Geopolitical weekly n. 218
Sommario: Arabia Saudita, Egitto, Filippine, Nigeria, Yemen
Arabia Saudita
Lo scorso 10 maggio, il governo ha manifestato la sua intenzione di aumentare ulteriormente la produzione di petrolio. La decisione è stata annunciata da Amir Nasser, Amministratore Delegato della compagnia petrolifera statale Saudi Aramco e confermata dal neo Ministro dell’Energia Khalid al-Falih.
Nonostante Riyadh abbia già adottato una strategia (Vision 2030) finalizzata a superare entro i prossimi quattordici anni la sostanziale dipendenza delle finanze statali dagli introiti petroliferi, per il momento la leadership nazionale ha voluto dare un chiaro segnale al suo maggior competitor strategico nella regione: l’Iran.
Infatti, Teheran è in procinto di tornare in forze sul mercato petrolifero dopo la revoca delle sanzioni internazionali e, negli ultimi mesi, la crescita delle sue esportazioni idrocarburiche ha superato le aspettative. Di conseguenza, la scelta saudita di aumentare la produzione, anche a rischio di ridurre ulteriormente il prezzo al barile, va vista come un chiaro tentativo di ridurre gli spazi di manovra iraniani.
Dal punto di vista delle previsioni di mercato l’aumento della produzione, secondo la compagnia di stato saudita, sarà sostenuto dall’incremento della domanda mondiale di greggio, che salirà di 1,2 milioni di barili al giorno.
Nel complesso, le scelte saudite, al di là dei futuribili piani di diversificazione, confermano la volontà del Paese di voler continuare a giocare un ruolo di primissimo piano nella determinazione delle politiche petrolifere globali con un occhio di riguardo non solo alle dinamiche economiche, ma anche a quelle geostrategiche.
Egitto
La mattina di domenica 8 maggio, nel distretto di Helwan, a Sud del Cairo, otto agenti di polizia in borghese, tra cui un ufficiale, che viaggiavano a bordo di un minivan, sono stati uccisi da un commando armato.
L’attentato ha avuto una duplice rivendicazione ad opera di Ansar Beit al-Maqdis (gruppo jihadista affiliato allo Stato Islamico) e del movimento Resistenza Popolare. Il primo gruppo ha dichiarato di aver compiuto il gesto come rappresaglia contro la detenzione delle donne “caste” nelle prigioni del Paese, mentre il secondo ha dipinto l’attacco come simbolica commemorazione dell’anniversario del massacro di Rabaa (2013), quando centinaia di militanti appartenenti alla Fratellanza Musulmana erano rimaste uccise durante l’intervento delle Forze di Polizia per sgomberare un sit-in non autorizzato.
Nonostante l’Egitto sia frequentemente teatro di attacchi terroristici, permangono alcuni interrogativi irrisolti sulla dinamica del recente attacco. Innanzitutto, non era mai accaduto che un attentato di Ansar Beit al-Maqdis fosse contestualmente rivendicato da un altro gruppo. Inoltre, gli agenti uccisi erano impegnati in un’ordinaria operazione di controllo e vestivano abiti civili e il mezzo sul quale viaggiavano non aveva alcun segno distintivo. Dunque, ci si interroga su come i due gruppi terroristici potessero essere a conoscenza dell’identità dei poliziotti.
Secondo alcuni movimenti di opposizione ad al-Sisi, esiste la possibilità che questo attacco sia stato organizzato dagli stessi servizi di sicurezza egiziani per inasprire ulteriormente il clima di instabilità nel Paese e giustificare l’applicazione di misure legislative ancor più restrittive nei confronti della popolazione civile e, in particolare, di tutti gli individui e le organizzazioni ritenuti nell’orbita della Fratellanza musulmana o dell’islamismo.
Filippine
Lunedì 9 maggio nell’arcipelago delle Filippine si sono tenute le elezioni presidenziali e politiche. I cittadini sono stati chiamati a eleggere il nuovo presidente, il vice-presidente e altre diciottomila amministratori locali. Secondo dati non ancora confermati, Maverick Rodrigo Duterte ha vinto con il 40% dei voti. Ha superato di larga misura i suoi avversari: la centrista Grace Poe, Manuel Roxas III (appoggiato dal presidente uscente Benigno Aquino), Jejomar Binay (vice-presidente uscente) e la senatrice Miriam Defensor-Santiago. Ex sindaco della città di Davao (nell’isola meridionale di Mindanao), Duterte si è presentato fin da subito come unico candidato estraneo alle tradizionali cerchie di potere. Il suo successo, dunque, sembra essere il segnale più lampante del diffuso malcontento dell’opinione pubblica nei confronti del Presidente uscente, colpevole di aver fallito sia nella lotta alla corruzione sia nell’implementazione di un piano di sviluppo economico inclusivo, e dunque del desiderio della popolazione di vedere un reale cambiamento nella gestione del Paese. Forte dei successi raggiunti durante gli anni di amministrazione a Davao, Duterte ha saputo creare un programma elettorale di grande richiamo popolare, incentrato su temi caldi quali, la lotta alla corruzione, alla povertà e ad ogni forma di criminalità organizzata.
La vera sfida per Duterte nei prossimi mesi, dunque, sarà mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, durante la quale il desiderio di alimentare una retorica sensazionalistica è andata talvolta a discapito della coerenza dei punti in agenda. Un primo banco di prova per il futuro Presidente potrebbe essere rappresentato dalla gestione dei rapporti con i gruppi irredentisti del sud, in lotta con le istituzioni centrali ormai da decenni per cercare di ottenere l’indipendenza delle regioni meridionali dell’arcipelago.
Benché Duterte abbia espresso l’intenzione di abbandonare il pugno di ferro adottato dal precedente governo per cercare di riaprire un tavolo di trattativa, la difficoltà di trovare un unico interlocutore all’interno di un panorama tanto frammentario quale quello dei gruppi ribelli filippini, potrebbe mettere a repentaglio la credibilità del nuovo leader. Un secondo dossier spinoso per il nuovo governo potrebbe essere rappresentato dalle dispute marittime con la Cina nel Mare Cinese Meridionale. Duterte, infatti, si è detto pronto a trovare un compromesso sulla possibilità di sfruttamento delle risorse presenti nelle acque contese, attraverso l’istituzione di un dialogo multilaterale che includa anche altri attori regionali, quali Giappone, Stati Uniti e Australia.
Tuttavia, l’incidente diplomatico occorso con Washington e Canberra a causa di alcune dichiarazioni di Duterte in merito all’uccisione di una missionaria australiana (avvenuto nel 1989 a Davao) durante la campagna elettorale, e la successiva minaccia da parte del candidato filippino di interrompere i rapporti bilaterali in caso di vittoria potrebbe avere ripercussioni sulle future relazioni tra Manila e i due alleati e, dunque, sulla disponibilità dei rispettivi governi a fornire una sponda al governo filippino nelle contese regionali.
Nigeria
Lo scorso 4 maggio, il Presidente Buhari ha annunciato l’avvio dell’operazione “Crackdown”, intervento militare avente l’obbiettivo di distruggere le basi operative del gruppo jihadista Boko Haram all’interno della foresta di Sambisa, nello Stato Federale del Borno, nell’estremo nord-est del Paese. Sin dall’inizio dell’insurrezione armata nel 2009, la foresta di Sambisa ha costituito la principale base operativa e logistica di Boko Haram.
Secondo le Forze Armate nigeriane, l’operazione “Crackdown” dovrebbe infliggere il colpo di grazia a Boko Haram e, nella migliore delle ipotesi, portare alla liberazione delle oltre 200 ragazze rapite dal movimento terrorista il 14 aprile del 2014 dal villaggio di Chimbook.
Infatti, negli ultimi mesi, grazie all’incisiva azione della Multinational Joint Task Force (MJTF, Forza multinazionale composta da contingenti di Nigeria, Ciad, Camerun e Niger), Boko Haram ha perso notevoli porzioni di territorio ed un ragguardevole numero di miliziani. Dunque, attraverso l’offensiva nella foresta di Sambisa, il governo nigeriano spera di neutralizzare definitivamente il movimento jihadista affiliato a Daesh.
Tuttavia, anche in caso di successo dell’operazione “Crackdown”, il governo nigeriano non dovrebbe sottovalutare la dimensione sociale, economica ed educativa della lotta al terrorismo. Infatti, alla base della radicalizzazione del popolo Kanuri (principale bacino etnico di riferimento per Boko Haram), c’è un diffuso sentimento di malcontento verso le istituzioni centrali ed una profonda alienazione sociale, culturale ed economica rispetto al resto del Paese. In assenza di misure volte a combattere l’analfabetismo, il sottosviluppo e la scarsa rappresentatività politica nelle istituzioni nazionali, il problema del jihadismo autoctono nigeriano è destinato inevitabilmente a riproporsi, anche sotto altre sigle.
Yemen
Martedì 10 maggio è stato raggiunto un importante accordo tra le delegazioni del governo yemenita e dei ribelli sciiti Houthi, impegnate in un tentativo di dialogo volto a cercare di risolvere la crisi nel Paese. Il negoziato ha come oggetto lo scambio della metà dei rispettivi prigionieri, anche se le modalità ed i tempi del rilascio non sono stati pienamente concordati. Tuttavia, la resilienza e i molti ostacoli posti da entrambe le parti potrebbero pregiudicare il buon esito delle trattative.
La crisi yemenita si protrae ormai dal 2011 e ha subito un’improvvisa accelerazione nel 2014 a seguito della presa della capitale Sana’a da parte dei ribelli Houthi. Da tempo però, il conflitto è entrato in una fase di sostanziale stallo, sia dal punto di vista militare che politico.
Un primo flebile miglioramento dalla situazione d’impasse si è avuto il 10 aprile scorso, quando è stato sancito un accordo di cessate il fuoco tra le parti e successivamente con la ripresa dei colloqui di pace, iniziati il 21 aprile a Kuwait City, grazie alla mediazione delle Nazioni Unite.
L’accordo sulla liberazione dei prigionieri potrebbe diventare un importante punto di svolta dei negoziati, soprattutto dopo il timore che questi si fossero paralizzati a causa delle continue e vicendevoli violazioni della tregua.
Rimangono però ancora molti elementi di divergenza tra le due fazioni ad ostacolare la risoluzione pacifica del conflitto.