Le sfide interne alla transizione tunisina
L’accordo del 14 gennaio tra gli islamisti di Ennahda (in arabo, “Rinascita”) e le formazioni laiche e di opposizione all’interno dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) tunisina che ha dato il via libera all’approvazione della nuova Carta fondamentale del Paese, nonché la nomina dall’ex Ministro dell’Industria Mehdi Jomaa alla carica di Primo Ministro al posto di Ali Laarayedh, sembrano rappresentare un momento di svolta per la Tunisia e il punto di arrivo della sua lunga crisi politico-istituzionale.
Radicatasi nel delicato equilibrio partitico che si era delineato all’indomani della caduta del regime di Ben Alì e delle elezioni dell’ottobre 2011, questa era culminata nei primi giorni di novembre 2013 nel fallimento del Dialogo Nazionale. Questo era un programma di negoziazioni lanciato alla fine di ottobre da un quartetto di mediatori appartenenti alla società civile, quali l’Union Générale Tunisienne du Travail (UGTT), l’Union Tunisienne de l’Industrie, du Commerce et de l’Artisanat (UTICA), la Ligue tunisienne des droits de l’homme (LTDH) e l’Office National de l’Artisanat Tunisien (ONAT), con lo scopo di avviare un confronto tra le parti politiche che portasse alla creazione di un governo tecnico ad interim per traghettare il Paese verso un’effettiva transizione democratica e al ridimensionamento del clima di tensioni e di violenza dell’ultimo biennio. Tale Dialogo si è tuttavia dovuto scontrare con le difficoltà sistemiche scaturite e alimentate sia dalla mancanza di un’attitudine al compromesso tra le formazioni di maggioranza e quelle d’opposizione sia, soprattutto, dalla scarsa coesione tra gli stessi elementi di Governo sia, infine, dalle spaccature sempre più nette all’interno del principale partito dell’Esecutivo, ossia Ennahda.
La diversità di orientamenti all’interno di Ennahda tra l’ala più moderata e favorevole al dialogo politico (rappresentata dall’ex Primo Ministro Hamad Jebali e dallo sceicco penalista e co-fondatore del movimento, Abdel Fattah Mouraou) e quella più conservatrice (vicina a Sadok Chourou, Presidente del movimento fino al 1991 e prigioniero politico fino al 2010) erano emerse con maggiore evidenza in occasione dell’omicidio ai danni di Lofti Naqdh, sindacalista e dirigente del partito neo-bourguibista e neo-liberale di opposizione laica di Nidaa Tounès. La crisi di governo apertasi a seguito degli assassinii di Chokri Belaid (Segretario del Partito dei Democratici Unificato, formazione del gruppo di sinistra del Fronte Popolare di Al Jabha Chaabia) e di Mohamed Brahmi (membro dell’ANC e coordinatore del Movimento del Popolo, formazione d’ispirazione nasseriana all’interno del medesimo Fronte), che hanno avuto l’effetto di rianimare le manifestazioni popolari, non solo ha fatto pendere l’ago della bilancia verso un Esecutivo condotto dalla fazione più ortodossa, estromettendo dunque lo stesso Jebali, ma ha anche rivelato le crescenti pressioni da parte della galassia salafita a cui è stata sottoposta Ennahda. La compiacenza, di cui il Partito della Rinascita è stato accusato, nei confronti delle formazioni salafite, tra cui Ansar al-Sharia, il movimento salafita radicale sospettato di esser coinvolto negli omicidi politici e nell’attentato all’Ambasciata USA di Tunisi del settembre 2012, si è peraltro affiancata a forme di violenza dirette da milizie ad esso collegate, le Leghe per la protezione della Rivoluzione (LpR). Nate come gruppi di protezione civile nelle aree maggiormente esposte a rischi per la sicurezza a seguito del collasso del regime precedente, queste entità hanno ottenuto il riconoscimento legale da parte del governo nel giugno del 2012 e, vicine alla stessa Ansar al-Sharia, si sarebbero rese responsabili di attacchi nei confronti di esponenti politici, attivisti e giornalisti.
Secondo i detrattori del partito di governo, Ennahda avrebbe un rapporto ambiguo con queste formazioni, il cui radicamento territoriale e sostegno popolare potrebbero essere da esso utilizzati per sopperire alle proprie lacune in termini di diffusione nel Paese e di apprezzamento presso le fasce sociali rurali e del sottoproletariato urbano. La crisi politica scoppiata in seguito all’omicidio di Belaid, insieme con la dichiarazione del leader di Ansar al-Sharia, Saif Allah bin Hassine, sul presunto sostegno ricevuto da al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI) e con l’innalzamento del livello di scontro delle formazioni jihadiste con lo Stato, in particolar modo nelle aree occidentali e di frontiera, ha portato ad un cambio di strategia del governo di Laarayedh nei confronti dei movimenti salafiti radicali: dall’estensione dello stato di emergenza, che ha impedito ad Ansar al-Sharia di tenere il proprio congresso annuale a Kairouan, al rafforzamento della cooperazione anti-terroristica con l’Algeria, fino all’inserimento dello stesso gruppo nella black list delle organizzazioni terroristiche a seguito dell’uccisione nel luglio 2013 di otto militari tunisini lungo le frontiere algerine (nell’area dei Monti Chaambi e nel governatorato dell’El-Oued). Un’azione, quest’ultima, che ha peraltro trovato una sponda nella messa al bando del movimento salafita tunisino e delle due entità omonime presenti a Derna e Bengasi (Libia) da parte del Dipartimento di Stato USA. L’intransigenza nei confronti dei gruppi salafiti ha evidentemente risposto alla necessità di ricompattare l’opinione pubblica intorno alla discussa azione di governo e di riconferire pertanto all’Esecutivo la necessaria credibilità in politica interna e di sicurezza.
In questo senso anche le critiche mosse dagli altri due partiti di governo (i secolaristi di Ettakatol e il Congresso della Repubblica del Presidente Marzouki) nei confronti della gestione della crisi economica e sociale da parte di Ennahda hanno costituito un ulteriore fattore di debolezza per il partito in questione. L’erosione del gradimento popolare a cui gli islamisti sono andati incontro ha pertanto avuto come effetto quello di radicalizzare la polarizzazione interna al partito e di rafforzarne la frangia massimalista, che nelle formazioni salafite ha cercato una spalla per mantenersi al governo. L’attuale compromesso in seno all’ANC non lascia tuttavia Ennahda immune da nuove possibili situazioni di spaccatura: qualora, in occasione delle prossime elezioni legislative, non dovesse raggiungere un risultato superiore o quanto meno pari a quello delle ultime consultazioni (37%), non può escludersi un ulteriore consolidamento dell’ala conservatrice. Un eventuale successo delle forze socialiste e un’affermazione di quelle salafite, verso cui l’elettorato è sembrato riorientarsi in segno di disapprovazione nei confronti dell’azione di governo, rischiano infatti di indebolire la fazione moderata di Ennahda, riducendola ad un ruolo sempre più marginale a causa anche dell’incapacità di tale corrente di coagularsi come fronte compatto e di spicco dinnanzi allo schieramento di opposizione tanto eterogeneo quanto strutturalmente debole: il Fronte di Salvezza Nazionale (FNS).
Nonostante il tentativo di dettare condizioni all’interno dell’ANC anche attraverso l’autosospensione dei lavori di un terzo dei propri deputati, l’FNS – la piattaforma politica che raggruppa un cospicuo numero di partiti di sinistra e che fanno parte del Fronte Popolare, del Partito Repubblicano, dell’Unione per la Tunisia e del movimento giovanile Ekbess – non ha infatti avuto la capacità di porsi come autorevole attore politico di opposizione, limitandosi piuttosto all’appoggio dell’azione di mobilitazione delle rappresentanze sindacali e dell’UGTT. Con le sue 150 sezioni locali, un ufficio in ogni governatorato e in ogni distretto, e con oltre 680mila iscritti, il sindacato, infatti, costituisce, fin dalla sua fondazione (1946), l’unica alternativa credibile ai partiti di governo: in continuità con il supporto alle istanze popolari nel corso delle rivolte del pane del 1984, delle manifestazioni nel bacino minerario di Gafsa nel 2008 e delle proteste contro il regime benalista del 2011, l’UGTT ha sopperito alla mancanza dei partiti nelle aree centrali del Paese e alla loro incapacità di raccogliere le grandi masse in queste stesse zone. Provengono infatti dal cuore della Tunisia (dai territori di Gafsa, Kasserine e Sidi Bouziz), dove cioè i sindacati sono considerati la sola forma di opposizione organizzata, le maggiori proteste contro il governo centrale e i più significativi episodi di violenza. Anche in questo caso l’atteggiamento di Ennahda è stato ambiguo: nonostante le ripetute promesse di adozione di apposite misure speciali volte a placare gli scontri, le LpR si sarebbero rese responsabili di ripetuti attacchi contro le sedi dell’UGTT. L’impegno del sindacato si è ad ogni modo sempre tradotto in un sostegno ad un governo di responsabilità nazionale: dalla crisi del governo Jebali fino al lancio del Dialogo Nazionale, esso ha sempre appoggiato la creazione di un governo tecnico di transizione e in quest’ottica si sono tenuti diversi incontri tra Marzouki e il Segretario dello stesso sindacato, Hassine Abassi. Alla luce dell’importanza rivestita dall’UGTT, è chiaro che il solo sostegno da parte del FNS alla sua opera di mediazione e le ripetute fasi di stallo in seno all’ANC di cui lo stesso Fronte è stato più volte artefice, hanno finito con l’infiacchire ulteriormente l’immagine del gruppo di opposizione, contribuendo ad una riabilitazione della cosiddetta “troika” di governo e allontanandone le dimissioni.
Per quanto i laici di Ettakatol abbiano più volte paventato di uscire dall’Esecutivo per dar luogo ad una coalizione con la formazione laica e centrista di Nidaa Tounès, e per quanto anche Marzouki si sia detto disposto a lasciare la propria carica in favore del suo leader Beji Caid Essebsi (già Premier ai tempi di Bourghiba e capo del governo di transizione fino alle elezioni del 2011), resta pur vero che l’attuale disponibilità di Ennadha di procedere sulla strada del compromesso con i partiti secolaristi potrebbe dare nuovo slancio all’azione politica del partito islamista e del suo governo. Il superamento del braccio di ferro sulla nomina del nuovo Primo Ministro (l’FNS si opponeva alla figura di Ahmad Mestiri, sostenendo di contro Mohammed Ennaceur, entrambi ex Ministri sotto Bourghiba e ritenuti più o meno legati all’Esecutivo) e l’accordo raggiunto sulla nomina dei 9 membri dell’Instance supérieure indépendante pour les élections (ISIE, all’interno del quale Ennahda ha sempre lamentato la sottorappresentanza), sembrano tracciare un quadro politico favorevole alla stabilizzazione. A questa concorrerebbe anche la riconferma di Lofti Ben Jeddou al Ministero degli Interni, figura contestata a causa delle accuse mossegli dalle opposizioni per non aver preso adeguate misure per evitare l’omicidio di Brahmi: il contrasto è stato infine risolto con l’ottenimento da parte del Presidente dell’ANC, il leader di Ettakatol Mustapha Ben Jafaar, della gestione finanziaria e amministrativa dell’Assemblea e con l’affidamento dell’incarico di Ministro di Stato per la Sicurezza Nazionale a Rihda Sfar, indipendente e considerato tra i massimi esponenti tunisini in materia di sicurezza. Nonostante la disponibilità al compromesso, gli islamisti dovranno confrontarsi con l’incremento dei consensi proprio di Nidaa Tounès, che secondo gli ultimi sondaggi potrebbe essere in grado di raggiungere il 28% delle preferenze con il possibile effetto – come si accennava poc’anzi – di riaprire le fratture all’interno di Ennahda. Si spiega così la recente dichiarazione di Rachid Ghannouchi, ideologo e leader del partito islamista, circa la possibilità di un’alleanza con Nidaa Tounès dopo le prossime elezioni, un’eventualità che finora la stessa Ennahda aveva scartato. A giocare un ruolo di primo piano sarà dunque ancora una volta proprio Ghannouchi, dalla cui capacità di saper continuare ad equilibrare nel medio-lungo periodo le fratture interne al suo partito dipenderà indirettamente anche la stessa stabilità dell’intero arco istituzionale.
In attesa delle nuove elezioni, che dovrebbero svolgersi entro e non oltre il 2014, i prossimi mesi saranno dunque decisivi per testare l’effettiva governabilità del Paese. Le sfide maggiori per l’Esecutivo di Jomaa non saranno solo quelle di saper gestire la transizione rispondendo alle istanze popolari e contenendo le crescenti spinte estremiste, ma anche quelle di verificare e tradurre in azioni concrete i risultati del compromesso politico. Il funzionamento della divisione dei poteri esecutivi tra Primo Ministro e Presidente decretato dal sistema semi presidenziale, la creazione di una nuova Corte Costituzionale e la garanzia dell’indipendenza della magistratura saranno il primo banco di prova per la riuscita del dialogo tra le parti. Si tratterà, in ultima istanza, di salvaguardare i principi e le formule d’inclusività su cui poggia la nuova Costituzione, nonché di difendere la base dei moderati – in realtà sempre più esigua – dai rischi della polarizzazione politica.