China Standards 2035: la risposta tecnologica di Pechino alle nuove sfide globali
Nel corso dell’ultima settimana di ottobre, tra lunedì 26 e giovedì 29, si è tenuto a Pechino il 5° Plenum del XIX Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese. Al termine della riunione è stato delineato il 14° Piano quinquennale, che detterà le linee guida della politica cinese da qui al 2025 in materia di sicurezza interna, affari esteri e sviluppo economico. Una delle grandi tematiche su cui il Piano si è focalizzato, oltre alla dual circulation strategy (DCS) e alla transizione green, è stata l’innovazione tecnologica. La Cina è ora pronta a lanciare il programma China Standards 2035 (in corso di elaborazione sin dal 2018), tramite il quale cercherà di fissare gli standard internazionali dell’industria hi-tech del futuro. Il progetto, noto anche come Vision 2035, costituisce il proseguimento naturale del piano Made in China 2025, che oltre a incentivare la manifattura di bassa qualità per soddisfare la domanda internazionale di beni a basso costo, gettava già le basi per un incremento della produzione di tecnologia direttamente in Cina. Vision 2035 mirerebbe dunque a portare a termine un processo evolutivo avviato negli anni Ottanta, che prevedeva il passaggio da un paradigma di quantità a uno di qualità e innovazione come motore dell’economia cinese, e completerebbe la trasformazione del Paese da “fabbrica del mondo” a leader nei servizi e nelle tecnologie di avanguardia.
Tale intenzione del Partito Comunista Cinese è stata ribadita una volta per tutte da Xi Jinping durante il discorso tenuto lo scorso 14 ottobre in occasione del 40° anniversario della Zona Economica Speciale di Shenzhen. Per la Cina, dietro la volontà di essere la prima promotrice degli standard globali delle tecnologie di prossima generazione, risiede una duplice necessità: quella di rendersi autosufficiente economicamente, e quella di espandere il proprio soft power nell’arena internazionale.
Complice il prorompente sviluppo dell’industria export-oriented negli ultimi due decenni del secolo scorso, la Cina si è resa dipendente, da un lato, dalla domanda estera di prodotti manufatturieri a basso costo, e dall’altro dall’importazione beni più raffinati (collocati più in alto nella catena del valore). Tra questi, chiaramente, i prodotti hi-tech, intermedi (semiconduttori) così come finiti (per applicare il processo di reverse engineering). Il gigante asiatico ancora oggi importa il 90% dei chip dall’estero, di cui una buona fetta dagli Stati Uniti. Tale dipendenza non solo limita la possibilità di accreditarsi come pretendente del primato tecnologico mondiale, ma espone la stabilità di un settore così strategico come la produzione di tecnologia alle scelte e all’influenza dei fornitori esterni… Di qui l’esigenza di provare a disaccopiare l’economia cinese, quanto meno nel settore hi-tech, da quella di attori esterni, in primis statunitensi, per privarli di una possibile leva politico-economica nel futuro prossimo. In tale prospettiva, il programma China Standards 2035 mostrerebbe dunque una prima dimensione “interna” volta a ridurre la vulnerabilità alle dinamiche di mercato esterne al Paese, che si sposa in maniera coerente con il piano semi-autarchico delineato nella DCS di ricentrare il focus sul mercato interno come forma di sostentamento dell’economia nazionale.
D’altro canto, China Standards 2035 si riserva anche una dimensione prettamente “esterna” di espansione dell’influenza tecnologica cinese nel mondo. Stabilire gli standard globali delle tecnologie di prossima generazione sarebbe di fondamentale importanza per Pechino in un’ottica di proiezione del proprio soft power e di conquista di nuovo spazio politico sullo scenario internazionale, soprattutto a scapito degli Stati Uniti. Gli investimenti globali di svariate compagnie cinesi di telecomunicazioni – pubbliche e private, come China Telecom, China Mobile, Huawei, e ZTE – nell’ambito delle infrastrutture digitali (5G e collegamenti a fibra ottica su tutti) hanno permesso alla Cina, negli ultimi anni, di diventare un nuovo punto di riferimento in materia di nuove tecnologie all’estero.
Soprattutto, l’approccio multilaterale spesso adottato da Pechino in politica estera potrebbe portare il Paese a farsi promotore di una cooperazione tecnico-scientifica con diversi attori statali esteri. In un ipotetico sviluppo condiviso nel ramo dell’hi-tech, la Cina detentrice del know-how riuscirebbe comunque a conservare un vantaggio strategico e una leva politica nei confronti dei propri partner. In questo modo, la Cina riuscirebbe a internazionalizzare i propri standard domestici, creandosi una propria sfera di influenza tecnologica all’interno della quale sarebbe in grado di vincolare altri Stati ad adottare tecnologie cinesi negli anni a venire.
Questo processo potrebbe portare, per la prima volta, ad una progressiva politicizzazione delle norme tecniche, fino ad ora formulate in modo condiviso da diversi attori, che si trasformerebbero da criteri condivisi che facilitano l’interoperabilità dei dispositivi elettronici a livello globale, a possibili strumenti di politica di potenza nelle mani di un determinato Paese. Finora infatti, la garanzia del funzionamento di smartphones e computer in tutti gli Stati del mondo, il fatto che questi siano dotati degli stessi sistemi di Bluetooth e della stessa capacità di connettersi alle reti Wi-Fi, o l’universalità dei sistemi USB, sono stati frutto di accordi tra aziende o di partnership tra pubblico e privato (PPP). Tramite l’inedito modello di promozione statale degli standard delineato nel programma Vision 2035 invece, idealmente sarebbe il Partito Comunista Cinese (PCC) a determinare e diffondere le future “regole del gioco” nel settore hi-tech in Cina e all’estero.
In realtà, è già da almeno un decennio che Pechino si sta preparando a questo. A livello istituzionale, dal 2011 al 2018 il Paese è riuscito a incrementare dal 5 a oltre l’8% la porzione dei Comitati tecnici cinesi all’interno dell’Organizzazione internazionale per la normazione (ISO), e dal 2 a quasi il 7% quella dei Gruppi di lavoro nella stessa. A livello industriale invece, i massicci investimenti R&D hanno permesso alla Cina già nel 2010 di ottenere il primato nel numero di domande di brevetto presentate all’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale (WIPO). Tale primato si è andato consolidandosi nel corso degli ultimi anni, visto che nel 2018 le domande cinesi di brevetto superavano ampiamente il milione, a fronte delle 280mila statunitensi.
Lo strumento geostrategico primario di cui Pechino potrebbe servirsi per esportare le proprie norme tecniche, o quantomeno per avviare un dialogo con i partner internazionali, potrebbe essere la Belt and Road Initiative (BRI), che essendo già stata utilizzata come veicolo di diffusione degli standard industriali cinesi ad alcuni Paesi eurasiatici, potrebbe assolvere la stessa funzione anche nell’ambito hi-tech. Alcuni dei Paesi BRI in Asia e Africa, più fragili e bisognosi di assistenza, sarebbero dunque i primi a essere coinvolti. Ad esempio, considerando che circa il 70% delle infrastrutture per il 4G continente africano sono state realizzate da Huawei, è difficile presupporre che i governi locali sceglierebbero un provider diverso per la transizione al 5G, anche alla luce dei costi molto più elevati di Nokia ed Ericsson. D’altro canto, in Pakistan, Paese BRI per eccellenza, dopo il CPEC sarà reso operativo il progetto PEACE, che porterà un collegamento internet ad alta velocità lungo il corridoio Asia-Africa Orientale.
Ad ogni modo, l’ambizioso piano di espansione dell’influenza tecnologica cinese non è rivolto solamente al vicinato di Pechino, ma va naturalmente inserito nel più ampio quadro della contesa sino-americana. In questo senso, l**’estensione degli standard delle tecnologie di prossima generazione ai Paesi BRI sarebbe da vedere come una “palestra” in preparazione alla ben più ardua sfida europea.** In questo, il dibattitto sulla sperimentazione e l’assegnazione ad aziende cinesi di progetti per la costruzione della rete 5G in Europa è stato un caso emblematico. Finora, gli Stati Uniti sono sempre stati leader nello sviluppo di tecnologie innovative, mentre le aziende della Silicon Valley promuovevano standard tecnici universalmente riconosciuti e adottati, in Oriente così come in Occidente. La questione del 5G ha rappresentato il primo caso in cui tale tendenza è stata sovvertita e in cui Washington si è trovata per la prima volta nella condizione di rischiare di “subire” la creazione di standard tecnologici creati da terzi e di perdere così un importante spazio di cooeprazione internazionale.
La competizione tecnologica è così parte integrante della più ampia competizione politica tra Washington e Pechino, che sembra sempre più destinata ad approfondirsi in futuro. In un momento in cui l’innovazione tecnologica sta diventano un nuovo paradigma della definizione dei rapporti internazionali, la “lotta per la supremazia” globale potrebbe passare primariamente per la capacità di sviluppare e di promuovere nuove tecnologie in Paesi terzi, per dettare il passo e le regole del gioco della crescita nel prossimo futuro.