L'ombra dei Balcani nell'attentato di Vienna
Il 2 novembre scorso, la capitale austriaca Vienna è stata colpita da un attentato terroristico di matrice jihadista, il primo nella storia del Paese. Attorno alle ore 20, un uomo armato di un fucile d’assalto AK-47 e di un machete e che indossava una finta cintura esplosiva ha aperto il fuoco presso la sinagoga dello Statdtempel, sulla Seitenstettengasse, in pieno centro cittadino. L’attentatore si è poi spostato nelle immediate vicinanze del sito sacro ed ha continuato a sparare, finché è stato raggiunto dalle unità speciali contro-terrorismo ed ucciso. L’attacco di Vienna è il primo attentato effettuato in territorio europeo ufficialmente rivendicato dallo Stato Islamico (IS o Daesh) dopo la morte del suo fondatore Abu Bakr al-Baghdadi (2019), come testimoniato dalla comunicazione ufficiale attraverso la propria agenzia di comunicazione, l’Amaq News Agency.
Nel complesso, quanto accaduto in Austria rappresenta il quarto episodio di violenza estremista di ispirazione jihadista avvenuto in Europa in poco più di un mese, dopo i tre attacchi occorsi i Francia contro la vecchia sede del giornale satirico Charlie Hebdo (25 settembre), la decapitazione del professor Samuel Paty a Conflans-Sainte-Honorine (16 ottobre) e l’assalto alla cattedrale Notre Dame a Nizza (29 ottobre). Nell’incertezza del quadro informativo attuale, appare complesso stabilire se tutti questi drammatici avvenimenti siano collegati tra loro e se rappresentano una forma di mobilitazione estremista, spontanea o eterodiretta, seguita alla crisi tra Francia e Turchia in merito all’uccisione del professor Paty, che era stato assassinato per aver mostrato durante una sua lezione una vignetta satirica sul Profeta Maometto.
Indipendentemente da quest’ultima ipotesi, l’attacco di Vienna sottolinea la perdurante minaccia dell’estremismo jihadista sul territorio europeo, conferma le ultime tendenze evolutive in materia terroristica e, infine, riaccende l’attenzione continentale sulla diffusione dell’ideologia jihadista nei Balcani occidentali e tra la diaspora balcanica in Europa occidentale. Infatti, l’autore dell’attentato viennese era Kujtim Fejzulai (nom de guerre Abu Dujana al-Albani), radicalizzato già noto alle autorità austriache. Ventenne, nato nella cittadina di Mödling, a sud di Vienna, Fejzulai apparteneva ad una famiglia albanese originaria della Macedonia del Nord ed aveva doppio passaporto austriaco-macedone. Egli era stato già arrestato nel marzo 2019 in Turchia nel tentativo di oltrepassare il confine ed unirsi alle milizie dello Stato Islamico. Una volta rimpatriato, Fejzulai era stato inizialmente condannato a 22 mesi di prigione, ma rilasciato dopo 8 mesi ed inserito in un programma di de-radicalizzazione. Appare ancora oscuro il processo che ha condotto l’attentatore a radicalizzarsi, online o attraverso il contatto diretto con un individuo, e se la radicalizzazione è avvenuta tramite i network in Austria o in Macedonia. In ogni caso, il terrorista ha agito da solo, a conferma della sedimentazione dell’utilizzo da parte di Daesh, dei cosiddetti lupi solitari per perpetrare simili attività. Inoltre, l’utilizzo di un’arma automatica, di un’arma bianca e di una finta cintura esplosiva testimoniano come l’attacco sia stato adeguatamente pianificato e come, probabilmente, l’attentatore abbia usufruito di forme di supporto o mentoring da personale esperto.
Fejzulai è soltanto uno dei tati cittadini austriaci che hanno cercato di andare a combattere in Siria ed Iraq. Nel 2018, il Country Report on Terrorism del Dipartimento di Stato statunitense ha reso noto che, secondo il servizio di intelligence austriaco (il Bundesamt für Verfassungsschutz und Terrorismusbekämpfung, BVT), circa 331 radicalizzati austriaci, dal 2014 al 2018, si sono recati in Siria e in Iraq, con un’età media inferiore ai 25 anni. Un numero elevato se si considera il fatto che la popolazione totale austriaca ammonta a 8,9 milioni di persone. Secondo le stime governative, di tutti i combattenti stranieri, 94 avrebbero fatto ritorno in patria.
Questo testimonia come, nonostante l’attacco di Vienna sia il primo attentato avvenuto in territorio austriaco, il livello della minaccia jihadista non è mai stato trascurabile. Nel contesto nazionale, l’esistenza di un rischio di attività terroristica interna dovuta alla presenza di individui radicalizzati afferenti alle principali comunità diasporiche del Paese era stata segnalata da una serie di operazioni effettuate dalle forze di sicurezza. Nel 2019 è stato impedito, dalle unità antiterrorismo, un attentato che avrebbe dovuto colpire il centro di Vienna nel periodo compreso tra Natale e Capodanno. In quel frangente, furono arrestati tre uomini di origine cecena, radicalizzati dallo Stato Islamico e coinvolti nella pianificazione dell’attentato. Due anni prima, nel 2017, le forze di sicurezza riuscirono a sventare il piano di un ragazzo di 17 anni reo di pianificare un attacco alla rete della metropolitana viennese. Nel 2014 venne portata a compimento la più grande operazione di contrasto al terrorismo sul suolo austriaco, la cosiddetta “Operazione Palmira”. In quel frangente, furono arrestati 29 radicalizzati, tra cui alcuni predicatori di origine serba, a Vienna, Graz e Linz, con l’accusa di costituire il nucleo di una rete terroristica attiva nel reclutamento di giovani musulmani (circa 150), destinati a ingrossare le fila di Daesh in Siria. Il principale target di quell’operazione fu un predicatore serbo attivo anche in Svizzera e in Germania, Mirsad Omerovic (noto con il nome di battaglia di Ebu Tejma), famoso per i sermoni in tedesco anziché in serbo-croato. Negli ultimi anni, nella capitale viennese, predicatori estremisti di origine bosniaca come Nedžad Balkan (conosciuto anche come Ebu Muhammad) e il suo gruppo Kelimentul-Haqq hanno svolto un ruolo decisivo sia nella diffusione del messaggio jihadista in Austria sia nella radicalizzazione, di giovani musulmani austriaci di origine prevalentemente slava. Altro elemento di spicco del panorama radicale austriaco di origine balcanica è Muhamed Fadil Porca, imam del centro islamico Tewhid di Vienna.
La presenza in Austria di predicatori e seguaci salafiti di origine bosniaca non è un caso, visto che Vienna negli anni ’90 ha rappresentato un importante centro logistico e finanziario per alcune agenzie umanitarie ultra-conservatrici che raccoglievano fondi utilizzati per supportare le milizie musulmane durante la guerra in Bosnia e nel Kosovo, per organizzare il trasferimento di combattenti stranieri, prevalentemente arabi e nord-africani, in Bosnia ed infine per diffondere la visione salafita e wahabita dell’Islam nei Balcani occidentali. Nello specifico, le guerre civili jugoslave e, in particolare, il conflitto in Bosnia e quello in Kosovo, avevano attirato circa 2.000 combattenti stranieri che erano giunti sul suolo balcanico per difendere la popolazione musulmana dall’offensiva serbo-croata e “cristiana”. Questi, chiamati Bosanski mudžahedini, erano prevalentemente di origine saudita, algerina, afghana e caucasica, in buona parte con un passato da guerriglieri in Afghanistan.
Con il passare del tempo, il salafismo e il radicalismo islamista sono diventati strumenti per la cooptazione della rabbia popolare, soprattutto nelle aree rurali più vulnerabili e poco sviluppate di Bosnia, Kosovo, Macedonia del Nord , Montenegro e Albania. In Bosnia, oggi, la presenza salafita è particolarmente concentrata nei villaggi di Bihac (al confine settentrionale con la Croazia), Teslic, Zepce, Zenicae (nella zona centrale del Paese), Gornja Maoca e alla periferia della città nord-orientale di Tuzla. Le comunità salafite in questione rifiutano di collaborare e riconoscersi nella principale organizzazione islamica bosniaca, la Islamiska Zaidenica, e vivono secondo una interpretazione ultra-conservatrice e draconiana della Sharia. Al contrario, in Kosovo non esiste una particolarizzazione geografica della presenza salafita ed essa è abbastanza diffusa su tutto il territorio nazionale, da Pristina a Mitrovica, con sacche di concentrazione al confine con l’Albania. In Albania, le comunità più radicali sono stanziate nella parte orientale del Paese, mentre in Macedonia e Montenegro non hanno una concentrazione geografica precisa. Infine, in Serbia, comunità estremiste sono state rilevate nell’area del Sangiaccato di Novi Pazar.
Dal 2012 al 2016, circa 1.070 cittadini di Kosovo, Bosnia, Macedonia del Nord, Albania, Serbia e Montenegro si sono recati in Siria e Iraq, raggiungendo il picco nel 2013-2014 e andando progressivamente scemando negli anni successivi. Il 67% di questo “contingente” era formato da maschi adulti al momento della partenza, mentre il 15% erano donne e il 18% bambini. La maggior parte dei combattenti (256) era di origine kosovara, mentre dalla Bosnia sono partiti il maggior numero di donne (61) e bambini (81). Dopo il collasso militare di Daesh, circa 460 returnees sono rientrati nei rispettivi Paesi di origine, la maggior parte dei quali (110) in Kosovo. L’ultima presenza jihadista attiva in Siria era costituita da un’unità formata esclusivamente da combattenti albanesi, la cosiddetta brigata Xhemati Alban, impegnata in attività nella provincia di Idlib.
Dopo il 2016, le numerose operazioni antiterrorismo effettuate dalle autorità locali balcaniche hanno portato a centinaia di arresti e hanno rivelato la capillarità e l’estensione di un numero crescente di reti radicali. Almeno 20 attentati terroristici sono stati sventati negli ultimi tre anni in Kosovo, Albania, Macedonia del Nord, Bosnia e Serbia. Tra questi, i più rilevanti sono stati un piano per la conduzione di attacchi simultanei contro centri commerciali in Bosnia, Kosovo e Serbia nel 2016, un progetto di attentato contro la nazionale di calcio israeliana in Albania nel 2017 ed un tentativo di attaccare le forze NATO a Camp Film (Pristina) nel 2018. L’ultimo attacco sventato è stato segnalato in Macedonia del Nord il 15 febbraio 2019, dove la polizia ha arrestato 20 presunti sostenitori dello Stato Islamico. Inoltre, ad ulteriore testimonianza della recrudescenza del fenomeno jihadista, sopravvengono attività di propaganda persistenti sui social media, attuate soprattutto su Telegram. Ad esempio, soltanto nel 2019, le autorità di Tirana avevano identificato 27 canali che diffondevano materiale jihadista in lingua araba ed albanese con un totale di oltre 6.000 iscritti.
Una delle maggiori criticità che riguarda la crescita dell’estremismo jihadista nei Balcani occidentali è la sua doppia natura di minaccia regionale e continentale. Infatti, i network eversivi locali, oltre ad agire sul territorio balcanico, fungono da hub logistico e da rete di proselitismo e propaganda per la diaspora europea occidentale. Un simile ruolo è stato svolto anche nei confronti dell’Italia. Nello specifico, la maggior parte delle attività di proselitismo e predicazione jihadista svolte sul territorio nazionale ed online sono state prevalentemente appannaggio dei cosiddetti “imam itineranti” di origine bosniaca e albanese, protagonisti di frequenti visite presso alcuni centri di cultura islamica in Veneto, Trentino, Lombardia e Toscana. Al contrario, le reti jihadiste responsabili del reclutamento di miliziani e della logistica del trasferimento verso Siria e Iraq sono state di origine kosovara, albanese e montenegrina. Ad oggi, le indagini delle autorità giudiziarie italiane hanno evidenziato come le aree più a rischio sono state le regioni settentrionali e orientali italiane (Lombardia, Veneto, Friuli) e la Toscana, con una particolare rilevanza per la provincia di Grosseto.
Soltanto il proseguo delle indagini austriache potrà dire se e che in modo l’attentato di Vienna rappresenta il sintomo della vulnerabilità individuale di un soggetto a rischio oppure la manifestazione di una strategia sistematica da parte dello Stato Islamico. Inoltre, con il proseguo delle attività investigative, si capirà se l’attentatore di Vienna era soltanto un immigrato macedone di seconda generazione che ha deciso di intraprendere un percorso radicale in autonomia oppure un soggetto che è entrato a far parte del vasto network estremista balcanico presente in Austria e collegato ai Paesi di origine in Kosovo, Macedonia, Serbia, Bosnia ed Albania. Tuttavia, qualsiasi saranno le conclusioni delle autorità austriache, resta il fatto che le reti jihadiste autoctone balcaniche continuano a crescere in forza e numero e rappresentano, al momento, alcuni dei network eversivi più influenti e pericolosi nel continente.