Il delisting di Didi: i rischi di nuova stretta regolatoria di Pechino
L’Autorità di vigilanza tecnologica della Repubblica popolare cinese sembrerebbe aver chiesto ai vertici della big tech Didi Global di elaborare un piano per lasciare la borsa di New York su cui è quotata solo da giugno 2021. Questa decisione sarebbe motivata dalle preoccupazioni circa la potenziale diffusione e perdita di dati sensibili, un’eventualità che avrebbe spinto Pechino a richiedere misure aggiuntive di protezione. In questa fase, tra le proposte in esame potrebbe esserci quella di una nuova quotazione sulla borsa di Hong Kong con un corrispettivo delisting dalla borsa statunitense.
Didi Global, azienda cinese impegnata nel servizio di trasporto di passeggeri, è un colosso aziendale che opera non solo in Cina ma anche in Australia, in alcune aree dell’America Latina, in Asia centrale e Russia, e che punta a diventare leader globale nel servizio di trasporto e nell’applicazione di tecnologie intelligenti nel settore dei trasporti. Il 30 giugno scorso, la società cinese era sbarcata sul New York Stock Exchange con un’offerta pubblica iniziale (IPO) che aveva raccolto 4,4 miliardi di dollari (con valutazione pari a circa 70 miliardi), arrivando così ad essere la seconda più importante quotazione per una società cinese, dopo quella di Alibaba del 2014. Tuttavia, dopo pochi mesi dall’avvenuta quotazione, sembra che il progetto di rilancio e di riposizionamento di Didi Global rischi ora di infrangersi davanti alla decisione delle autorità cinesi di ordinare il ritiro dalla borsa di New York.
La possibile richiesta di delisting non giunge inaspettata: già ad aprile, in vista della possibilità che la società si quotasse oltreoceano, le Autorità cinesi avevano già sollevato perplessità relativamente ai rischi connessi alla protezione dei dati sensibili ed avevano avvertito i vertici di Didi che non potevano escludere l’eventualità di sanzioni qualora le assicurazioni non fossero state valutate come sufficienti. Il braccio di ferro è continuato anche all’indomani dello sbarco su Wall Street, quando Pechino, due giorni dopo l’IPO, ha dichiarato di aver avviato un esame sullo stato della sicurezza informatica della società, provocando un crollo del prezzo delle azioni di circa l’8,8%.
Se l’ipotesi di delisting dovesse essere confermata, si tratterebbe di un evento assai significativo, giacché indicherebbe un passo ulteriore nell’azione di controllo messa in campo dalle autorità cinesi sui suoi colossi tecnologici. Non è infatti la prima volta che Pechino interviene con modalità simili sui colossi tecnologici: a novembre, a 24 ore dall’esordio sul mercato, l’IPO di Ant Group, società controllata da Jack Ma fondatore di Alibaba, era stata sospesa dallo Shanghai Stock Exchange a causa del mancato rispetto dei requisiti di quotazione e di corretta divulgazione delle informazioni e pochi mesi dopo la China’s State Administration for Market Regulation (SAMR) aveva deciso di aprire un’indagine antitrust su Alibaba, conclusasi con una maximulta da 18,2 miliardi di yuan (2,78 miliardi di dollari) per abuso di posizione dominante. Un’altra IPO nel settore, quella di JD Digits, che era in attesa di approvazione e che puntava a raccogliere 20 miliardi di yuan sullo Star Market di Shanghai, è stata ritirata nei primi mesi di aprile, prima ancora di essere valutata dalla SAMR. Anche Tencent risulterebbe sotto indagine da parte della SAMR e potrebbe ricevere una multa di 10 miliardi yuan ($1.54 miliardi) per violazione della normativa antitrust.
La stretta regolatoria adottata da Pechino, da una parte risponde all’esigenza di garantire la stabilità finanziaria interna come condizione necessaria per assicurare il rilancio dell’economia domestica nella fase post-Covid, soprattutto alla luce del ruolo centrale che la domanda interna ha nella strategia cinese nel trainare la crescita economica. A questa prospettiva di natura economico-finanziaria, si deve aggiungere una componente politica. Il controllo che il governo esercita sulle grandi imprese private deriva anche dalla preoccupazione che la concentrazione di un potere così ampio nelle mani di pochi imprenditori possa essere deleterio per la stabilità politica del Partito Comunista Cinese (PCC). Le autorità cinesi mirano ad esercitare una sorveglianza completa sulle attività economiche così da evitare che esse acquisiscano una posizione dominante non solo nel mercato, ma anche nelle dinamiche politiche interne al Paese, con il rischio di rendere difficile per il governo il controllo del sistema rispetto alle decisioni assunte.