Egitto: emendamento alla legge anti-terrorismo e lo spettro di una nuova forma di autoritarismo
Nelle scorse settimane l’Egitto è stato al centro di un dibattito, domestico e internazionale, che ha coinvolto i principali esperti di settore, i policymakers e alcuni esponenti della società civile a causa di alcune decisioni rilevanti assunte dall’esecutivo. Il 25 ottobre, infatti, il Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha dichiarato la fine dello stato di emergenza, introdotto per la prima volta nell’aprile del 2017 a seguito di due attacchi contro le chiese copte di Alessandria e Tanta che hanno portato decine di persone alla morte. Da quel momento, tale misura è stata prorogata ogni trimestre, suscitando numerose preoccupazioni riguardo al rispetto dei diritti umani nel Paese. I motivi di tale apprensione riguardavano, in particolare, i numerosi strumenti che lo stato di emergenza attribuiva ai Servizi di Sicurezza, quali la censura, la sorveglianza e gli arresti, che potevano essere utilizzati in maniera discrezionale per reprimere e controllare il dissenso interno anche attraverso la loro assimilazione costante all’interno di una legislazione ordinaria civile.
Ciononostante, la scelta di dichiarare la fine dello stato di emergenza è stata accolta con scetticismo dai principali oppositori del regime e dagli osservatori internazionali. In particolare, al-Sisi viene accusato di possedere già gli strumenti repressivi di cui necessita al di fuori dello stato di emergenza per controllare la stampa e detenere in carcere i critici del regime utilizzando false accuse. A rafforzare questa posizione vi è il fatto che, nonostante la fine formale dell’emergenza, la situazione degli attuali prigionieri politici, sia quelli attualmente arrestati sia quelli sotto processo, rimarrà invariata.
Inoltre, in questo contesto socio-politico, la Camera dei Rappresentanti egiziana ha recentemente approvato un contestato emendamento sulla legge anti-terrorismo, entrato in vigore dopo la ratifica formale di al-Sisi, l’11 novembre 2021. Con questa modifica i poteri dell’apparato militare subiranno un’espansione significativa, ricalcando in parte quelli vigenti durante lo stato di emergenza. Inoltre, la polizia e le Forze Armate avranno diretta responsabilità sulla difesa delle principali infrastrutture del Paese (come oleodotti, gasdotti, strade, ferrovie, centrali elettriche, ecc). Chiunque verrà accusato di danneggiarle sarà processato davanti ad un tribunale militare, una procedura che metterà ancora più in crisi sia l’indipendenza del potere giudiziario, sia il diritto dei cittadini ad un equo processo davanti ad una Corte di Common Law.
Il governo egiziano ha difeso l’emendamento tramite le parole di Mamdouh Shain, assistente al Ministro della Difesa per gli affari legali e costituzionali, il quale ha dichiarato che i civili affronteranno un processo davanti alle Corti militari solo se ritenuti responsabili di attacchi contro le istituzioni pubbliche e vitali alla salute pubblica (come gli edifici delle TV e delle radio oppure la Camera dei Rappresentanti). Almeno formalmente, dunque, il governo ha cercato di rassicurare l’opinione pubblica restringendo l’area di intervento di questo strumento giuridico, pur specificando che sarà prerogativa delle Forze Armate spiegare e indicare cosa sia di interesse vitale e quali le istituzioni da difendere ad ogni costo.
Per comprendere appieno questi sviluppi è necessario però fare qualche riferimento alla storia recente dell’Egitto. Il colpo di Stato che nel 2013 ha deposto il Presidente Mohammed Morsi ha segnato, infatti, un passaggio importante nella vita pubblica e politica del Paese, in quanto si è gradualmente definito uno spostamento di poteri dall’ambito civile a quello militare, con le Forze Armate egiziane indiziate di aumentare pregiudizievolmente i propri ambiti di interesse e azione all’interno degli apparati civili dello Stato. L’aspetto più evidente di questa transizione è stato l’espressione di un Presidente, quale al-Sisi, con un passato da Feldmaresciallo dell’Esercito egiziano. Molte altre interferenze dei militari, però, possono essere riscontrate all’interno dell’amministrazione pubblica, delle imprese di Stato e del sistema giudiziario. L’Egitto, in particolar modo dopo l’ascesa di al-Sisi, ha vissuto infatti una fase di militarizzazione della sfera economica e giudiziaria, giustificata dal regime con il pretesto di tutelare la sicurezza nazionale e garantire la crescita economica del Paese. Nel caso del potere giudiziario, questa transizione è avvenuta principalmente al di fuori della legislazione di emergenza, grazie ad una serie di decreti emanati dal Presidente che hanno spostato la giurisdizione di riferimento, da civile a militare, per una serie di reati che non coinvolgono direttamente le Forze Armate o il loro ambito di intervento. Questo processo, come già menzionato, è stato accompagnato da una penetrazione crescente dell’esercito nell’economia egiziana, che gli ha permesso di ottenere un ruolo predominante nella produzione di beni primari, molto spesso con alti sussidi statali, oppure nella gestione delle principali infrastrutture. Questo approccio potrebbe non facilitare il superamento di talune tra le criticità strutturali più acute del sistema economico e produttivo nazionale, come ad esempio i bassi investimenti, la bassa produttività e lo scarso valore aggiunto in settori altamente dipendenti dalla ricerca tecnologica. Non sorprende, dunque, che in anni recenti i poteri dei Servizi di Sicurezza e dell’Esercito abbiano subito una notevole espansione, come testimoniato sia dalle prerogative dello stato di emergenza, ora concluso ma con le sue norme essenziali in parte assorbite dalle leggi ordinarie dello Stato, sia dall’emendamento alla legge anti-terrorismo recentemente approvato.
Ad ogni modo, queste pratiche di repressione del dissenso e di marginalizzazione della società civile vanno inquadrate all’interno di due più ampie necessità. In primo luogo, molti regimi autoritari, si pensi ad esempio al caso della Siria prima della guerra civile, fanno affidamento su alcune pratiche apparentemente democratiche, come processi elettorali poco trasparenti o l’abuso di decreti-legge (o altri strumenti dell’esecutivo), per assicurarsi una solida legittimità interna. Questa situazione è in parte permessa dalla Costituzione egiziana che, da un lato, sottolinea come l’assetto istituzionale dell’Egitto sia caratterizzato dal “rispetto per i diritti umani, dalla separazione dei poteri e dalla molteplicità di partiti” (art. 5) e, dall’altro, utilizza spesso locuzioni come “nei modi specificati dalla legge” o “in accordo con la legge”. In altre parole, i principi costituzionali del Paese, lungi dall’essere inderogabili, trovano applicazione con la legge ordinaria che, per sua stessa natura, è facilmente modificabile dall’autorità politica. Questa struttura apre de facto l’opportunità al governo di agire seguendo pratiche formalmente democratiche e, al tempo stesso, materialmente autoritarie se necessarie e dettate da una precisa condizione.
In secondo luogo, al-Sisi necessita di una forte legittimità a livello internazionale al fine di preservare il suo status di prestigio nel Paese e all’interno della regione. Non sorprende, dunque, che la fine della legislazione di emergenza sia stato dichiarato circa un mese dopo la decisione da parte del Dipartimento di Stato americano di non erogare 130 milioni di dollari in aiuti militari destinati all’Egitto. Questa scelta è stata giustificata in virtù del deterioramento del rispetto dei diritti umani registrato in anni recenti. L’approccio scelto dall’amministrazione Biden è stato, in ogni caso, molto cauto, come testimoniato dal fatto che gli aiuti militari che gli Stati Uniti erogano ogni anno all’Egitto ammontano complessivamente a circa 1,3 miliardi di dollari.
Come risposta, il Presidente egiziano ha dichiarato che il governo si sarebbe impegnato ad elaborare una nuova strategia per tutelare i diritti umani nel Paese. Questa intenzione è stata successivamente confermata in un discorso tenuto in TV a settembre in cui al-Sisi ha sostenuto che “il 2022 sarà l’anno della società civile”. È molto probabile, però, che ad allarmare l’establishment egiziano non siano state le minacce economiche, quanto piuttosto il timore che il Paese possa essere catalogato in futuro come un pariah state da Washington. Una scelta di questo tipo potrebbe infatti causare una forte delegittimazione dell’Egitto sul piano internazionale, come già successo negli scorsi decenni all’Iraq o, più recentemente, all’Iran.
In conclusione, sebbene sia difficile prevedere quale indirizzo prenderà il governo egiziano nei prossimi mesi, sembra difficile ipotizzare che le sistematiche violazioni dei diritti umani nel Paese possano terminare. L’emendamento alla legge anti-terrorismo può essere quindi considerato come uno dei tanti strumenti utilizzati dal combinato autoritario civile-militare per mantenere ed esercitare il potere tramite alcuni presupposti apparentemente democratici. In questa prospettiva, un bilanciamento tra gli elementi sopra citati, quali la legittimità internazionale, la popolarità domestica e le pratiche repressive, si rivelerà necessaria al fine di garantire la sopravvivenza del regime egiziano.