità, migliore.