ATLAS: Libano, Sudan, Tunisia
Libano: Hezbollah e Israele si scontrano al confine
Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, il 27 luglio un gruppo tra i tre e i cinque militanti di Hezbollah avrebbe tentato di infiltrarsi nelle aree delle Shebaa Farms, nell’estremo sud-est del Libano, controllate da Israele. Presumibilmente, l’operazione sarebbe la rappresaglia per la morte di Ali Kamel Muhsin, un membro del Partito di Dio ucciso da un raid israeliano in Siria pochi giorni prima. Israele ha risposto sferrando colpi di artiglieria nel sud del Libano. Hezbollah, tuttavia, nega che l’incursione sia avvenuta, dichiarando che gli attacchi sarebbero stati condotti da un’unica parte, quella israeliana, e che la risposta del Partito alla morte di Muhsin in Siria avverrà nel futuro prossimo.
La minaccia di ritorsioni per la morte di un elemento di Hezbollah in Siria indica un vero e proprio cambiamento delle regole del gioco. Infatti, finora le risposte della milizia sciita si limitavano alle azioni israeliane indirizzate contro il territorio libanese. Ora, invece, il partito di Nasrallah sembra voler allargare la sua postura di deterrenza nei confronti di Israele anche sul fronte siriano.
In questo contesto, se anche l’incursione fosse avvenuta, Hezbollah difficilmente avrebbe potuto dichiarare la propria responsabilità, o descriverla come una risposta adeguata all’uccisione di Muhsin, dato il rapido fallimento dell’operazione stessa.
A ben vedere, dunque, l’obiettivo di Hezbollah potrebbe essere duplice. Innanzitutto, dimostrare di non aver perso forza nonostante le disastrose condizioni economiche e sociali in cui versa il Libano tra crisi sanitaria e default finanziario. Poi, cercare di tutelare le proprie attività sul territorio siriano alzando il costo dell’azione di contenimento israeliana, che negli ultimi mesi si è fatta più serrata con un’intensificazione degli strike oltreconfine.
Sudan: nuova ondata di violenze nel Darfur
Nelle ultime settimane la turbolenta regione occidentale del Darfur è stata scossa da una improvvisa ondata di violenza su base etnica. Nello specifico, il 25 luglio, un gruppo di 500 miliziani della tribù Baggara ha attaccato il villaggio a maggioranza Malasit di Masteri (al confine con il Ciad), uccidendo oltre 60 persone. Per evitare la degenerazione della situazione, il governo di Khartoum ha inviato elementi dell’esercito a presidiare il territorio ed i villaggi a rischio. Il conflitto tra le due tribù ha origini secolari e si inserisce nel solco della tradizionale competizione per le risorse del suolo tra gli agricoltori (i Meselit) e gli allevatori semi-nomadi di cammelli (i Baggara). A rendere tale competizione e, di conseguenza, tale conflitto ancora più serrato è l’impatto del cambiamento climatico che, riducendo la disponibilità di acqua e suolo fertile, costringe le due tribù ad inasprire la lotta per il loro utilizzo.
Gli scontri tra i Meselit ed i Baggara assumono un significato ancora più drammatico in virtù della loro collocazione all’interno della più ampia dinamica della guerra del Darfur che, dal 2003, vede opposte le tribù non arabe (Fur, Meselit e Zamghara) alle tribù arabe (Baggara e Abbala). Mentre le prime chiedono l’indipendenza dal governo centrale, le seconde sono fedeli a Khartoum e, spesso, perpetrano violenze attraverso le milizie Jajaweed (“diavoli a cavallo”).
La recente ondata di attacchi ha inasprito il malcontento popolare in Darfur, rendendo ancor più complicata la gestione della transizione democratica sudanese avviata con la deposizione del Presidente Omar al-Bashir nel 2019. Con il termine della lunga stagione di potere dell’ex Capo dello Stato, i ribelli del Darfur avevano sperato nella creazione di un nuovo forum negoziale con il nuovo esecutivo, salvo poi veder tradite le proprie aspettative. Infatti, nonostante le aperture di facciata, Khartoum non ha modificato le proprie posizioni sulle rivendicazioni secessioniste del Darfur, ribadendo fermamente l’inviolabilità dell’integrità territoriale sudanese. Infatti, per il Paese, la regione irredenta ha un valore strategico troppo alto in termini di risorse petrolifere e minerarie tale da renderla indispensabile per l’economia nazionale.
Qualora gli elementi di criticità evidenziati in precedenza dovessero peggiorare, il rischio maggiore sarebbe un nuovo inasprimento del conflitto tra ribelli e governo centrale, con costi umani ed economici significativi per il Paese.
Tunisia: Hichem Mechichi nominato Premier
Dopo circa un mese di stallo politico, culminato con le dimissioni del Premier Elyes Fakhfakh lo scorso 15 luglio, il Presidente della Repubblica Kais Saied ha nominato il nuovo Primo Ministro il 25 luglio scorso. La scelta è ricaduta sul Ministro dell’Interno, Hichem Mechichi, ora responsabile della formazione del nuovo governo che dovrà ottenere la fiducia del Parlamento.
A catturare l’attenzione sono i tempi accelerati e le modalità della nomina seguite da Saied. Sebbene conforme ai termini costituzionali, la gestione di questa fase presenta divergenze sostanziali rispetto alla precedente, avvenuta all’indomani delle elezioni politiche del 2019. Infatti, il nome di Mechichi non è stato il prodotto di un rituale round di consultazioni politiche, bensì di una nomina diretta da parte di Saied.
A tal proposito, è importante sottolineare che, se le consultazioni fossero avvenute come da consuetudine, i due principali partiti rappresentati in Parlamento, Ennahda e Qalb Tounes, avrebbero potuto imporre un loro candidato congiunto, già individuato nei giorni precedenti. Infatti, grazie anche all’appoggio di al-Karama e al-Mustakbal, avrebbero avuto i numeri per la fiducia (130 voti su 217). A questo nome Saied probabilmente non avrebbe potuto opporsi.
Dunque, indicando un suo fedelissimo come Mechichi, il Presidente ha scelto di esercitare appieno e sue prerogative di Capo dello Stato e di ricoprire un ruolo tutt’altro che cerimoniale. Evitando la riproposizione della “grande coalizione” su cui si era retto il Paese nella passata legislatura, Saied punta a conservare il suo potere di indirizzo nella politica nazionale e la possibilità di dettare (almeno parzialmente) l’agenda al governo, inaugurando un “presidenzialismo” inedito nella Seconda Repubblica tunisina.