Geopolitical Weekly n.260
Arabia Saudita
Nell’ambito della prima visita del Presidente Trump nella regione, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno preparato un documento contenente alcune proposte e condizioni per rivitalizzare le loro relazioni con Israele. Il documento sarà discusso a Riyadh durante il fine settimana, prima che Trump si rechi a Gerusalemme. Nello specifico, i Paesi del Golfo, di cui Riyadh e Abu Dhabi si fanno portavoce, consentirebbero agli aerei israeliani di sorvolare lo spazio aereo dei loro Stati, sarebbero propensi ad adottare misure per normalizzare i commerci con Israele e offrirebbero l’apertura di linee dirette di telecomunicazione. In cambio, si chiede che Israele non si opponga alla ripresa del processo di pace israelo-palestinese, congeli i piani per nuovi insediamenti in Cisgiordania e ammorbidisca i controlli di sicurezza lungo il confine con la Striscia di Gaza. La posizione compatta espressa dai Paesi del Golfo non sembra trovare riscontro a Tel Aviv. Infatti, qualora il Primo Ministro Netanyahu decidesse di riaprire il processo di pace, si scontrerebbe con una durissima opposizione all’interno della compagine di Governo, poiché le formazioni più tradizionalmente conservatrici, come La Casa Ebraica di Naftali Bennett, hanno a più riprese manifestato la loro contrarietà e minacciano di aprire una crisi. Ad ogni modo, indipendentemente dall’esito che avrà la proposta, l’iniziativa saudita e emiratina segnala la volontà di rafforzare e ampliare il loro dialogo con Israele, finora passato tramite canali informali, in nome del comune interesse nel contrastare la crescita dell’influenza iraniana nella regione.
Corea del Nord
Il 14 maggio la Corea del Nord ha condotto un nuovo test missilistico nel Mare del Giappone. La traiettoria del Hwasong-12,in grado di trasportare una testata nucleare di grandi dimensioni, ha raggiunto l’altitudine record di più di 2000 km con gettata di più di 700 km, arrivando per la prima volta più vicino alla costa russa che a quella giapponese. Dall’inizio del mandato di Kim Jong-Un lo sviluppo di un arsenale atomico, che implica il parallelo rafforzamento del programma di ricerca nucleare e di quello balistico, è diventato un fondamento della direttrice politica nordcoreana, che considera l’acquisizione di una capacità di deterrenza nucleare un pilastro fondamentale per il rafforzamento dello Stato. L’intensificazione della frequenza di test missilistici e nucleari nell’ultimo anno e mezzo ha messo a rischio la sicurezza dell’intera area, destando preoccupazioni per i principali attori coinvolti. L’acuirsi delle tensioni, infatti, aveva indotto gli Stati Uniti, nelle settimane precedenti, ad alzare i toni e a considerare un approccio più muscolare alla minaccia nucleare di Pyongyang. Questa ipotesi, tuttavia, non sembra riscuotere successo tra gli Stati della regione, soprattutto da parte di Cina e Corea del Sud, che continuano a sostenere la fattibilità della soluzione diplomatica. Un primo passo in questa direzione potrebbe arrivare dal neo-eletto Presidente sudcoreano Moon Jae-In, che aveva incentrato gran parte della campagna elettorale nella ricerca di un canale di intesa con la Corea del Nord e sembrerebbe ora disposto a dialogare con la Cina per trovare un punto di incontro con il quale risolvere le tensioni create dall’installazione del sistema anti-missilistico statunitense THAAD in Corea del Sud. Da parte sua, il governo cinese, nel febbraio 2016 ha per la prima volta aderito alle sanzioni internazionali contro il regime nordcoreano, sta cercando di sfruttare l’ascendente economico che ancora esercita su Pyongyang per cercare di sensibilizzare il regime ad aprirsi ad una trattativa. In questo contesto, i contatti informali avvenuti tra una delegazione di Pyongyang e di Seoul a Pechino, lo scorso 14 maggio, a margine del convegno internazionale One Belt One Road ospitato dal governo cinese, lascerebbero presupporre che primi e ufficiosi contatti tra le parti in causa siano già stati avviati.
Iran
Il 16 maggio il vicepresidente Eshaq Jahangiri, esponente dei moderati, si è ritirato dalla corsa alle elezioni presidenziali iraniane del 19 maggio, e ha espresso pieno supporto al Presidente uscente, Hassan Rouhani. La decisione è seguita all’analogo gesto compiuto dal sindaco di Teheran Mohammad-Bagher Ghalibaf, il giorno prima, con il quale l’ormai ex candidato ultra-conservatore ha dichiarato il proprio sostegno al rivale interno al fronte tradizionalista, Ebrahim Raisi. Il passo indietro dei due candidati sembrerebbe poter influenzare in modo significativo gli equilibri delle elezioni: se, infatti l’attuale Presidente Hassan Rouhani si conferma come candidato di punta dell’ala moderato-riformista, Ebrahim Raisi si accredita ora come unico candidato del fronte ultra-conservatore, fino ad adesso diviso al proprio interno. In particolare, il ritiro del riformista Jahangiri e l’espresso invito a votare in favore dell’attuale Presidente Rouhani sembrerebbe ricalcare la strategia delle elezioni del 2013, quando Mohammed-Reza Aref si ritirò al fine di canalizzare i suoi voti verso il pragmatista Rouhani. L’appoggio del fronte riformista, rafforzato dal supporto dell’ex Presidente Mohammad Khatami espresso pochi giorni fa, potrebbe accrescere il consenso di cui Rouhani sembra già godere, essendo considerato il candidato favorito dai più recenti sondaggi. Il Presidente ha infatti ottenuto anche il sostegno della frangia conservatrice moderata che si discosta dalle posizioni ultraconservatrici e che si apre verso un dialogo con i pragmatisti, la cui figura di riferimento è l’attuale speaker del Parlamento Ali Larijiani. Nonostante un simile appoggio trasversale alle forze politiche interne, è comunque probabile che Rouhani non ottenga la maggioranza assoluta al primo turno delle elezioni e che sia necessario andare al ballottaggio del 26 maggio. Nonostante concorrano alla presidenza anche gli ex ministri Mostafa Hashemi-Tabae Mostafa Mir-Salim, appare possibile ipotizzare che i il testa a testa finale potrà giocarsi proprio tra il Presidente uscente e Raisi, in un confronto decisivo che potrebbe condizionare l’impostazione politica del governo che si insedierà già nelle prossime settimane.
Iraq
Il 15 maggio le milizie sciite irachene delle Forze di Mobilitazione Popolare (PMF, Hashd al-Shaabi) hanno preso il controllo di circa 20 villaggi ancora occupati dallo Stato Islamico (IS) nella regione di al-Qayrawan e Baaj, a ovest di Mosul. L’offensiva, soprannominata “Operation Muhammad Rasulullah”, si sviluppa lungo la direttrice che collega Mosul alla Siria e a ridosso dell’area di Sinjar, controllata dai Peshmerga curdi. I Peshmerga non sono stati preavvertiti dell’operazione, come confermato in conferenza stampa dal Primo Ministro iracheno Haider al-Abadi. L’unilateralità della decisione delle PMF, organizzazione ombrello formata da circa 40 gruppi militanti, e la conseguente mancanza di coordinamento, potrebbe far riemergere gli attriti tra fra i due gruppi e, più in generale, tra Erbil e Baghdad. Infatti, al pari di altre aree come quella di Kirkuk, la regione di Sinjar è storicamente contesa fra i curdi iracheni e l’autorità centrale di Baghdad. La liberazione dall’IS da parte di milizie governative sciite e l’eventuale instaurazione di un’amministrazione dipendente da Baghdad potrebbero avere l’effetto di riavvicinare la popolazione locale all’autorità irachena, volgendo così la disputa almeno parzialmente in favore di Baghdad. Non si può escludere che la riconquista di altri villaggi da parte delle PMF possa alimentare ulteriori tensioni con i Peshmerga, che hanno già manifestato il loro disappunto per l’offensiva, inducendoli a incrementare il loro dispositivo militare nell’area in funzione deterrente. Inoltre, le azioni militari della “Operation Muhammad Rasulullah” potrebbero portare le PMF a controllare una porzione di confine siro-iracheno. La zona in questione potrebbe rivestire una certa importanza strategica qualora le PMF, come paventato più volte nei mesi scorsi, decidessero di sferrare un’offensiva in Siria, verso la vicina Deir ez-Zour.