Geopolitical Weekly n. 272
Filippine
Il 16 ottobre le Forze Armate filippine hanno annunciato la morte di Isnilon Hapilon e Omarkhayam Maute, due esponenti di spicco della formazione affiliata a Daesh nelle Filippine che guidavano l’assedio alla città meridionale di Marawi (nella provincia di Lanao del Sur). Hapilon, già leader del più noto gruppo militante filippino Abu Sayyaf, era stato nominato Emiro della branca locale del così detto Stato Islamico (IS) nel giugno del 2016. Omarkhayam, insieme al fratello Abdullah (rimasto ucciso lo scorso agosto) era il comandante del gruppo Maute, che ha a Lanao del Sur la propria roccaforte. La morte dei due militanti potrebbe rappresentare un punto di svolta nella battaglia per la ripresa di Marawi: decapitata la leadership, infatti, i combattenti ancora asserragliati in città potrebbero non avere più punti di riferimento e cominciare a pianificare la ritirata. I combattimenti a Marawi erano iniziati lo scorso 23 maggio, quando il tentato arresto di Hapilon da parte delle Forze di polizia locali aveva innescato uno scontro a fuoco sia con i membri di Abu Sayyaf sia con il gruppo Maute giunti in soccorso ed era degenerato in una vera e propria campagna di assedio.
La morte di Hapilon rappresenta un’importante battuta di arresto non solo per Abu Sayyaf ma per tutta la formazione jihadista nelle Filippine. Entrambe le formazioni, infatti, saranno ora chiamate a scegliere un nuovo comandante che sia in grado di portare avanti la battaglia contro le forze di Manila. la formazione locale affiliata a Daesh, tuttavia, è un gruppo ombrello che racchiude diverse realtà appartenenti al panorama separatista e salafista filippino ma che raccoglie anche combattenti provenienti da tutto il Sudest asiatico. La scelta del nuovo leader, dunque, potrebbe essere indicativa degli attuali equilibri di forza all’interno del gruppo. Poiché i militanti filippini sono noti per accettare raramente gli stranieri come leader, per l’importanza dei legami familiari e clanici nei rapporti sociali, la scelta sarà cruciale per la futura tenuta del gruppo.
Iraq
Il 16 ottobre, le Forze governative irachene hanno preso il controllo delle aree chiave della provincia di Kirkuk cacciando i Peshmerga curdi. In meno di 24 ore, l’Esercito iracheno, la polizia federale, le forze speciali e le Unità di Mobilitazione Popolare hanno conquistato la città di Kirkuk, le basi militari adiacenti, le principali infrastrutture energetiche e i campi petroliferi. Tutte queste aree sono disputate tra Erbil e Baghdad e erano sotto il controllo curdo a partire dal 2014. Questa escalation nasce in seguito al controverso referendum del 25 settembre sull’indipendenza della regione curda dal resto dell’Iraq, che è stato respinto dal Primo Ministro iracheno Haider al-Abadi.
Il Governo Regionale Curdo (KRG) ha dispiegato migliaia di truppe intorno a Kirkuk in preparazione di un attacco dell’Esercito iracheno. Tuttavia, la parte dei Peshmerga afferenti all’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK) si è ritirata immediatamente senza combattere. Questa mossa ha costretto anche i Peshmerga controllati dal Partito Democratico del Kurdistan (KDP) ad abbandonare le loro posizioni. Il diverso comportamento dei Peshmerga e dei loro referenti politici rappresenta una nuova frattura tra i due principali partiti politici del Kurdistan, che hanno combattuto una guerra civile negli anni '90 e hanno mantenuto da allora un controllo separato sui Peshmerga, sulle forze di polizia e sui servizi di intelligence.
Alla luce dei tentativi per l’indipendenza, la perdita di Kirkuk è un vero punto di svolta per il KRG perché ha perso una fonte di reddito essenziale: senza i campi petroliferi di Kirkuk sembra molto difficile che nel breve termine possano raggiungere l’indipendenza economica.
Inoltre, la perdita di Kirkuk indebolisce anche la forza negoziale curda con Baghdad. Oltre ad aumentare la diffidenza tra Baghdad e un KRG dominato dal KDP, la distanza tra il PUK e il KDP, riaccesa dagli eventi a Kirkuk, potrebbe approfondirsi e portare a nuovi scontri sull’equilibrio del potere all’interno della regione del Kurdistan iracheno.
Somalia
Il 16 ottobre, più di 300 persone sono state uccise a causa dell’esplosione di un camion bomba nella capitale Mogadiscio. Si tratta del più sanguinoso attacco terroristico avvenuto nella storia della Somalia, l’ennesimo dal 2007, anno dell’inizio dell’insurrezione di al-Shabaab. Anche se l’attacco non è stato ancora rivendicato, i principali sospetti ricadono proprio su al-Shabaab, movimento jihadista affiliato ad al-Qaeda.
Secondo alcune fonti, l’obiettivo primario dell’attacco non era la popolazione civile, ma la base militare turca di Mogadiscio. Infatti, sembra che l’attentatore suicida alla guida del camion bomba abbia deciso di far detonare l’esplosivo dopo essere stato accidentalmente fermato dalla Polizia per un controllo di routine del carico. Inaugurata lo scorso settembre, l’infrastruttura militare turca ospita circa 200 soldati ed è destinata principalmente a fornire pacchetti addestrativi alle Forze Armate somale. Secondo il memorandum turco-somalo, Ankara addestrerà circa 10.000 soldati somali.
Nonostante la sua espulsione da Mogadiscio nell’agosto 2011, al-Shabaab continua a controllare grandi aree del territorio nel centro e nel sud del paese, specialmente nei distretti rurali. Anche se il rafforzamento delle Forze Armate somale e della polizia e dell’efficacia delle operazioni di AFRICOM (Missione dell’Unione Africana in Somalia) hanno contribuito a ridimensionare la minaccia terroristica e di insorgenza, l’al-Shabaab continua a rappresentare la sfida principale alla stabilità sia della Somalia e che l’intera regione del Corno d’Africa.