La situazione di Hong Kong a un anno dall’implementazione della Legge sulla Sicurezza Nazionale
È ormai passato un anno dall’entrata in vigore della Legge sulla Sicurezza Nazionale ad Hong Kong, il decreto legislativo promulgato da Pechino il 1 luglio 2020 che punisce gli atti di sovversione, secessione, terrorismo e collusione con le forze straniere compiuti nella Regione Amministrativa Speciale della Repubblica Popolare Cinese (RPC). Fin dall’inizio, la Legge sulla Sicurezza Nazionale è stata percepita come parte determinante degli sforzi del governo ciese per rimodellare il panorama istituzionale, legale, politico e mediatico di Hong Kong. A distanza di un anno, sarebbero 117 le persone arrestate ai sensi della Legge sulla Sicurezza Nazionale, di cui 64 sarebbero già state incriminate.
L’implementazione del provvedimento è stata utilizzata dalle autorità locali per ridurre in modo drastico gli spazi di espressione del movimento pro-democrazia e degli ambienti ad esso vicini. Lo scorso 28 giugno, la polizia di Hong Kong ha fatto irruzione nella redazione di Apple Daily, testata giornalistica da sempre apertamente a favore della libertà di stampa, arrestando il capo redattore Ryan Law con l’accusa di collusione con soggetti stranieri e congelando parte del capitale finanziario del giornale. L’editore di Apple Daily, Jimmy Lai, era stato arrestato nelle settimane precedenti per aver partecipato ad una manifestazione non autorizzata e le attività del giornale erano attenzionate dalla polizia dall’agosto 2020. La chiusura di Apple Dily è stato solo l’ultimo esempio del giro di vite imposto dalle autorità di Hong Kong nel corso degli ultimi dodici mesi, che ha riguardato anche la limitazione dell’accesso alle informazioni (molte piattaforme web sono state bloccate), l’introduzione di un curriculum accademico specifico a sostegno della Legge sulla Sicurezza Nazionale e la messa al bando dell’opposizione democratica. Lo scorso gennaio, le Forze di polizia hanno arrestato oltre cinquanta rappresentanti politici e attivisti pro-democrazia, per aver preso parte alle elezioni primarie che avrebbero dovuto definire la rosa dei nomi candidabili alle prossime elezioni per il rinnova del Consiglio Legislativo.
L’introduzione della Legge sulla Sicurezza è stata la risposta di Pechino alla sensazione di essere in procinto di perdere il controllo su una trasformazione sociale che era in corso nella Regione Autonoma.
A partire dal febbraio 2019, infatti, Hong Kong era stata animata da una serie di proteste di massa organizzate in seguito alla proposta dell’amministrazione filo-cinese guidata Carrie Lam di introdurre un disegno di legge sull’estradizione che rendesse possibile consegnare alla Cina continentale persone accusate di crimini e reati punibili con una pena superiore ai sette anni di detenzione. Le proteste sono dunque sorte per il timore che tale legislazione sottoponesse i residenti di Hong Kong alla giurisdizione de facto dei tribunali controllati dal Partito Comunista Cinese (PCC). Inizialmente, il governo cinese aveva lasciato che il movimento di protesta fosse gestito dalle autorità locali, dimostrandosi però preoccupato per la stabilità nella regione. Il movimento di protesta ha presto raggiunto una portata notevole, data anche dalla varietà dei partecipanti: politici, legislatori, studenti, civili. Le reazioni violente della polizia a fronte del proseguire delle manifestazioni hanno però generato un’escalation dei toni e la deriva di alcuni gruppi di manifestanti verso forme di manifestazione più violenta, che sono sfociati in veri e propri scontri di massa.
Il sostegno alle istanze democratiche era stato evidente anche in occasione delle elezioni locali per il rinnovo dei consigli distrettuali, che si erano tenute nel novembre 2019 e che avevano visto la vittoria schiacciante degli esponenti pro-democrazia.
L’instabilità nelle strade generata dalle proteste e il successo politico degli esponenti riformisti sembrano essere diventati così una combinazione troppo pericolosa agli occhi di Pechino che ha interpretato questi cambiamenti come una sfida aperta alla propria sovranità nazionale. Ciò è dovuto al fatto che, dal 1979, i rapporti tra Cina continentale e Hong Kong sono regolati dalla soluzione politica: “Un Paese, due sistemi” (一国两制 Yī guó liǎng zhì), secondo la quale si afferma l’unicità della Cina come soggetto politico la cui sovranità si estende sulla regione di Hong Kong, concedendone però lo status di area amministrata secondo un differente ordinamento istituzionale e contraddistinta da un sistema economico differente. In conformità con la “Dichiarazione Congiunta Sino-britannica” e con la “Legge Fondamentale di Hong Kong”, Hong Kong risulta essere una regione autonoma della RPC in tutti i settori, eccetto quelli della difesa e della politica estera. Siffatta autonomia è teoricamente garantita almeno fino al 2047 quando, secondo le condizioni sottoscritte dalla Dichiarazione Congiunta, la sovranità di Hong Kong tornerà a Pechino.
Hong Kong ha però percepito un’accelerazione del processo di trasferimento della sovranità al governo centrale cinese, principalmente in seguito a due eventi fondamentali. Nel 2014, un gruppo di attivisti pro-democratici aveva avviato un progetto politico per riformare il sistema elettorale di Hong Kong, avvertendo forti limitazioni in merito alla nomina del capo esecutivo della città. Il numero dei candidati era invero limitato, e doveva essere precedentemente approvato da un’apposita commissione nominata da Pechino. È seguita la cosiddetta “Rioluzione degli Ombrelli”, un’occupazione di strade e incroci importanti della città che invocava il suffragio universale per Hong Kong con slogan divenuti famosi a livello internazionale, quali: “Indipendenza per Hong Kong”, “Libertà per Hong Kong, la Rivoluzione dei Nostri Tempi”, o anche: “Porre fine alla dittatura del singolo partito-stato”. Facendo un ulteriore passo indietro, in linea con la situazione attuale, nel 2003 una legge simile a quella sulla Sicurezza Nazionale di Hong Kong aveva già visto un tentativo di approvazione da parte delle autorità. Anche in quel caso, l’iniziativa aveva scatenato considerevoli proteste popolari, garantendo una prima vittoria del fronte pro-democratico nella regione.
L’entrata in vigore della legge sembra così aver assestato un duro colpo al movimento pro-democratico e all’opposizione politica organizzata di Hong Kong, lasciando ben poche possibilità per poter esprimere il proprio dissenso nei confronti di Pechino. Parallelamente all’implementazione della Legge, infatti, Pechino ha continuato a modificare il quadro elettorale di Hong Kong, approvando a marzo 2021 una legge atta a cambiare la composizione del Legco in modo da assicurare la maggioranza dei seggi o a rappresentanti nominati dal governo o comunque filo-governativi e istituendo un comitato per l’approvazione preventiva dei candidati. Di conseguenza, quantunque i candidati pro-democratici potessero essere eletti dopo aver superato il nuovo comitato per l’esaminazione, il peso numerico sarebbe in ogni caso ridotto. Pechino, dunque, ha agito preventivamente per scongiurare un consolidamento del successo delle istanze pro-democratiche, considerate una minaccia per i propri interessi strategici. La Cina ha invero sottolineato la rilevanza di Hong Kong per continuare a sostenere lo sviluppo e l’ascesa pacifica della RPC, giustificando il suo intervento con il fatto che Hong Kong è profondamente legata al governo centrale, a sua volta intransigente sull’autorizzazione di manifestazioni violente e secessioniste. Agli occhi di Pechino, le riforme legislative di Hong Kong sono giustificate alla luce della strategia nazionale cinese, che con il “14° Piano Quinquennale di sviluppo sociale ed economico nazionale” (2021-2025) e i festeggiamenti per il centenario del PCC, ha posto un accento marcato sul ruolo del PCC e del presidente della RPC Xi Jinping nel perseguimento del cosiddetto “rinascimento” nazionale.
La gestione del dossier di Hong Kong ha contribuito ad irrigidire i rapporti tra Cina e la Comunità Internazionale. A novembre 2019, il Senato degli Stati Uniti aveva approvato all’unanimità una legge a protezione dei diritti umani a Hong Kong in relazione alla repressione cinese di un movimento di protesta democratico. Quando Pechino ha approvato la Legge sulla Sicurezza Nazionale è poi seguita una dichiarazione congiunta da parte dei governi di Stati Uniti, Australia, Canada e Regno Unito che si sono detti preoccupati per la decisione della RPC, ribadendo gli obblighi internazionali di Pechino nel rispetto della Dichiarazione Sino-britannica. Il primo luglio 2020, l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza Joseph Borrell ha inoltre riaffermato l’impegno dell’UE nella salvaguardia della stabilità, dell’autonomia e della prosperità di Hong Kong, conformemente alla normativa internazionale. In seguito, gli Stati Uniti hanno revocato lo status commerciale speciale di Hong Kong, applicando le stesse restrizioni in vigore con la Cina. Altri Paesi, tra i quali Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Germania, hanno poi sospeso i loro trattati di estradizione con Hong Kong.
Nonostante la pressione internazionale, però, il governo cinese non sembra intenzionato a concedere spazi rispetto alla gestione di un possibile cambiamento all’interno della Regione Autonoma. Al contrario, in un momento in cui le tensioni tra Pechino e parte della Comunità Internazionale sono particolarmente tesi, la volontà di lanciare un segnale di forza e di capacità di controllo su un dossier considerato come parte della propria politica interna potrebbe spingere Pechino ad assumere un atteggiamento sempre più intransigente verso ogni forma di possibile dissenso. Ciò avrebbe conseguenze dirette non solo sul già fiaccato movimento pro-democrazia, ma più in generale sulla possibilità a disposizione della società civile e della classe politica di trovare nuove forme di espressione di istanze diverse rispetto a quelle promosse dal governo.