La lotta per le risorse naturali: lo scontro Dogon-Fulani in Mali
Nell’ultimo anno la regione di Mopti, nel Mali centrale, è stata epicentro di diversi episodi di violenza inter-etnica che hanno causato centinaia di vittime, inclusi due casi di particolare rilevanza. Nello specifico, lo scorso 24 marzo, 160 Fulani sono stati assassinati nel villaggio di Ogossagou, nelle vicinanze di Bankass. L’attacco non è stato rivendicato, ma in virtù delle testimonianze dei locali e delle accuse mosse dai membri del villaggio ai miliziani di etnia Dogon, il governo ha sciolto, almeno formalmente, la milizia Dan Na Ambassagou (cacciatori che credono in Dio), ossia la loro principale milizia di autodifesa. A qualche mese di distanza, il 10 giugno, nel villaggio di Sobame Da, nei pressi della città di Sanga, 95 persone di etnia Dogon sono state uccise a seguito di un raid di rappresaglia da parte dei Fulani.
I motivi della contesa tra queste due etnie riguardano lo sfruttamento delle risorse naturali della fertile regione di Mopti, area adatta alle attività agricole per la presenza del delta interno del fiume Niger. Le dispute per l’accesso ad acqua e terre nell’area hanno origini secolari, ma l’intensificarsi di fenomeni climatici estremi ha esacerbato le conflittualità inter-etniche, rendendo sempre più aspra la competizione per il controllo delle poche risorse naturali a disposizione. In questa regione, di fatti, la temperatura media è destinata ad aumentare di 1,5 volte rispetto al resto del pianeta, andando così ad intensificare fenomeni di siccità e desertificazione.
I Dogon, circa il 9% della popolazione maliana, sono un’etnia di cacciatori e agricoltori, principalmente animisti, stanziati quasi interamente nella regione di Mopti. I Fulani, presenti nella gran parte dei Paesi dell’Africa occidentale, contano, a seconda delle stime, 20-30 milioni d’individui, per la maggioranza di religione musulmana sunnita. Di questi, circa un terzo, tra cui quelli gravitanti nel Mali centrale, sono pastori semi-nomadi dediti alla pratica della transumanza. Durante il lasso di tempo in cui sono fermi in un territorio, inoltre, le comunità Fulani mettono in opera tecniche di agricoltura temporanea di sussistenza, ovvero colture volte a soddisfare la esigenze della popolazione per i brevi periodi di stanzialità.
Queste due attività contribuiscono alla riduzione della quantità di terreni che gli agricoltori Dogon necessitano per portare avanti le proprie attività. D’altro canto, la sempre minore disponibilità di terre deriva anche dall’utilizzo di tecniche di agricoltura intensiva, in grado di aumentare la produttività a scapito della sostenibilità di lungo termine che accelerano il processo di desertificazione dell’area. L’utilizzo di colture intensive è fortemente incentivato dal governo maliano, al fine di trainare l’unico settore rilevante di export nel Paese. In questo modo, le politiche dell’esecutivo finiscono per favore gli interessi di una delle parti in causa, contribuendo così ad acuire lo scontro tra le due etnie.
Le problematiche collegate alla scarsità di risorse vengono inoltre ulteriormente aggravate dalla pressione demografica. Il tasso di crescita della popolazione maliana è del 3% annuo e si stima che questa dovrebbe raddoppiare entro il 2035.
Se le dinamiche demografiche e ambientali sono quindi alla radice degli scontri tra Fulani e diverse popolazioni sedentarie in tutta la regione saheliana, è la presenza di determinate condizioni politiche ad aver trasformato la regione di Mopti in un terreno di scontro di particolare rilevanza.
Il Mali ha assistito al rapido sgretolamento delle proprie istituzioni democratiche, fino ad allora considerate un’eccezione virtuosa per gli standard del Sahel, a seguito della ribellione dei Tuareg nel nord del Paese ad inizio 2012, alimentata dal successivo appoggio di gruppi jihadisti.
L’intervento di truppe francesi (operazione Serval, successivamente Barkhane), iniziato nel gennaio 2013 e conclusosi dopo un anno e mezzo, è stato decisivo nel placare le ostilità, ma da allora il processo di pacificazione dell’area ha compiuto pochi passi in avanti e larghe parti di territorio rimangono tutt’ora in mano a gruppi paramilitari, tra cui formazioni jihadiste riunite sotto l’insegna del Gruppo per la Salvaguardia dell’Islam e dei Musulmani (Jamaat Nosrat al-Islam wal-Mouslimin, JNIM).
Uno dei gruppi che nel 2017 ha dato vita a JNIM è il Fronte di Liberazione di Macina, composto prevalentemente da miliziani di etnia Fulani. Il collegamento tra jihadismo e Fulani è rinvenibile principalmente nelle rivendicazioni di questi ultimi per le terre da destinare al pascolo. Il governo centrale, di fatti, al fine di provare ad esercitare un seppur minimo controllo territoriale e portare avanti attività basilari come la riscossione delle tasse, in aree nelle quali non riesce ad avere una effettiva proiezione di sovranità, si affida alla collaborazione di tribù locali, tra cui i Dogon, alle quali viene concesso informalmente il mantenimento di milizie autonome. La mancanza di tutela governativa spinge quindi le etnie marginalizzate, come nel caso dei Fulani, ad allearsi con attori antagonisti al governo. Anche in Mali, di fatti, il jihadismo riesce a far proseliti offrendo servizi para-statali, quali protezione e forme basilari di welfare, in assenza di politiche pubbliche efficaci. L’appartenenza alle milizie jihadiste rafforza inoltre l’elemento indennitario dello scontro, che assume così anche un connotato religioso.
In questa delicata situazione, conditio sine qua non per la risoluzione del conflitto è il raggiungimento di un accordo inter-tribale sullo sfruttamento delle risorse contese, che preveda un’equa assegnazione di terre per entrambe le etnie. Affinché tale accordo possa risultare il più possibile duraturo è altresì necessario il ristabilimento di una piena autorità governativa, in grado di monitorarne il rispetto.
Al tal fine possono esser d’aiuto le truppe internazionali di stanza sul territorio. Assieme ai caschi blu di MINUSMA, missione peacekeeping delle Nazioni Unite, sono presenti nel Paese truppe UE appartenenti all’EUCAP Sahel Mali, missione di sviluppo capacitivo nell’ambito della sicurezza interna, ed all’EUTM Mali, di supporto all’addestramento delle forze militari locali. E’ attiva dal 2014, inoltre, la missione francese Barkhane di contrasto al terrorismo, con l’appoggio di truppe del G-5 Sahel, una piattaforma politica nata su iniziativa dell’Eliseo al fine di coordinare i Paesi dell’ala occidentale dell’omonima regione (Mauritania, Niger, Mali, Burkina Faso e Ciad). Concentrate maggiormente nel nord del Paese, le truppe internazionali sono fondamentali nell’opera di contrasto al terrorismo jihadista e per il supporto alla ricostruzione istituzionale del Paese, ma una volta eventualmente raggiunti tali obiettivi, la risoluzione delle problematiche inter-etniche passerebbe inevitabilmente dal lavoro delle classi dirigenti locali. Con il ristabilimento dell’effettività del potere statale sarebbe, ad esempio, più semplice veicolare progetti di Climate Smart Agriculture (CSA), promossi da varie organizzazioni internazionali. Quello della CSA è un approccio che permette di unire in maniera efficace elevata produttività e basso consumo di terre. In questo modo si potrebbe conciliare l’esigenze di produzione agricola dei Dogon e allo stesso tempo liberare spazi che potrebbero esser desinati alle attività dei Fulani.