Il movimento salafita dopo la caduta di Mubārak
Medio Oriente e Nord Africa

Il movimento salafita dopo la caduta di Mubārak

Di Mara Carro
14.12.2011

Il dato più significativo che sta emergendo dai primi scrutini delle prime elezioni del post- Mubārak è la supremazia delle forze d’ispirazione islamica. Se l’affermazione dei Fratelli Musulmani era largamente presumibile (40% dei consensi), sicuramente più determinante per la fisionomia e le sorti della rivoluzione e per il nuovo assetto politico del futuro Egitto è il risultato elettorale ottenuto dal partito integralista dei salafiti (Al Nur, Luce). Il collasso del sistema presidenziale ha messo a nudo tutta l’importanza di dinamiche che prima sembravano inesistenti o erano ben celate dietro alle volontà statali dispotiche associate ad un’economia centralizzata. Queste tendenze centrifughe sono espressione del malessere causato da uno sviluppo economico e sociale ineguale.

Nel vuoto di potere creato dalla deposizione dell’Ultimo Faraone agiscono gruppi che tentano di accreditarsi, per influenzare la società egiziana e spingerla in una direzione piuttosto che verso un’altra: tra questi i movimenti salafiti rimasti finora sostanzialmente apolitici. Attori di basso profilo, i salafiti hanno vissuto in semi-clandestinità per tutto il regno di Mubarak a causa delle loro posizioni radicali.

Da quando la rivoluzione di piazza Tahrir ha allentato i controlli di polizia sui gruppi islamisti, i salafiti hanno iniziato a perseguire con forza i loro fini politici. Inizialmente ostili alla rivoluzione di piazza Tahir, sono stati abili nell’assecondarne risvolti ed umori e ad incrementare i loro margini di manovra.

Il salafismo (da salaf, antenati), setta del sunnismo radicale, è una scuola di pensiero emersa nel cuore della penisola araba nel XVIII secolo fautrice di un’applicazione militante dell’islam e che predica la necessità di tornare alle fonti della fede per purificare questa religione da ogni influenza straniera. Tuttavia questa interpretazione rigorosa e letterale del Corano non impedisce le divisioni tra coloro che vi aderiscono, costretti ad adattarsi alle aspirazioni dei musulmani del mondo attuale. Per impostazione ideologica i salafiti si tengono lontani dalle arene politiche ritenendo che la democrazia, le elezioni, la formazione di partiti o di strutture organizzative siano invenzioni umane non conformi alla legge di Dio, un’interpretazione da cui i salafiti egiziani si è affrancati costituendo il primo partito salafita.

Nato sulla scia della rivoluzione di gennaio, appoggiato e finanziato dai wahabiti dell’Arabia Saudita il partito salafita “Hizb an-Nur” è presente capillarmente sul tutto il territorio egiziano, dai piccoli villaggi alle grandi città e raccoglie un vasto consenso, in particolare tra i poveri, grazie ai loro programmi di assistenza sociale. Il debutto sulla scena politica egiziana della formazione salafita è stato avallato dalla Commisione nazionale dei partiti politici e accompagnato dalle dichiarazioni del portavoce di an-Nur, Sheikh ash-Shahhat, sulla “democraticità” d’intenti della formazione salafita.

Quali fossero però le loro rivendicazioni i salafiti l’hanno chiarito ben presto. Le loro frange più estreme guardano all’Arabia Saudita, mirano all’applicazione della legge islamica in tutti gli ambiti della vita e reclamano la segregazione dei sessi, il divieto di alcol, musica e letteratura «non islamica». La legge islamica è la chiave per la soluzione dei problemi atavici dell’Egitto. Non esiste la possibilità di effettuare riforme che contrastino con la legge islamica e non c’è margine di trattativa con chi non la riconosce. Prima fra questi la grande comunità copta composta da una maggioranza greco-ortodossa e da una minoranza cattolica, forse dieci milioni di uomini e donne, il 10% della popolazione egiziana, che rappresenta un forte pilastro Dell’economia. I copti costituiscono una parte importante della classe imprenditoriale e professionale del Paese: un fattore che li rende maggiormente invisi, soprattutto in periodi di crisi economica. Le violenze confessionali tra musulmani e cristiano copti hanno conosciuto momenti di gravi tensioni. Le proteste contro Mubarak sembravano aver finalmente unito cristiani e musulmani in un fronte coeso contro il nemico comune e segnato un momento di distensione negli attriti di sempre. La strage di capodanno ad Alessandria d’Egitto dove un’autobomba esplosa davanti ad una chiesa aveva mietuto ventitré vittime cristiane sembrava dimenticata. Dopo la caduta di Mubarak si è invece assistito ad una recrudescenza di questi scontri: sassaiola contro corteo di copti e tredici abitazioni in fiamme nel villaggio di Al-Nawahid (nella provincia di Qena, Egitto meridionale) (novembre 2011), 24 cristiani copti morti al Cairo per protestare contro l’incendio di una chiesa ad Assuan (ottobre 2011), nove cristiani copti morti nel distretto di Mokatam Hills (settembre 2011), l’incidente di Embaba attorno alla chiesa di Saint Mina (maggio 2011). Le tensioni potrebbero sì segnare un’involuzione della “primavera egiziana” ma addebitarle al solo scontro interconfessionale potrebbe essere una svista non da poco. L’intervento dell’esercito sembrerebbe, infatti, mirare a perpetuare lo stato di emergenza e ritardare così la normalizzazione democratica dell’Egitto. Qui s’inseriscono alcuni gruppi salafiti che vogliono alzare il livello della tensione inscenando provocazioni anti cristiane con il solo obiettivo di cercare di inceppare il passaggio alla democrazia. Il timore è che si tratti di gruppi etero-diretti, finanziati e spalleggiati dai regimi arabi del Golfo, interessati a recuperare la loro influenza dopo la caduta di Mubarak, in Egitto, e di Ben Alì, in Tunisia.

Forti di un ampio bacino elettorale e abili a mobilitare le piazze, il potere dei salafiti è aumentato progressivamente nell’Egitto del post Mubarak. A fronteggiarli non soltanto i copti ma anche gli islamici moderati. I Fratelli Musulmani ne hanno preso le distanze.

La prima affermazione politica dei salafiti mostra però che gli slogan di Al Nour hanno pagato e che spetta ora ai Fratelli Musulmani recuperare quella credibilità, anche internazionale, tanto inseguita.

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