Geopolitical Weekly n. 282

Geopolitical Weekly n. 282

Di Lorenzo Nardi
01.03.2018

Afghanistan

Mercoledì 28 febbraio, il Presidente della Repubblica Islamica dell’Afghanistan, Ashraf Ghani ha dichiarato di voler trattare diplomaticamente con le forze talebane, invitandoli a sospendere il conflitto armato e proponendo il loro riconoscimento come forza politica legittima. La dichiarazione è giunta durante il secondo incontro del così detto ‘Processo di Kabul’, organizzato dal governo afghano per cercare una soluzione condivisa alla pluriennale crisi di sicurezza interna. L’evento, al quale hanno partecipato i Ministri di 25 Paesi e rappresentanti delle organizzazioni internazionali come Nazioni Unite e NATO, è stato l’occasione per il Presidente Ghani di sottolineare come la risoluzione dell’instabilità interna si debba poggiare sulla cooperazione con la Comunità Internazionale e sull’ intesa con le forze talebane.

In un momento in cui l’Afghanistan si prepara per le elezioni parlamentare, da tenersi entro la fine dell’anno, e le presidenziali, previste per il 2019, l’apertura di Ghani potrebbe aggiungere una nuova variabile ai già complicati equilibri interni allo spettro politico nazionale. L’efficacia operativa dell’insorgenza talebana, in grado non solo di contestare al governo centrale circa il 50% dei distretti di cui si compone il Paese ma anche di portare a termine attentati complessi all’interno della capitale, infatti, potrebbe spingere i Talebani, qualora accettassero l’aperura diplomatica, a pretendere di sedersi al tavolo negoziale da una posizione di forza. Ciò comporterebbe che la leadership del gruppo potrebbe alzare la posta in gioco nelle trattative per ottenere condizioni decisamente favorevoli in cambio del termine delle operazioni sul campo. Una simile eventualità costringerebbe il Presidente Ghani a dover bilanciare la volontà di portare avanti il dialogo con l’insorgenza per porre termine alla spirale di violenza interna, nonchè di dimostrare la propria solerzia alla popolazione afghana, e la necessità di non assecondare richieste che comprometterebbero le opere sostenute dalle autorità e dalla Comunità Internazionale durante gli ultimi quindici anni.

Arabia Saudita

Lo scorso 26 febbraio, con un decreto reale l’Arabia Saudita ha annunciato un profondo ricambio dei vertici delle Forze Armate, la promozione di nuovi giovani funzionari nei principali Ministeri e la nomina di nuovi vice governatori. Nello specifico, il Capo di Stato Maggiore della Difesa Abdul Rahman bin Saleh al-Bunyan è stato sostituito da Fayyad bin Hamed al-Ruwayli, sono stati rimossi i Capi di Stato Maggiore dell’Aeronautica e dell’Esercito ed è stata promossa una decina di giovani ufficiali in posizioni chiave. Parallelamente, ruoli di rilievo nei Ministeri della Difesa, dell’Interno, dell’Economia, della Giustizia e del Lavoro sono stati assegnati a una nuova leva di funzionari.

Tali nomine si inseriscono nel processo di consolidamento del potere avviato fin dal 2015 dall’Erede al Trono Mohammad bin Salman. Promuovendo nuove leve di funzionari a lui vicini, bin Salman punta ad aumentare il controllo sugli apparati statali, in una progressiva concentrazione del potere nella sua persona che ha visto nell’estromissione di Mohammed bin Nayef dalla linea di successione al Trono (giugno 2017) il momento apicale.

Questo percorso non è privo di incognite. Infatti, per l’assertività con cui viene condotta, l’ascesa di bin Salman si espone costantemente al rischio di alimentare il malumore di quella parte della Casa dei Saud che teme di essere estromessa. In questo senso, appare significativa la promozione al ruolo di vice governatori di tre esponenti della famiglia Saud facenti capo ai Principi Ahmed, Muqrin e Talal (fratelli di Re Salman) che può essere intesa come il tentativo, da parte di bin Salman, di tranquillizzare alcuni dei più influenti esponenti della famiglia.

Sudafrica

Cyril Ramaphosa, neo-eletto Presidente della Repubblica Sudafricana, ha confermato l’intenzione di voler modificare l’articolo 25 della Costituzione, autorizzando quindi l’esproprio senza indennizzo delle proprietà terriere della popolazione bianca per redistribuirle a favore della maggioranza di colore. Ad oggi, la terra arabile è detenuta al 75% dalla popolazione bianca, fattore che creare una profonda discriminazione economica all’interno del Paese e che è stato sempre al centro delle rivendicazioni sociali della popolazione a partire dalla fine del regime di apartheid. Il disegno di emendamento costituzionale era stato avanzato lo scorso 27 febbraio dal partito radicale EFF (Economic Freedom Fighters) ed ha ottenuto il pieno sostegno di Ramaphosa e dell’ANC (African National Congresso).

Ramaphosa ha deciso di accogliere la proposta dell’EFF e di sostenere la riforma agraria probabilmente per ingraziarsi l’elettorato appartenente alle classi meno abbienti e la sezioni dell’ANC di orientamento socialista a lui avverse. Infatti, il nuovo Presidente sudafricano è ritenuto, generalmente, espressione del ceto imprenditoriale e dei grandi conglomerati industriali nazionali.

Ispirandosi alla riforma agraria dello Zimbabwe del 1979 e con l’obbiettivo di proseguire l’ambizioso piano di Sviluppo Nazionale 2030, incentrato sulla lotta alla povertà e alle disuguaglianze e avviato dall’ex Presidente Zuma,  il Sud Africa potrebbe trovarsi davanti ad uno stravolgimento epocale a livello economico, politico e sociale, modificando gli equilibri di ricchezza tra la popolazione bianca e quella di colore.

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