Che cosa (non) farà la Cina a Hong Kong. Parla Iacovino (Cesi)
A partire dall’inizio del mese di giugno, dalla lontana Hong Kong sono rimbalzate in giro per il mondo e su tutti i canali social le suggestive immagini di un imponente movimento di protesta che ha sfidato frontalmente le istituzioni della città e il regime cinese che quelle istituzioni nomina e controlla.
Il pretesto che ha innescato l’ultimo confronto andato in scena nella ex colonia britannica tra istanze democratiche e ragion di Stato è stata una proposta di legge voluta da Pechino che, se approvata, avrebbe consentito l’estradizione nella madrepatria delle persone sospettate di crimini. Una provocazione bella e buona, secondo i manifestanti che, a centinaia di migliaia, si sono riversati nelle strade di Hong Kong chiedendo a gran voce il ritiro del provvedimento.
Provvedimento che, dopo settimane di alta tensione culminate con l’assalto al Legislative Council da parte di una pattuglia di manifestanti, la chief executive di Hong Kong, Carrie Lam, ha dichiarato “morto”. Una vittoria certamente simbolica per un movimento di protesta che incassa oggi quel che nei giorni del famoso movimento degli ombrelli del 2014 non fu possibile.
Il direttore del Cesi (Centro studi internazionali), Gabriele Iacovino, approfondisce in questa conversazione quel che è successo in queste settimane lungo l’asse Hong Kong-Pechino e spiega il vero motivo per cui la Cina, in questa circostanza, ha preferito non usare la forza contro i manifestanti.
Direttore, a Hong Kong la proposta di legge sull’estradizione voluta da Pechino proprio non l’hanno digerita.
Già, le proteste stanno infatti andando avanti da almeno sei mesi. E l’atteggiamento del governo di Hong Kong, e soprattutto del capo esecutivo Carrie Lam, ha fatto sì che le proteste crescessero in numero ed intensità, fino alle grandi manifestazioni di inizio giugno che, in termini di partecipazione, sono state molto simili a quelle del movimento degli ombrelli del 2014.
Proprio in quei giorni, Twitter è stato inondato dai video di quelle manifestazioni che mostravano un impressionante fiume umano scorrere nelle strade di Hong Kong.
Certamente. Anche se numeri ufficiali non ce ne sono, le immagini avevano un impatto visivo e mediatico senz’altro molto forte e, aggiungo, diverso rispetto alle manifestazioni del 2014. Il movimento di protesta si è infatti evoluto e ha modificato la propria strategia. Le manifestazioni del 2014 erano sostanzialmente statiche, con la gente che ha occupato le strade di Hong Kong, circondando gli edifici governativi e non permettendo il passaggio di nessuno. Adesso, invece, abbiamo visto manifestazioni che si sono snodate per tutta la città, con la gente che si spostava rapidamente per le strade. L’organizzazione è inoltre davvero minima: le manifestazioni sono partite senza un vero obiettivo e i manifestanti, coordinandosi soprattutto via Telegram o via altre piattaforme social, hanno scelto via via i luoghi in cui protestare. Tutto questo fino all’evento clou del 1 luglio.
Che è stato il giorno in cui alcuni manifestanti sono penetrati nel palazzo del Legislative Council, con un atto clamoroso le cui immagini hanno fatto il giro del mondo.
Proprio così. È stato un passaggio importante perché, come si dice in questi casi, le immagini contano. E quelle immagini hanno mostrato come una manifestazione pacifica di centinaia di migliaia di persone possa avere anche aspetti violenti. La sede del Parlamento è stata scelta, comunque, perché in quel momento la manifestazione passava lì vicino. Stiamo parlando dunque di qualcosa di poco pianificato che ha però alla base una simbologia molto forte, che riprende quella del 2014 e utilizza dei pretesti legislativi contingenti per avanzare una richiesta di maggiore apertura democratica.
A tal proposito, è opportuno ricordare che dal 1997 – anno in cui la Gran Bretagna cedette il controllo della sua ex colonia alla Cina – a Hong Kong vige un ordinamento che è noto con la formula “un paese, due sistemi”, un equilibrio che la legge sull’estradizione, secondo l’accusa dei manifestanti, avrebbe irreparabilmente compromesso.
Non è la legge sull’estradizione che compromette il sistema, ma quella del 1997, e mi spiego. Prima che le autorità britanniche lasciassero il territorio di Hong Kong alla Cina, si erano inseriti nel sistema legislativo di Hong Kong dei processi di democratizzazione, compresa la possibilità di eleggere una parte dei rappresentanti del parlamento. Con l’ingresso di Hong Kong all’interno del sistema cinese, questi elementi sono venuti meno. Questo non toglie che, per la Cina, Hong Kong è sempre stato e continua ad essere un laboratorio politico ed istituzionale in cui sperimentare sistemi più democratici rispetto alla madrepatria. La Cina tuttavia, come sappiamo, non può permettersi una apertura democratica completa, che sarebbe insostenibile per il sistema nazionale cinese. Ed è proprio questo il presupposto delle manifestazioni che si ripetono periodicamente ad Hong Kong. Manifestazioni che esplodono quando si presenta un trigger, come è stato per l’appunto la legge sull’estradizione.
Legge che la chief executive Carrie Lam la settimana scorsa ha dichiarato morta. La possiamo considerare una bruciante sconfitta per Pechino, una ritirata tattica, o cos’altro?
La scelta di Pechino, che è stata poi quella di Carrie Lam, è stata di non andare allo scontro coi manifestanti. Una scelta dettata dal fatto che l’attenzione della Cina in questo momento è su altri scenari, in particolare sulla guerra commerciale con gli Usa, a cui non si è voluto dare un pretesto – e l’uso della forza contro i manifestanti lo sarebbe senz’altro stato – per essere attaccata sul suo tallone d’Achille che è la non democraticità del proprio modello. Un modello che viene sfidato periodicamente da un movimento autoctono, quello di Hong Kong, che esprime richieste di maggiore democraticità. Stiamo parlando comunque di una città la cui ricchezza risiede nella stabilità. E i cui abitanti non vogliono rischiare di perdere tale ricchezza per una protesta che potrebbe causare una risposta muscolare di Pechino. Per questo Carrie Lam, nonostante le richieste di dimissioni dei manifestanti, rimarrà probabilmente al proprio posto e porterà avanti politiche volte a allargare al maggior numero di persone la ricchezza di Hong Kong.
A questo punto pare di capire che Hong Kong, che la Cina tanto ha desiderato riavere, è una sorta di spina nel fianco per un regime che è sotto i riflettori e non può agire come probabilmente vorrebbe.
Essendo stata Hong Kong sin dal 1997 il laboratorio politico ed istituzionale cinese, inevitabilmente Pechino deve pagarne un prezzo. E questo prezzo è l’esistenza di una voce fuori dal coro. Una voce che alla Cina non conviene zittire, perché a quel punto non avrebbe più quel laboratorio capace di individuare strumenti che possono essere utili anche per lo sviluppo istituzionale della madrepatria.