Siria, resa dei conti tra Turchia e Russia a Idlib?
Nella notte del 27 febbraio, l’Aeronautica di Mosca ha condotto uno strike contro un convoglio militare turco nella provincia siriana di Idlib. L’obiettivo era una delle tante colonne di rifornimenti che Ankara invia da alcune settimane nell’area per fermare l’offensiva di Damasco e dei suoi alleati (Iran, gli Hezbollah libanesi e la Russia). In base alle dichiarazioni ufficiali turche, l’attacco ha causato il più alto numero di perdite dall’inizio del coinvolgimento diretto di Ankara nel Paese levantino nel 2016, ossia almeno 33 morti e 36 feriti. Per quanto la Turchia abbia manifestato immediatamente la volontà di non procedere in direzione di un’escalation con il Cremlino, attribuendo ufficialmente a Damasco la responsabilità del bombardamento, la situazione resta assolutamente gravida di tensioni e potrebbe conoscere ulteriori sviluppi già nelle prossime ore. In ogni caso, se si osservano gli sviluppi della crisi in corso a Idlib, si nota chiaramente un trend di conflittualità sempre più accesa tra Russia e Turchia, a dispetto di quella “relazione speciale” sinora maturata nel dossier siriano.
Lanciata nel dicembre 2019, il ritmo dell’offensiva lealista ha accelerato a cavallo tra gennaio e febbraio, provocando un sensibile aumento delle tensioni sull’asse Mosca-Ankara e mettendo in forte crisi il dialogo tra i due principali attori militari esterni attivi in Siria, rispettivamente schierati a sostegno delle opposizioni armate asserragliate a Idlib e del regime di Damasco. Prima i lealisti sono riusciti a riconquistare l’intera autostrada M5 tra Aleppo e Damasco e poi hanno saggiato le difese ribelli in più punti, prospettando un’ulteriore balzo in avanti verso il capoluogo con la presa dello snodo strategico di Saraqib, a meno di 20 km da Idlib. Su Saraqib, quindi, si sono concentrati i rinforzi e la controffensiva guidata dalla Turchia, che è riuscita a riconquistare il centro urbano tra il 26 e il 27 febbraio grazie soprattutto al supporto di sistemi d’arma anti-aerei spalleggiabili che hanno reso più proibitivo l’uso dello spazio aereo all’Aeronautica russa e siriana. Benché in questo lasso di tempo gli scontri nella regione di Idlib si siano moltiplicati, tuttavia, non si era sostanzialmente mai arrivati a un conflitto diretto tra militari turchi e forze russe. Su questo sfondo, l’attacco senza precedenti del 27 febbraio può rappresentare un giro di boa importante nella gestione del conflitto siriano, con ripercussioni sia sul piano militare che su quello politico.
Va detto che non si tratta certo del primo incidente che coinvolge militari turchi. Anzi, nei mesi e negli anni passati, Russia e Turchia sono state impegnate nella gestione quotidiana delle tensioni che ruotano attorno alla provincia di Idlib. Tuttavia, a complicare il quadro attuale non c’è soltanto l’alto numero di morti, che richiede necessariamente un qualche tipo di risposta proporzionata da parte turca e rischia di accendere un’escalation di portata più ampia. A ben vedere, la sclerotizzazione del dialogo russo-turco sulla Siria dipende da cause più profonde e strutturali, che hanno le loro radici negli obiettivi strategici divergenti perseguiti dalle due potenze.
Nell’ambito del dossier siriano, i rapporti tra Mosca e Ankara sono incardinati su un’intesa di carattere tattico e di breve respiro. Sia il Presidente turco Erdogan sia il suo omologo russo Putin hanno cercato, fin dal 2017, di presentare l’asse tra i due Paesi come un’alleanza solida, capace di costituire la spina dorsale di qualsiasi soluzione del conflitto siriano. Dopo una prima intesa seguita alla riconquista di Aleppo da parte dei lealisti (dicembre 2016), Turchia e Russia hanno perseguito una gestione più solitaria della crisi attraverso il cosiddetto processo di Astana (cui partecipa anche l’Iran sebbene in posizione più defilata). A dispetto del nome, il processo di Astana non è mai stato un vero percorso negoziale, basato su passi incrementali, inclusione progressiva di altri attori rilevanti (Damasco, le forze curde stanziate nel nord-est del Paese) e un obiettivo strategico condiviso da raggiungere. Al contrario, Astana è stata più che altro l’espressione di una volontà (e convenienza) politica reciproca, ma troppo spesso di livello tattico e sconnessa dalla realtà sul campo e dall’evoluzione della crisi.
La chiave di volta del processo, ovvero l’accordo di Sochi di ottobre 2018, è emblematico in questo senso. Dopo aver creato una cornice per un cessate il fuoco e una zona demilitarizzata a Idlib, l’intesa è stata ripetutamente violata decine se non centinaia di volte fin dalla sua entrata in vigore. A tenere vitale l’accordo di Sochi e l’intero processo di Astana, dunque, è un mero calcolo tattico, maturato alla fine del 2016 ad Ankara come a Mosca.
La Turchia aveva bisogno di evitare di essere estromessa dalla partita siriana, dossier troppo importante per Ankara visti gli oltre 1.000 chilometri di confine condiviso, la presenza di milizie curde sempre più organizzate anche politicamente e il ruolo-chiave della Siria come trampolino per la proiezione turca nel quadrante mediorientale. La perdita di Aleppo aveva frantumato le speranze del fronte ribelle di ottenere una vittoria per via militare. Il lancio di una serie di operazioni da parte turca dal 2016 nel nord-ovest del Paese, tra Afrin e Idlib, ha così garantito ad Ankara di mantenere un piede in Siria e di presentarsi alla Russia come un interlocutore imprescindibile. In quest’ottica, Idlib è la principale leva a disposizione di Ankara per orientare il decorso della crisi secondo i suoi interessi. Cedere all’offensiva russa significa per la Turchia vedere eroso gran parte del capitale diplomatico accumulato in anni di sostegno politico e militare al fronte ribelle, un’opzione che Erdogan non sembra assolutamente disposto a considerare.
Dal canto suo, la Russia ha concepito Astana e Sochi come strumenti per sfrondare l’affollata diplomazia internazionale che gravita attorno alla crisi siriana e, soprattutto, dotarsi di un formato ritagliato su misura che assicuri al Cremlino di restare saldamente al centro della scena. In tal modo, Mosca ha marginalizzato altri attori rilevanti, tra cui gli Stati Uniti e quei Paesi del Golfo che sono stati per anni i principali sponsor del fronte ribelle. In più il Cremlino ha creato un binario diplomatico parallelo (e, all’occorrenza, in competizione) rispetto a quello delle Nazioni Unite, in cui il peso di Mosca era annacquato dallo spiccato multilateralismo.
Come era già chiaro dall’inizio, il punto di caduta dell’impalcatura di Astana è proprio la questione di Idlib. In questa provincia si intersecano due spinte opposte e incompatibili. La Turchia è decisa a perfezionare in loco le credenziali di tutore delle forze di opposizione e ha la necessità che queste mantengano un controllo del territorio, espandano le strutture di governance approntate finora, e possano quindi acquisire credibilità politica oltre che militare. La Russia, al contrario, deve procedere alla riconquista della provincia di Idlib per neutralizzare un focolaio dell’opposizione troppo vicino ai gangli del potere di Assad (l’area costiera di Latakia, l’hub commerciale di Aleppo, altri importanti centri urbani dell’Ovest come Homs e Hama), per di più facilmente rifornibile attraverso il confine turco. Una mossa funzionale a diminuire progressivamente l’impegno militare russo in teatro, allo scopo di non gravare eccessivamente su un bilancio statale già in affanno e per di più in una fase in cui la Russia è attraversata da tensioni sociali in aumento. A queste difficoltà si aggiungono i problemi di gestione del rapporto con Assad, intenzionato a riprendere il controllo di tutto il territorio siriano e disposto a infrangere unilateralmente il cessate il fuoco a più riprese.
In base a quanto detto finora, è chiaro che gli accordi russo-turchi su Idlib sono soltanto una parentesi e non costituiscono in alcun modo un possibile germe per un dialogo più ampio sulla conclusione del conflitto nelle sue dimensioni politiche, economiche e sociali. Anche qualora i due Paesi raggiungessero un nuovo accordo per il cessate il fuoco su Idlib, questo non sarebbe risolutivo se fondato sui presupposti di Sochi, che non prevedono alcun consenso circa il futuro assetto del Paese, il ruolo dell’opposizione politica ad Assad né tantomeno affrontano lo status post-conflitto di Idlib e delle altre aree siriane occupate dalla Turchia e dalle forze ribelli siriane pro-Ankara.
Ciò che lo strike russo contro il convoglio turco fa emergere, però, è anche un’altra considerazione. Astana e Sochi sono accordi frutto di alleanze tattiche e non possono supportare meccanismi efficaci di mitigazione delle tensioni e di de-escalation. Ciò che questi ultimi due anni è successo sul campo a Idlib ha costantemente sopravanzato gli accordi diplomatici, rendendoli sempre più inefficaci, distanti dalla situazione sul campo, strumenti difettosi di una diplomazia insufficiente e lenta rispetto alla rapidità di evoluzione del conflitto.
È su questo sfondo che va letto l’annuncio turco di spalancare le frontiere verso l’Europa e consentire il transito ai profughi siriani, in violazione dell’accordo raggiunto con Bruxelles nel 2016. Infatti, in tal modo Ankara prova ad ampliare il ristretto margine di manovra a sua disposizione nell’ambito del processo di Astana provando a forzare la mano ai Paesi europei. Il calcolo di Erdogan, in questo caso, è obbligarli a entrare nella partita per scongiurare l’arrivo di ingenti flussi migratori, che dopo il precedente del 2015 metterebbero a dura prova la coesione dell’Unione Europea. L’obiettivo ultimo è quindi spingere le cancellerie del Vecchio continente a fare pressioni sulla Russia affinché freni l’operazione su Idlib.
Va notato, quindi, che l’instabilità di alleanze tattiche come quella russo-turca può avere un impatto imprevisto su attori terzi, come l’UE e singoli Paesi europei. La risultante di tutto ciò sono crisi in cui alcuni degli attori coinvolti si vedono preclusa la possibilità di prendere realmente parte alla loro gestione, a prescindere dal loro peso geopolitico.
L’inefficacia di Astana è stata poi acuita dal tentativo di replicare l’intesa russo-turca anche su altri dossier regionali, il cui esempio più recente è la Libia. Qui i due Paesi hanno tentato a gennaio di prendere l’iniziativa diplomatica e dettare i tempi di risoluzione del conflitto, senza tuttavia riuscirci pienamente. La natura contingente dell’alleanza tattica che può esistere tra Mosca e Ankara è difficilmente una base solida su cui costruire un tassello dell’equilibrio regionale. Questo perché si tratta di un’alleanza instabile, che deve essere costantemente rinegoziata perché non è in grado di indirizzare gli eventi ma, anzi, ne subisce l’impatto. In questo senso, tanto Erdogan quanto Putin possono essere tentati di condizionare una concessione su un determinato dossier all’ottenimento di vantaggi su un altro.