Geopolitical Weekly n.254
Corea del Nord
Il 5 aprile, la Corea del Nord ha condotto un altro test balistico nel Mar del Giappone. Il missile, un KN-15 di medio raggio, lanciato dalla città portuale di Sinpo, anche base sottomarina nord-coreana, ha percorso 60 km verso la costa giapponese prima di cadere nel Mar del Giappone. Si tratta del quinto test missilistico nel giro di qualche mese, dopo il test dei quattro missili balistici lanciati il 6 marzo e il precedente lancio del missile di medio raggio avvenuto lo scorso 11 febbraio.
Quest’ultima dimostrazione di forza da parte della Corea del Nord tende ad inasprire ulteriormente il clima già teso tra gli interlocutori all’interno della regione Stati Uniti, Cina, Corea del Sud e Giappone).
La settimana scorsa, infatti, il Presidente americano Trump ha ribadito che l’opzione militare unilaterale contro la Corea del Nord rappresenta ancora una possibilità, qualora la Cina, principale interlocutore di Kim Jong-Un, non dovesse collaborare al fine di convincere Pyongyang a sospendere il programma nucleare. Dalla sua parte, la Cina sostiene che un allentamento delle attività militari e nucleari da parte nord-coreana non può prescindere da un affievolimento delle relazioni militari tra gli Stati Uniti e la Corea del Sud, che hanno già collaborato all’installazione del sistema antimissilistico THAAD (Terminal High Altitude Area Defense-Difesa d’aria terminale ad alta quota), inviso alla Cina.
A deteriorare ulteriormente le relazioni ha contribuito l’inizio, lo scorso 3 aprile, dell’esercitazione militare congiunta tra Corea del Sud, Stati Uniti e Giappone, della durata di tre giorni, al largo della costa meridionale della Corea del Sud in prossimità del Giappone. L’esercitazione ha lo scopo di testare l’efficacia di un’eventuale risposta militare alla minaccia posta dal lancio di missili balistici sottomarini da parte della Corea del Nord. Rappresenta, inoltre, una dimostrazione della determinazione dei tre Paesi alleati di fermare il programma nucleare di Pyongyang.
In questo contesto, i colloqui tra il Presidente Trump e il Presidente cinese Xi Jinping, in corso presso il Resort Mar-a-Lago in Florida, potrebbero essere un momento importante per capire se esista la possibilità per Cina e Stati Uniti di trovare un punto di convergenza sulla strategia da adottare per gestire il dossier nordcoreano. Un eventuale accordo tra i due leader, infatti, non solo contribuirebbe ad abbassare i toni nelle relazioni bilaterali, piuttosto tese fin dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, ma consentirebbe a tutti gli attori coinvolti nel Nordest Asia di iniziare a pensare ad una soluzione concertata con cui cercar di garantire la sicurezza all’interno della regione.
Egitto
Il 2 aprile, l’Esercito egiziano ha annunciato di aver ucciso in un raid aereo, avvenuto lo scorso 18 marzo, Salem Salmy al-Hamadeen, detto Abu Anas al-Ansari, uno dei fondatori dell’ex gruppo jihadista Ansar Bayt al-Maqdis, attualmente denominato Wilayat Sinai (Provincia del Sinai), organizzazione affiliata allo Stato Islamico (IS o Daesh). Si tratta di un importante traguardo per le forze di sicurezza egiziane, impegnate a contrastare il proliferare dei gruppi di insorgenza jihadista soprattutto nella Penisola del Sinai, che hanno intensificato i loro attacchi dal 2013, a seguito del colpo di Stato che ha portato alla caduta del Presidente Morsi e a un ulteriore allentamento del controllo da parte del governo centrale su questa porzione di territorio.
Nonostante gli sforzi dell’Esercito egiziano, la situazione di sicurezza resta deficitaria, come dimostra lo scoppio della bomba che, il 1 aprile, ha colpito un centro di addestramento della polizia nella città di Tanta, sul Delta del Nilo, provocando 13 feriti. L’ordigno era stato posto su un motorino nel parcheggio del centro di addestramento. L’attentato è stato rivendicato dal gruppo jihadista, Lewaa el-Thawra (Brigata della Rivoluzione).
Lewaa el-Thawra è salito agli onori delle cronache nell’agosto 2016, quando ha rivendicato un attacco contro un checkpoint militare nella città di Sadat, nel Governatorato di Menoufiya. L’attacco era una risposta alla sanguinosa repressione militare delle manifestazioni popolari organizzate nel 2013 nelle piazze di Rabaa al-Adaweya e di al-Nahda per protestare contro la esautorazione dell’allora Presidente Morsi. A differenza del gruppo “Provincia del Sinai”, emanazione dello Stato Islamico, e che quindi aspira a trasformare l’insorgenza locale in un fronte regionale del jihad globale, la peculiarità di Lewaa el-Tahwra sta nel fatto di trovare la propria ragione d’essere nel sostegno ai principi della Rivoluzione del 25 gennaio e nel sostegno alla Fratellanza Musulmana, brutalmente repressa dal governo del Cairo dopo il Colpo di Stato del Generale al-Sisi. A riguardo, esiste la possibilità che molti dei miliziani di Lewaa el-Tahwra siano fuoriusciti della Fratellanza che hanno abbracciato forme di lotta politica violenta all’indomani della stretta repressiva di al-Sisi.
Il piano d’azione di Lewaa el-Thawra si concentra soprattutto nella zona del Delta del Nilo e della città del Cairo, dove ha rivendicato la responsabilità di numerosi attacchi tra cui l’assassinio, lo scorso 22 ottobre, del Generale Adel Rajaaie.
Repubblica Democratica del Congo
Lo scorso 31 marzo, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato per il rinnovo annuale della missione di peacekeeping MONUSCO (Mission de l’Organisation des Nations Unies pour la stabilisation en République démocratique du Congo), presente nel Paese da 18 anni. Contestualmente, il Palazzo di Vetro ha deciso di ridurre del 18% il numero di personale militare e civile impiegato sul territorio, riducendo gli effettivi da 19.815 a 16.215.
Iniziata nel 1999 con il nome di MONUC (Mission de l’Organisation des Nations Unies en République démocratique du Congo), la missione aveva lo scopo sia di monitorare il rispetto degli Accordi di Lusaka (1999) stipulati tra la Repubblica Democratica del Congo (RDC) e i 5 Stati implicati nella Seconda Guerra del Congo (1998-2003), ossia Angola, Namibia, Ruanda, Uganda e Zimbabwe, sia di contribuire alla stabilizzazione del Paese colpito dalla guerra civile e dai suoi conflitti derivati (conflitto di Ituri, del Kivu e di Dongo).
Nel 2006, MONUC ha supportato il governo nell’organizzazione delle prime elezioni libere nel Paese e, nel 2010, riformata in MONUSCO, è diventata la più grande missione di peacekeeping al mondo, nonché la più onerosa. Oggi, il suo mandato prevede di accompagnare la transizione democratica nel Paese e di assicurarne la stabilità anche attraverso l’uso della forza.
Sebbene abbia il merito di aver aiutato le Forze Armate congolesi a riconquistare Goma, capitale della regione orientale del Kivu, sottraendola al gruppo ribelle di etnia Tutsi M23 (March 23), la missione ha, nel tempo, incontrato le proteste della popolazione locale a causa dei reiterati abusi di potere e delle prolungate violenze ai danni dei civili.
La missione MONUSCO si trova attualmente in una situazione di stallo politico e militare. Non è stata in grado né di prevenire né di gestire il caos istituzionale in cui si trova il Paese a causa della reticenza del Presidente Kabila a cedere il potere e indire nuove elezioni, nonostante il suo secondo e ultimo mandato sia scaduto lo scorso 19 dicembre, né di contrastare la rappresaglia dei numerosi gruppi ribelli anti-governativi che proliferano nelle varie province del Paese. Tra questi Kamwina Nsapu, attivo nella regione centrale del Kasai, responsabile del sequestro e dell’uccisione dei due tecnici dell’ONU e del loro interprete congolese, scomparsi il 12 marzo e ritrovati morti lunedì scorso vicino al fiume Moyo.
La decisione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU arriva a qualche giorno di distanza dall’annuncio, lo scorso 28 marzo, del fallimento dei colloqui tra l’opposizione e il Presidente Kabila per applicare le condizioni dell’accordo di coabitazione stipulato, lo scorso 31 dicembre, con le forze di opposizione. Quest’ultimo avrebbe dovuto risolvere l’impasse politica in cui il Paese si trova da oltre 4 mesi e che minaccia di evolversi in un conflitto ad alta intensità in caso di fallimento dei negoziati tra le parti.
Russia
Lo scorso 3 marzo, un attacco terroristico è avvenuto all’interno della metropolitana di San Pietroburgo. Sembrerebbe, infatti, che un uomo si sia fatto esplodere all’interno di un vagone della metro, subito dopo che il treno aveva lasciato la stazione di Semaya Ploschad, nel centro della città, provocando la morte di circa 14 persone e il ferimento di altre 35. Nonostante l’esplosione, il treno ha proseguito la corsa verso la fermata Tekhnologicheskiy Institut, dove si è poi fermato, in modo da facilitare l’evacuazione dei passeggeri. Qualche ora dopo l’esplosione, un altro ordigno è stato ritrovato e disinnescato alla stazione di Ploschad Vosstaniya, anch’essa nel pieno centro della città. Al momento dell’attentato, il Presidente Vladimir Putin si trovava a San Pietroburgo, sua città natale, per diverse visite istituzionali.
L’attacco non è stato ancora rivendicato. Tuttavia, il sospettato principale è stato identificato in Akbarzhon Jalilov, un ragazzo uzbeko di passaporto russo di 22 anni, nato nella ragione di Och, nel Kirghizistan, nota per aver fornito un importante numero di foreign fighters allo Stato Islamico (IS o Daesh).
L’identikit dell’attentatore e la modalità dell’attacco farebbero pensare a un attacco di matrice jihadista, probabilmente motivato da diverse ragioni, tra le quali il sostegno del Cremlino al Presidente siriano di Bashar al-Assad, l’impegno russo nella lotta al terrorismo internazionale e il perdurante conflitto tra il governo centrale e l’insorgenza nazionalista, jihadista e indipendentista attiva in alcune Repubbliche del Caucaso (Daghestan, Inguscezia, Cecenia). Quest’ultima, nel corso degli ultimi venti anni, è entrata a far parte dei maggiori network terroristici globali, quali al-Qaeda e lo Stato Islamico. Ad oggi, sul territorio russo sono attive tre principali sigle jihadiste: l’Emirato del Caucaso, alleato di al-Qaeda, la Provincia del Caucaso, espressione locale di Daesh, e il Movimento Islamico dell’Uzbekistan, movimento particolarmente attivo in Asia centrale e presso la diaspora degli Stan Country in Russia. L’insorgenza caucasica, in passato repressa con il disinvolto uso della forza armata, ha trovato nuovo slancio con la guerra in Siria, grazie all’invio di oltre 2.500 foreign fighters. Questi, nei campi di battaglia mediorientali hanno potuto acquisire expertise tecnico ed ideologico difficilmente ottenibile in patria a causa dello stretto controllo effettuato dagli organi di sicurezza e intelligence del Cremlino. Di conseguenza, nel prossimo futuro, il governo russo potrebbe dover affrontare una nuova escalation delle violenza jihadista derivata direttamente dal ritorno dei combattenti stranieri.
Serbia
Lo scorso 2 aprile, Aleksandar Vucic, leader del partito conservatore di maggioranza Partito Serbo del Progresso (SNS) ed ex Primo Ministro, è stato eletto Presidente della Repubblica. Vucic succede al Presidente Tomislav Nikolic che, sebbene avrebbe potuto ricandidarsi per un secondo mandato, ha preferito non partecipare alla corsa per la Presidenza. Vucic ha ottenuto, subito al primo turno, il 55% dei voti, evitando così di andare al ballottaggio e battendo i concorrenti Sasa Jonkovic, avvocato e attivista per i diritti umani nonché Ombudsman della Repubblica serba, che ha ottenuto il 16%, e Luka Maksimovic, attore comico e attivista politico, conosciuto come Ljiubisa Preletacevic “Beli”, leader del partito satirico Sarmu Probo Nisi (SPN), che ha raccolto solo il 9% delle preferenze.
La campagna elettorale del neo-eletto Presidente si è concentrata sull’idea dell’implementazione della politica estera di “doppio binario”: da una parte pro-europeista e incline al proseguo del percorso di integrazione nell’Unione Europea, dall’altro vicino allo storico alleato russo.
Inoltre, Vucic ha fatto leva sull’economia, che ha registrato una crescita del 2,8% nel 2016, sotto il suo mandato di Primo Ministro, dopo un periodo di crisi dovuto alle sanzioni economiche che hanno seguito la guerra nei Balcani nel 1990.
La carriera politica di Vucic inizia negli anni '90 all’interno del Partito Radicale Serbo (SRS), partito nazionalista di estrema destra, di cui diventa vice-segretario nel 1994. Dopo aver assunto diversi incarichi ministeriali sotto la Presidenza di Slobodan Milosevic, nel 2008 lascia il Partito Radicale e fonda il Partito Progressista, moderato e filo-europeista, allontanandosi così dalle tendenze ultra-nazionaliste e mostrandosi in favore di una conciliazione non solo tra le forze politiche in campo ma anche tra i Paesi limitrofi, tra i quali la Bosnia.
Dal momento che Vucic potrebbe detenere contemporaneamente la carica di Presidente, che ha competenze prettamente cerimoniali, e quella di leader del SNS, attualmente maggioritario in Parlamento, esiste il rischio che nel Paese si concretizzi un “abuso di posizione dominante” da parte delle forze politiche conservatrici a detrimento dell’effettività democratica e della libera competizione tra diverse formazioni partitiche.
Siria
Nella notte tra il 6 e il 7 aprile, i cacciatorpediniere statunitensi USS Ross e USS Porter hanno lanciato 59 missili da crociera BGM-109 Tomahawk contro la base dell’aeronautica militare siriana di al-Shayrat, distruggendone le infrastrutture e provocando circa 6 morti. L’attacco costituisce una rappresaglia decisa dall’Amministrazione Trump contro il governo del Presidente Bashar al-Assad, colpevole, secondo Washington, di aver utilizzato armi chimiche (gas sarin) nel corso di un bombardamento effettuato il 4 aprile sulla città di Khan Shaykhun, nel governatorato di Idlib, attualmente sotto il controllo dei ribelli. Secondo i dati sinora disponibili, il bilancio delle vittime del bombardamento sarebbe di oltre 130 morti e 500 tra feriti e intossicati. Qualora confermato, il bombardamento di Khan Shaykhun sarebbe il terzo maggior attacco chimico perpetrato in Siria dall’inizio della guerra civile, dopo quelli di Khan al-Assal (19 marzo 2013, 23 morti, 124 feriti e intossicati) e di Ghouta (21 agosto 2013, oltre 1300 morti e 3600 tra feriti e intossicati).
Tuttavia, la dinamica degli eventi di Khan Shaykhun resta al momento poco chiara e combattuta: infatti, mentre i movimenti di opposizione siriani, i Paesi europei, gli Stati Uniti, la Turchia e l’Arabia Saudita hanno accusato il Presidente Assad di un volontario ed evidente crimine di guerra, Damasco ed i suoi alleati russi ed iraniani hanno definito l’accaduto come un incidente ed un imprevisto danno collaterale. Infatti, secondo il fronte lealista siriano, l’aeronautica avrebbe colpito un deposito di armi senza sapere che al suo interno fossero conservate armi chimiche.
L’attacco statunitense, oltre a distruggere una delle principali infrastrutture militari lealiste, rappresenta un evidente segnale rivolto a Damasco sulla volontà degli USA di intraprendere dirette azioni ostili in Siria in risposta ad eventuali iniziative delle forze di Assad ritenute confliggenti con gli interessi di Washington. Al contempo la decisione di Trump costituisce un diretto messaggio a Mosca, preventivamente avvisata dell’attacco, e Teheran sulla centralità degli USA nel processo di risoluzione della crisi siriana.
Il bombardamento della base di al-Shayrat potrebbe non precludere ad eventuali escalation anche se, per quanto osservato sinora, il Presidente Trump appare incline ad azioni improvvise ed imprevedibili. Infatti, soltanto alcuni giorni prima, l’inquilino della Casa Bianca aveva concesso moderate aperture su un possibile ruolo di Assad nel processo di transizione post-bellico.
Tuttavia, eventuali nuove azioni statunitensi potrebbero indebolire il fronte lealista, aprendo così dei vuoti di potere a vantaggio delle organizzazioni jihadiste attive sul terreno. Inoltre, sulla strategia di Washington pesa l’assenza di un piano diplomatico e politico di lungo periodo che, una volta eventualmente terminata la crisi, getti le basi per la transizione democratica e l’inclusione dei diversi attori attivi nello scenario siriano.
Somalia
Lo scorso 3 aprile, il cargo indiano al-Kausar, partito da Dubai e diretto al porto di Bosasso, con a bordo un equipaggio di 11 persone, è stata abbordata da una banda di pirati somali nei pressi dell’isola yemenita di Socotra per poi essere condotta verso la costa della regione del Galmudug, probabilmente verso i porti di el-Hur o di Hobyo.
Si tratta del secondo sequestro di un’imbarcazione da parte dei pirati somali nelle ultime settimane. Infatti, lo scorso 14 marzo, era stata catturata, proprio a largo dello stesso tratto di mare che stava attraversando la al-Kausar, il cargo emiratino ARIS-13, partito da Gibuti e diretto a Mogadiscio, poi rilasciato dopo tre giorni.
Questi incidenti sono sintomatici di una ripresa delle attività di pirateria, che nel 2012 avevano cominciato a scemare per poi raggiungere la loro più consistente diminuzione nel 2016 grazie a una serie di misure adottate dalle compagnie armatoriali, come l’imbarco di guardie armate a bordo delle navi, e degli Stati, come le missioni di anti-pirateria dell’Unione Europea e della NATO. Tuttavia, a cominciare da novembre, con la fine della missione della NATO, le capacità di pattugliamento e deterrenza delle forze internazionali sono sensibilmente diminuite, incentivando le bande di pirati a ricominciare le proprie attività.
La ripresa della pirateria rappresenta, dunque, un’ulteriore criticità per l’agenda politica del Presidente Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmajo”, che nel frattempo deve gestire anche la minaccia posta da al-Shabaab, formazione jihadista affiliata ad al-Qaeda e attiva nel Paese dal 2006.
Proprio il 3 aprile, al-Shabaab ha riconquistato la città el-Bur, capitale della regione di Galguduud, nello Stato Federale di Galmudug, subito dopo il ritiro dalla città delle forze etiopi, parte della missione AMISOM (African Union Mission in Somalia), che nel 2014 era riuscita ad espugnare la città allora sotto il controllo del gruppo filo-qaedista. Le truppe etiopi hanno iniziato a diminuire il loro contingente in Somalia già nell’ottobre scorso, e da allora al-Shabaab ha cominciato a riacquistare terreno.
Osservando il ritorno in auge della pirateria e la resilienza di al-Shabaab, appare evidente come le istituzioni somale, nonostante i significativi progressi politici e securitari compiuti negli ultimi anni, necessitino ancora del fondamentale aiuto internazionale per proseguire il proprio processo di stabilizzazione.