I nodi della transizione politica algerina
Medio Oriente e Nord Africa

I nodi della transizione politica algerina

Di Roberto Saverio Caponera
04.11.2019

L’Algeria sta attraversando un periodo storico complesso. Il 26 marzo scorso, con un discorso rivolto alla nazione, il Generale Ahmed Gaid Salah, Vice-Ministro della Difesa e massimo rappresentante dell’apparato militare algerino, dichiarava la necessità di procedere con l’attivazione dell’articolo 102 della Costituzione algerina, che prevede la destituzione del Presidente della Repubblica in caso di malattia grave. Le successive dimissioni di Abdelaziz Bouteflika il 2 aprile hanno inaugurato un’inedita fase politica, in cui spetta al Presidente della Repubblica ad interim, Abdelkader Bensalah, il compito di traghettare il Paese fino a nuove elezioni, programmate per il 12 dicembre prossimo.

Eppure, le elezioni presidenziali nascondono una lunga serie d’incognite. Il Paese deve ancora risolvere i paradossi ereditati dalla guerra d’indipendenza e legati al sistema di gestione del potere politico, nonché all’organizzazione della società civile. Il tutto con un rumoroso sottofondo di crisi economica e sociale le cui conseguenze rischiano di inasprire il clima politico.

La fine dell’era Bouteflika

L’indomani stesso delle dimissioni di Abdelaziz Bouteflika, in carica da circa vent’anni, la magistratura algerina ha avviato un’intensa quanto inedita stagione di arresti, volta a indebolire l’intricato sistema dell’era Bouteflika. Gaid Salah, appoggiandosi sulle informazioni in possesso dei servizi d’intelligence militari, ha optato per dare un forte segno di rottura con il passato, indirizzando le inchieste della magistratura. Al momento, sono oltre 400 i politici, imprenditori e militari in prigione o agli arresti domiciliari, accusati a vario titolo di corruzione e di alto tradimento. Tra questi, figurano Said Bouteflika, fratello e consigliere dell’ex Presidente; Mohamed Mediène detto “Toufik”, ex direttore dei servizi segreti; una lunga serie d’imprenditori e affaristi tra i quali Ali Haddad, ex presidente dell’associazione degli industriali; Issad Rebrab, considerato come l’uomo più ricco d’Algeria, i fratelli Kouninef, industriali svizzero-algerini e tanti altri ancora. D’altronde, le prime avvisaglie di un surriscaldamento del potere giudiziario giunsero ben prima delle manifestazioni di febbraio. Il 29 maggio 2018, dopo la scoperta di 701 kilogrammi di cocaina nel porto di Orano, fu lanciata un’inchiesta da parte della Direction Centrale de Sécurité de l’Armée, i servizi d’intelligence militari, che coinvolse membri di spicco dell’élite algerina, tra cui il capo della polizia Abdelghani Hamel, considerato molto vicino alla cerchia dei Bouteflika e possibile successore del Presidente. Non è un caso che il “cocainegate” sia stato recentemente riaperto sull’onda delle attuali campagne giudiziarie.

Scoperchiato il vaso di Pandora delle inchieste giudiziarie e indebolita la cerchia di fedelissimi della famiglia Bouteflika, il rappresentante dell’apparato militare ha annunciato di voler proseguire con l’organizzazione di nuove elezioni. L’attuale transizione politica sta dunque seguendo la feuille de route del Ministero della Difesa, come annunciata il 7 giugno 2019 nel numero 671 della rivista El Djeich (“L’esercito”), principale organo di stampa dell’Armée Nationale Populaire, nel quale veniva pubblicato un editoriale sulla transizione democratica in corso. Nell’articolo, intitolato “Sulla via della legittimità costituzionale”, si affermava senza mezzi termini la convinzione del Ministero della Difesa di voler risolvere la transizione politica all’interno del tracciato costituzionale, ossia consentendo ai cittadini di esercitare il diritto di eleggere il Presidente della Repubblica. Nei fatti il percorso costituzionale fu presto abbandonato: dopo un primo rinvio delle elezioni programmate per il 4 luglio, dovuto a una mancanza di candidati, il 9 luglio scorso scadevano i tre mesi prestabiliti dalla costituzione per annunciare nuove elezioni.

Il nodo elettorale

Annunciate il 15 settembre scorso, le elezioni del 12 dicembre potrebbero non rappresentare la panacea per risolvere la crisi politica algerina. Ad oggi, scaduto il limite per la presentazione delle candidature, l’Autorité nationale indépendante des élections (ANIE) ha recepito 22 candidature alla Presidenza della Repubblica. Pochissime le figure politiche che hanno dato il proprio appoggio alla tornata elettorale. Ma soprattutto: tra i possibili candidati figurano uomini come Abelmadjid Tebboune e Ali Benflis, oppositori storici di “Boutef” ma comunque entrambi ex-Primi Ministri. Altri candidati sono Azzedine Mihoubi, del Rassemblement National Democratique (RND), uno dei partiti della coalizione a sostegno di Bouteflika e Abdelkader Bengrina, rappresentante di El-Bina, un partito islamista minore da cui proviene l’attuale Presidente dell’Assemblea Nazionale. La gran parte dei candidati noti proviene dunque dall’opposizione “storica” a Bouteflika, spesso considerata complice o comunque organica al vecchio sistema e perciò priva di sufficiente legittimità. Al contrario, un gran numero di partiti dell’opposizione ha rifiutato di prendere parte alle elezioni. Le Forze dell’Alternativa Democratica (FAD), una piattaforma di partiti di opposizione, gruppi per i diritti umani, ONG e sindacati, si sono recentemente dichiarate contrarie alle elezioni, che sostengono essere “puntate alla tempia” del popolo algerino. I maggiori partiti d’ispirazione islamista, il Mouvement de la Société pour la Paix di Abderrazak Makri e il Front pour la Justice et le Développement di Abdallah Djaballah, benché in principio non contrari all’organizzazione del voto, hanno declinato la propria partecipazione alle elezioni perché ritenute una prosecuzione del passato.

Un possibile boicottaggio delle elezioni da parte della popolazione leverebbe qualsiasi legittimità al processo di transizione disegnato dall’apparato militare, rischiando di esasperare alcune frange e innalzare il livello di violenza della piazza.

I paradossi della piazza: l’“Hirak”

L’Algeria ha una lunga storia di contestazioni popolari. Iniziata dopo la seconda guerra mondiale con il movimento di liberazione nazionale contro il giogo coloniale francese, questa è continuata anche dopo l’indipendenza con gli attivisti di estrema sinistra contrari al Fronte di Liberazione Nazionale. Negli anni Settanta, Algeri divenne una mèta d’esilio privilegiata per i movimenti rivoluzionari di tutto il mondo, offrendo riparo e assistenza all’ANC di Nelson Mandela, l’OLP di Yasser Arafat e le Black Panthers di Eldridge Cleaver. Negli anni Ottanta invece, emersero con forza i primi movimenti berberi tra i quali il Mouvement Culturel Berbère, che chiedevano il riconoscimento ufficiale dell’identità Amazigh, avversata dai nazionalisti arabi. In quegli anni nascono anche i primi movimenti femministi, che si oppongono alla crescente islamizzazione della società. Negli anni Novanta, coerentemente con la grande mutazione politica e ideologica che attraversava l’intero Medio Oriente, prendevano forma le strutture islamiste, che rivendicavano la fine del socialismo panarabo e dei regimi militari di stampo socialista.

Le manifestazioni degli ultimi mesi hanno rappresentano una chiara sintesi di tutte queste correnti che storicamente animano il dibattito politico in Algeria. Uniti dall’opposizione al quinto mandato di Bouteflika, tutte le frange dell’opinione pubblica hanno manifestato unitamente, mettendo da parte le profonde divergenze in vista bloccare il quinto mandato di “Boutef”. Una volta raggiunto l’obiettivo, questa unione d’intenti ha cominciato a mostrare le prime incrinature riguardo al prosieguo dell’azione; prova ne è il fatto che a oggi, l’Hirak (il “movimento”) pena a trovare una struttura di rappresentanza unitaria. Benché le proteste del venerdì continuino a riempire le principali piazze del Paese, non esiste tutt’ora una struttura centrale dove studiare le proposte provenienti dalle proteste. Ammettendo un certo grado di imprecisione, si potrebbe grossolanamente dividere l’opposizione in due blocchi distinti, uniti dalla contrarietà alle elezioni ma divisi su tutto il resto. Da una parte i partiti e movimenti nazional-islamisti riuniti intorno al concetto della “badissia-novembria”, che esalta il ruolo svolto da Abdelhamid Ben Badis nella creazione della nascente identità algerina e dunque nell’avvio della rivoluzione di novembre 1954. Dall’altra le forze progressiste e socialiste del sopracitato FAD, al cui interno figurano anche i partiti dell’identità berbera, tradizionalmente legati ai concetti di laicità dello Stato. All’interno di questi schieramenti, ulteriori divergenze dividono la protesta in un arcipelago di correnti diverse, ognuna dotata di un piano di transizione politica diverso. In questo contesto, le forze di sicurezza hanno operato per dividere ulteriormente il movimento di protesta, ad esempio mettendo al bando le bandiere Amazigh durante le marce del venerdì oppure incarcerando figure chiave della protesta.

La crisi economica

Mentre la transizione politica procede a rilento, gli squilibri macroeconomici causati dalla contrazione dei prezzi del petrolio del 2014 continuano a deteriorare i fondamentali dell’economia. Secondo l’ultimo aggiornamento semestrale della Banca d’Algeria, la caduta dei prezzi del petrolio del 2014 e le minori quantità d’idrocarburi vendute hanno gravemente ridotto le riserve di valuta estera del Paese, passate da circa 170 miliardi nel Dicembre 2014 a 72 miliardi nell’aprile 2019. La manovra di finanza non convenzionale varata con la legge finanziaria del 2017 non ha sortito gli effetti sperati. Oltre a condurre l’inflazione a ritmi sostenuti con picchi del 10% su determinati panieri di beni, il programma di stampa di moneta varato fino al 2022 è stato arrestato nel giugno di quest’anno. Inoltre, sebbene il prezzo del greggio sia sensibilmente risalito dopo i minimi del 2016, l’attuale livello dei prezzi sarebbe comunque inferiore al cosiddetto budget breakeven, ovvero il prezzo necessario per coprire l’insieme delle spese pubbliche. Infatti, secondo uno studio del Fondo Monetario Internazionale, l’Algeria avrebbe bisogno di un prezzo di 116 dollari al barile per poter mantenere invariata l’attuale spesa pubblica. All’attuale prezzo del greggio, il Paese si trova costretto a tagliare i numerosi sussidi al consumo e altre misure di redistribuzione, taglio che però porterebbe a sua volta a ulteriori proteste, esacerbate da frustrazione sociale.

Piuttosto, la transizione politica ha accelerato alcune dinamiche negative. Oltre a un generale peggioramento dei fondamentali economici, occorre ricordare l’impatto dei numerosi arresti degli ultimi mesi. Tra le centinaia di arresti, molti hanno riguardato i più importanti attori economici e imprenditoriali del Paese, riducendo al momento le capacità d’investimento privato nazionale e scoraggiando quelle provenienti dall’estero. La scarsa affluenza alla 52° Fiera internazionale di Algeri ne è la riprova: se nel 2018 avevano partecipato 25 Paesi con circa 300 aziende espositrici, l’edizione 2019 ha totalizzato la presenza di 15 Paesi con meno di 150 aziende partecipanti. Inoltre, l’ondata di arresti ha colpito anche numerosi alti funzionari pubblici e di aziende partecipate: in un Paese in cui l’80% dell’investimento è opera dello Stato, questo rischia di ridurre ancor più gli investimenti, senza contare le maggiori paura e cautela nell’eseguire il pagamento di commesse pubbliche ad aziende private. Il governo del Primo Ministro Noureddine Bedoui, dopo il Consiglio dei Ministri tenutosi il 23 giugno, ha timidamente provato a tamponare il vuoto dirigenziale. Nel comunicato stampa, il governo annuncia la creazione di un organismo multisettoriale incaricato di monitorare le attività economiche e di salvaguardare la produzione, alle dipendenze del Ministro delle Finanze. Quest’ultimo è stato incaricato di identificare con urgenza tutte le attività economiche e i progetti che possano essere disturbati dalle misure giudiziarie, al fine di preservare il loro ruolo socio-economico e i posti di lavoro.

Benché il governo Bensalah abbia presentato una serie di proposte economiche per riformare l’intero sistema economico, tra le quali spiccano la fine del sistema 49/51 e l’apertura alla mobilità dei capitali, occorre attendere la legge delle finanze del 2020 per comprendere appieno la portata della volontà riformatrice.

Conclusioni e scenari futuri

Il futuro prossimo dell’Algeria è incerto. La caduta del governo Bouteflika ha scoperchiato una lunga serie di paradossi politici ed economici cristallizzati negli ultimi vent’anni di gestione del potere. Con il progressivo smantellamento delle reti clientelari legate all’era Bouteflika, l’apparato militare algerino sperava di creare un legame tra le proteste e l’esercito, da suggellare con l’organizzazione delle elezioni di dicembre. Eppure, lo stesso Generale Gaid Salah è un prodotto dell’era Bouteflika nonché rappresentante di uno dei pilastri storici del potere algerino, difficilmente digeribile da parte della piazza e dell’opposizione. Dopo un’apparente convergenza iniziale, le proteste hanno progressivamente respinto il piano di transizione proposto dall’apparato militare. Prova ne è il fatto che i candidati alle Presidenziali risultino provenienti per la maggior parte da quella che era l’opposizione moderata durante i vent’anni di governo Bouteflika. L’organizzazione di elezioni delegittimate potrebbe d’altronde spingere le frange più estreme dell’Hirak allo scontro diretto con le forze di sicurezza. Tanto più che, dopo la caduta di “Boutef”, le rivendicazioni del Hirak hanno cominciato a mutare. Sebbene continui il “ritualismo protestatario”, l’Hirak soffre di un deficit di rappresentatività, dovuto anche alla sua originaria eterogeneità. Infine, concentrati sulla rifondazione politica dell’Algeria, lo Stato, le piattaforme civiche e i partiti d’opposizione non sembrano prestare la necessaria attenzione al tema economico. Eppure, le riserve valutarie del Paese continuano a contrarsi a ritmi vertiginosi, mentre i consumatori risentono del generale aumento dei prezzi. La questione economica avrà senza dubbio un impatto decisivo sul futuro politico del Paese e a tal proposito rilevano gli esempi delle transizioni politiche in Tunisia e in Egitto, dove il progressivo deterioramento economico che ha seguito le proteste ha gravemente messo a repentaglio la successiva stabilizzazione politica, come ricordato dall’ex Presidente della Repubblica di Tunisia, Moncef Marzouki, in una recente intervista rilasciata ad Al Jazeera.

In cauda venenum, occorre riposizionare la transizione politica algerina in uno scenario mediorientale più ampio, che dall’inizio delle cosiddette primavere arabe vede contrapporsi potenze regionali distinte. Come in Tunisia, Egitto e Libia, anche in Algeria si intravede il tentativo di alcuni Paesi del Golfo d’influenzare il corso degli eventi a proprio vantaggio, sostenendo taluni le frange più riformiste del Paese, talaltri i gruppi dell’ordine e della reazione.

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