Geopolitical Weekly n.252
Cina
Il 18 marzo il Segretario di Stato americano, Rex Tillerson, è arrivato a Pechino per incontrare i leader cinesi, il Presidente Xi Jinping, il Premier Li Keqiang, il Ministro degli Esteri Wang Yi, e il Consigliere di Stato Yang Giechi. Si tratta dell’ultima tappa del viaggio del Segretario Tillerson in Asia, iniziato lo scorso 15 marzo e che lo ha portato prima in Giappone, poi in Corea del Sud e infine in Cina.L’incontro, avvenuto dapprima tra Tillerson e il Ministro degli Esteri Wang Yi, si è focalizzato soprattutto sul programma nucleare della Corea del Nord. Nonostante durante la precedente visita in Corea del Sud Tillerson si fosse detto a favore dell’opzione militare contro la Corea del Nord, a Pechino, al contrario, il Segretario di Stato ha rinnovato l’idea della soluzione diplomatica per contrastare la minaccia nucleare di Pyongyang. Ha auspicato, infatti, di cooperare con Pechino, principale alleato della Corea del Nord, per convincere il regime di Kim Jong-un a sospendere il programma nucleare. Da parte sua il Ministro Wang Yi ha affermato che un allentamento delle attività militari e nucleari da parte nord-coreana non può prescindere da un affievolimento delle relazioni militari tra gli Stati Uniti e la Corea del Sud. Wang e Tillerson hanno, inoltre, concordato sulla gravità del problema posto dalla Corea del Nord, che solo il mese scorso ha condotto l’ultimo test balistico nel Mar del Giappone.Dall’incontro emerge come la gestione della questione nordcoreana sembra essere un punto fondamentale nelle relazioni tra Washington e Pechino. Gli Stati Uniti hanno pressato a lungo la Cina affinché si impegnasse per fermare i programmi nucleari nord-coreani. Il dialogo potrebbe essere, tuttavia, complicato dalle attuali tensioni in corso per via dell’installazione del sistema antimissilistico statunitense THAAD (Terminal High Altitude Area Defense-Difesa d’aria terminale ad alta quota) in Corea del Sud. Pechino teme, infatti, che il dispositivo radar del THAAD possa interferire con il proprio sistema di sicurezza.I colloqui tra il Presidente Trump e il Presidente cinese Xi Jinping, attesi il prossimo 6-7 Aprile, presso il Resort di Trump ,Mar-a-Lago, in Florida, potrebbero rappresentare il barometro per lo stato delle relazioni bilaterali tra i due Paesi.
Egitto
Il 23 marzo, nella regione del Sinai, alcuni chilometri a sud della città di al-Arish, dieci soldati egiziani sono stati uccisi in seguito all’esplosione di due mine che hanno colpito il veicolo in cui si trovavano durante lo svolgimento di una operazione anti-terrorismo contro un nucleo di miliziani appartenenti al gruppo jihadista Wilayat Sinai (Provincia del Sinai), organizzazione affiliata allo Stato Islamico IS o Daesh). Attivo nella penisola dal 2011 sotto il nome di Ansar al-Beit al-Maqdis (ABM), il gruppo ha effettuato nel 2014 il bayat (giuramento) allo Stato Islamico, assumendo l’attuale denominazione e rendendo difatti il Sinai una vera e propria emanazione del Califfato di al-Baghdadi. Nonostante le perdite subite, i militari egiziani sono riusciti ad ingaggiare la cellula terroristica, uccidendo 15 dei suoi membri ed arrestandone 7. Inoltre, nel corso del radi è stato distrutto materiale esplosivo e sono stati sequestrati due veicoli contenti bombe a mano e centinai di telefoni cellulari. La penisola del Sinai è teatro dell’insorgenza jihadista già dal 2011, all’indomani della caduta del Presidente Mubarak e a causa del conseguente sbandamento degli apparati militari e di sicurezza nazionali che ha permesso una notevole crescita capacitiva dei gruppi locali. Gli attacchi si sono poi intensificati ulteriormente nel 2013, a seguito del colpo di Stato che ha portato alla caduta del Presidente Morsi e a un ulteriore allentamento del controllo da parte del regime su questa porzione di territorio. Da allora diversi attacchi sono stati perpetrati sia contro le forze dell’ordine, come il 9 Gennaio scorso contro un posto di blocco nella città di el-Arish nel Nord del Sinai, sia contro la popolazione cristiana, come lo scorso 25 febbraio, quando decine di copti sono stati costretti a lasciare la Provincia del Nord del Sinai in seguito al perpetrarsi di numerosi attacchi nei loro confronti. La sicurezza nella penisola del Sinai, dove Wilayat Sinai sembra avere un ampio margine di manovra grazie anche al sostegno delle tribù beduine locali, rappresenta una delle maggiori criticità di sicurezza del governo egiziano. La forza delle organizzazioni jihadiste nel Sinai appare direttamente proporzionale alla sua capacità di guadagnare il sostegno delle realtà tribali della Penisola e di sfruttare l’alienazione politica delle stesse nei confronti delle istituzioni centrali per trasformare l’insorgenza locale in un fronte regionale del jihad globale dichiarato dal Califfato di al-Baghdadi.
Marocco
Il 17 marzo è stato nominato dal re Mohammed VI il nuovo Primo Ministro Saad-Eddine el-Othmani, membro del partito islamista moderato di maggioranza PJD (Partito di Giustizia e Sviluppo) ed ex Ministro degli Esteri. Costui succede ad Abdelillah Benkirane, Segretario Generale dello stesso partito. La nomina ha lo scopo di sbloccare l’impasse istituzionale più lunga della storia politica del Marocco. Dopo le elezioni legislative di ottobre 2016, che hanno visto la vittoria del PJD, Benkirane si è riconfermato Primo Ministro, carica ricoperta già nell’amministrazione precedente (2011-2016), ma non è riuscito a creare, dopo 5 mesi di negoziazioni, un governo di maggioranza. Infatti, il sistema elettorale marocchino rende molto difficile, se non impossibile, raggiungere in solitaria la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento (198 su 395). Dunque, l’ottenimento della fiducia è subordinata alla formazione di ampie coalizioni di governo. La proposta di Benkirane di ricostruire la sua coalizione, composta da 4 formazioni politiche in grado di unire islamisti, liberali ed ex-comunisti, ha però incontrato l’opposizione dell’ex-Ministro dell’Agricoltura, Aziz Akhennouch, attualmente presidente del Raggruppamento Nazionale degli Indipendenti (RNI). Akhennouch premeva, infatti, per inserire nella coalizione altri gruppi minori, con lo scopo di indebolire il peso politico del PJD. Come previsto dall’iter costituzionale, dunque, in vista dell’impossibilità di creare una coalizione, il sovrano ha designato un nuovo capo di governo in seno al partito vincitore delle elezioni legislative. El Othmani, psichiatra proveniente da un’illustre famiglia amazigh, è stato Segretario del PJD dal 2004 al 2008. E’ approvato sia dai conservatori che dai progressisti in quanto islamista moderato. El Othmani potrebbe, dunque, formare un nuovo governo, anche se permangono delle criticità. Infatti, il nuovo Primo Ministro ha ribadito più volte di non voler creare una coalizione di larghe intese che includa il Partito di autenticità e modernità (PAM) e l’Unione Socialista delle Forze Popolari (USFP). Inoltre, El Othmani non gode del sostegno del Movimento Unità e Riforma (MUR), ossatura ideologica del PJD. Ciononostante, la necessità di formare un nuovo esecutivo appare sempre più stringente. Il prolungamento del vuoto di potere, infatti, potrebbe avere delle serie ripercussioni non solo sulla stabilità politica e economica del Paese ma soprattutto sul percorso di penetrazione del Marocco all’interno del continente africano, iniziato con la recente riammissione di Rabat nell’Unione Africana.
Regno Unito
Nella giornata di mercoledì 22 marzo, esattamente un anno dopo gli attacchi di Bruxelles, la città di Londra è stata vittima di una nuova azione terroristica. Un inglese, identificato come Khalid Masood, ha dapprima investito con un SUV alcuni passanti lungo il Westminster Bridge; in seguito, dopo aver tentato invano di entrare nel cortile adiacente al Parlamento sfondando il cancello con il veicolo, è sceso ed ha accoltellato a morte un poliziotto, prima di essere freddato con dei colpi di pistola da altri agenti che erano di guardia sul posto. Masood, originario del Kent, era già schedato dai servizi di sicurezza interna britannici (MI5) per le alcune sospette attività di ispirazione islamista radicale non ancora rese note dagli organi investigativi. Il bilancio dell’accaduto è al momento di 4 morti, compreso l’assalitore, e circa 40 feriti, tra cui due italiani. Nella notte la polizia ha effettuato diversi blitz che hanno condotto a 8 arresti. L’attacco è stato rivendicato dal sedicente Stato Islamico, che attraverso l’organo di propaganda Amaq, ha dichiarato che è stata opera di un “soldato del Califfato”. L’attentatore sembrerebbe comunque aver agito da solo, senza il sostegno di alcuna cellula organizzata. Analizzando le modalità dell’accaduto, sembrerebbe trattarsi della tipica azione di un lupo solitario. In particolare, la dinamica (un veicolo utilizzato come arma e diretto sulla folla) richiama gli eventi di Nizza e Berlino dello scorso anno, quando due uomini a bordo di due tir si lanciarono sulla folla, mietendo numerose vittime; parallelamente, l’utilizzo di coltelli e l’aggressione ad un poliziotto si ricollegano a precedenti quali l’attacco al museo del Louvre a Parigi o l’aggressione con un machete avvenuta nella stessa Londra alcuni mesi or sono. La tipologia dell’attacco dunque non è certamente nuova: si tratta di un atto caratterizzato da un basso livello di preparazione e sofisticazione, ma che al tempo stesso produce un enorme impatto psicologico nelle persone e sulle istituzioni. L’azione di Londra segue le linee guida indicate proprio dall’ISIS, che ha più volte esortato i suoi membri in Europa, affiliati o presunti, ad agire in tutti i modi possibili, utilizzando ad esempio armi bianche e veicoli di vario genere e colpendo sia i luoghi simbolo della civiltà occidentale sia le aree a densa presenza di civili, cercando di massimizzare il sentimento di terrore e paura proveniente da tali azioni.
Somalia
Il 21 marzo, a Mogadiscio, un attentatore suicida a bordo di un autobomba ha colpito un checkpoint della polizia, provocando la morte di circa 10 persone. Il posto di blocco era situato a circa 500 metri da Villa Somalia, residenza ufficiale del Presidente somalo. Sebbene non ci sia una chiara rivendicazione, non è da escludere che l’attacco possa essere stato perpetrato da al-Shabaab, gruppo jihadista affiliato ad al-Qaeda e attivo nel Paese dal 2006. Gli attentati di matrice jihadista sono sistematicamente ripresi a Mogadiscio a cominciare dall’avvio del processo elettorale (agosto 2016) e in seguito all’elezione del nuovo Presidente Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmajo”, avvenuta lo scorso 8 febbraio. Già il 19 febbraio, infatti, un’altra autobomba, scoppiata nel quartiere Madina della capitale, aveva provocato circa 40 morti. Al-Shabaab è stato espulso da Mogadiscio nel 2011 grazie alla missione dell’Unione Africana AMISOM (African Union Mission in Somalia). Ciononostante, il gruppo filo-qaedista controlla ancora alcune regioni centrali e meridionali del Paese e continua a portare avanti la sua campagna terroristica. Appare evidente come l’obiettivo degli attentati sia quello di incrementare la già perdurante instabilità del Paese e, in questo modo, ostacolare il processo di stabilizzazione nazionale, minare alle basi l’amministrazione di Mohamed e dimostrare la sua pericolosità nonostante la campagna di contro-terrorismo svolta dal governo e dall’Unione Africana abbia privato il gruppo jihadista di importanti avamposti. La resilienza di al-Shabaab resta uno dei maggiori ostacoli della Presidenza di Farmajo e la neutralizzazione del gruppo terroristico diventa, dunque, fondamentale affinché il Presidente possa porre in essere l’opera di state-building e di ricostruzione delle istituzioni statali.