Il viaggio di Blinken in Cina e la strategia del “de-risking”
Antony Blinken, Segretario di Stato degli Stati Uniti, si è recato in Cina tra il 18 e 19 giugno per una serie di incontri bilaterali con i vertici del Partito Comunista Cinese. In particolare, nel corso della visita, Blinken ha incontrato il Presidente cinese Xi Jinping, il Direttore dell’Ufficio della Commissione Centrale per gli Affari Esteri del Comitato Centrale del Partito Wang Yi e il Ministro degli Affari Esteri Qin Gang. La visita è stata preceduta dal viaggio in Cina, avvenuto nel mese di maggio e tenuto inizialmente segreto, del direttore della CIA William Burns, il quale aveva sottolineato l’importanza di mantenere aperte le linee di comunicazione tra i due Paesi. Più di recente, anche due personaggi di spicco della comunità imprenditoriale statunitense come Elon Musk e Bill Gates si sono recati a Pechino.
La visita di Blinken aveva l’obiettivo di ripristinare il dialogo diretto sino-statunitense attraverso canali ufficiali, dopo che i rapporti erano stati congelati anche a seguito dello scandalo legato al pallone aerostatico cinese abbattuto sui cieli statunitensi lo scorso febbraio. Tuttavia, la visita del Segretario di Stato americano non è andata molto oltre gli aspetti meramente simbolici. Nel complesso, infatti, i dialoghi non hanno prodotto risultati rilevanti in merito ai dossier che maggiormente dividono Cina e Stati Uniti, quale ad esempio quello riguardante Taiwan. Lo stesso Blinken, infatti, ha ammesso che durante l’incontro al vertice con Xi Jinping non si è raggiunto alcun tipo di accordo, nemmeno su un tema sentito come quello della comunicazione militare, questione sensibile ancor più dopo che il 3 giugno scorso, nelle acque dello stretto di Taiwan, si è rischiata una collisione fra navi militari dei due Paesi.
Anche le dichiarazioni ufficiali sono apparse piuttosto vaghe e anzi sono servite perlopiù a ribadire la diversità di vedute rispetto alla questione di Taiwan, con gli Stati Uniti contrari a ogni modifica dello status quo e intenzionati a continuare l’impegno economico utile a rafforzare la difesa dell’isola. Dal canto suo, la Cina continua a considerare quella di Taiwan una linea rossa da non oltrepassare e i vertici del Partito hanno ribadito l’intenzione di procedere alla riunificazione e l’opposizione ferma a qualsivoglia passo verso l’indipendenza.
Malgrado le dichiarazioni di intenti, quindi, la competizione fra Washington e Beijing è destinata a perdurare, se non ad aggravarsi, nel breve periodo. D’altronde, il vertice del G7 di Hiroshima del maggio scorso aveva messo in luce la prospettiva strategica statunitense mirata al “de-risking”, un approccio sostanzialmente volto al ridimensionamento del ruolo della Cina nei mercati globali che difficilmente può favorire il processo di ricostruzione della fiducia reciproca. Lo scopo essenziale della strategia del “de-risking”, infatti, è la ristrutturazione delle catene globali del valore a discapito delle filiere produttive cinesi, soprattutto in mercati sensibili quali il settore tecnologico, il settore dei microchip ed il settore dei semiconduttori, con l’obiettivo di precludere a Pechino la possibilità di accedere a beni sensibili per lo sviluppo tecnologico ed economico del Paese. Anche sul piano finanziario è presente una tendenza al disallineamento tra USA e Cina, con gli investitori statunitensi in uscita graduale dai mercati cinesi. Infatti, successivamente al mese di gennaio quando l’acquisto di azioni cinesi da parte americana era pari a 2,5 miliardi di dollari, si è registrato un ritiro progressivo degli investimenti che non può essere spiegato interamente dall’andamento dell’economia cinese.
Seppure la visita di Blinken ha dimostrato la volontà degli Stati Uniti di mantenere dei canali ufficiali di comunicazione fra i due Paesi, in questo contesto di forte competizione è lecito attendersi nuovi momenti di tensione, quando non di vera e propria crisi, soprattutto sul dossier Taiwan.