Litio e terre rare al centro delle strategie globali
Nel contesto del mercato delle materie prime critiche (CRM), il prezzo del litio ha recentemente riportato un calo di oltre l’80%, passando dai circa 70mila dollari per tonnellata, di novembre 2022, ad una cifra attorno ai 10mila dollari, registrata nell’ottobre 2024. Tale fenomeno non è frutto di uno sviluppo spontaneo del mercato quanto, piuttosto, del risultato di una precisa strategia di sovrapproduzione attuata dalla Cina, maggior raffinatore di litio a livello mondiale con una quota che si stima essere superiore al 60%.
La mossa di Pechino ha, dunque, sconvolto in modo significativo i mercati, sollevando serie preoccupazioni tra gli alti funzionari americani ed europei. Non è un caso che il Sottosegretario statunitense per la crescita economica, l’energia e l’ambiente José Fernández abbia recentemente affrontato il tema, evidenziando come la Cina abbia adottato prezzi definiti predatori per indebolire la concorrenza, spingendo numerose aziende fuori dal mercato. Nello specifico, grazie alla propria posizione dominante nel settore della raffinazione, la Repubblica Popolare è in grado di sfruttare economie di scala per ridurre sensibilmente i costi di produzione, esercitando in maniera relativamente diretta un certo grado di controllo sui prezzi. In tal senso, nell’ultimo periodo la strategia cinese è stata quella di inondare il mercato di litio raffinato a prezzi bassi, riducendo di conseguenza la competitività di altri produttori, come l’Australia e il Sud America. Difatti, a causa della mancanza delle infrastrutture necessarie, i concorrenti non sono stati in grado di tenere un simile passo, provocando ripercussioni su tutti i vari settori della filiera (dalle attività minerarie alla produzione di batterie), e limitando enormemente le capacità americane ed europee di diversificare le catene di fornitura del metallo.
Una simile strategia era stata già adottata anche nel mercato del nichel, al giorno d’oggi dominato quasi interamente dalla coppia Indonesia-Cina, rispettivamente maggiore produttore e maggior consumatore a livello globale. A tal proposito, i due Paesi hanno creato in brevissimo tempo un oligopolio-monopsonio anticoncorrenziale, colpendo duramente coloro i quali avevano fatto dell’esportazione di nichel il proprio punto di forza, Nuova Caledonia su tutti. A seguito dell’incremento nella produzione di turbine eoliche, pannelli solari e batterie, Pechino aveva infatti visto crescere in maniera esponenziale il proprio fabbisogno di nichel, metallo che produce in quantità limitate. È per tali motivazioni che ha stretto accordi commerciali con l’Indonesia, finanziando massicciamente lo sviluppo di nuove miniere nell’arcipelago (come il parco industriale di Morowali) e aiutando Giacarta a decuplicare la propria produzione nell’arco di pochi anni. Così come per il litio, la sovrapproduzione indonesiana di nichel ne ha fatto scendere vertiginosamente i prezzi, passato dai quasi 50mila dollari per tonnellata di marzo 2022 ai 17mila di ottobre 2024. In questo modo, la Cina si è assicurata una posizione ancora più determinante nel campo delle batterie dei veicoli elettrici, all’interno di un mercato che si prevede sarà cruciale nel prossimo futuro. A tal proposito, l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) ha stimato che sarà proprio il processo di transizione green a trainare il crescente uso di minerali critici nel corso dei prossimi decenni, tanto che circa il 50% del valore delle commodities legate al mondo dell’energia sarà rappresentato da CRM.
Dal momento che le dinamiche nel settore delle risorse minerarie si prestano ad essere influenzate, è lecito attendersi che la Cina possa adottare simili approcci anche nel campo delle terre rare, materiali cruciali per lo sviluppo di tecnologia moderna, tra cui l’eolico e l’high tech, e di cui l’Europa ha una forte dipendenza da Pechino. In particolare, la Cina controlla circa il 90% della capacità di raffinazione a livello globale per la maggior parte dei materiali legati al settore, e potrebbe continuare a sussidiare la propria industria per mantenere bassi i costi di raffinazione, rendendo economicamente svantaggiosa la lavorazione delle terre rare in altri Paesi. Questo approccio rafforzerebbe la dipendenza mondiale dalle capacità tecnologiche cinesi, permettendo a Pechino di ottenere maggiori leve. Tuttavia, la Cina potrebbe anche decidere di limitare l’export di terre rare, come già fatto con il gallio, il germanio e l’antimonio, per aumentare i prezzi nel breve termine. Una strategia più aggressiva di questo tipo, tuttavia, potrebbe spingere i Paesi industrializzati a diversificare le loro fonti, riducendo la dipendenza dalla Cina e minacciando il suo vantaggio competitivo nel lungo periodo.
Nonostante quanto detto, il quasi-monopolio cinese delle terre rare riguarda solo le fasi successive all’estrazione. Dunque, se è vero che questo garantisce alla Repubblica Popolare una forte presa sulle catene del valore globali, d’altra parte la rende in larga misura dipendente dalle importazioni di materie prime grezze dall’estero, in particolare dall’Australia e dagli Stati Uniti (da cui ha importato circa 66mila tonnellate solo nel 2023). Va inoltre sottolineato che un dominio troppo marcato da parte della Repubblica Popolare potrebbe rappresentare una minaccia alla sicurezza economica e tecnologica dei Paesi occidentali, tanto da indurli a reazioni economiche più o meno dure nei confronti di Pechino. Come accade in parte già oggi, non è da escludere che Washington e Bruxelles impongano ulteriori dazi e sanzioni sui prodotti cinesi, limitando al contempo gli investimenti di Pechino verso le proprie industrie tecnologiche, energetiche e minerarie. La criticità principale, tuttavia, risiede nel fatto che tali Paesi non si trovano nella posizione di potersi isolare dal mercato cinese, non solo nel campo delle terre rare. D’altro canto, anche la stessa Cina non sembra avere interesse ad una guerra commerciale, dal momento che le sue esportazioni dipendono da un flusso stabile di forniture e, possibilmente, privo di ostacoli.
In un simile quadro, la Repubblica Popolare si trova in una delicata situazione di ricerca di equilibrio. Mentre da un lato ha l’opportunità di utilizzare questa leva strategica per consolidare il proprio ruolo di potenza globale, dall’altro deve far fronte ai rischi connessi a un’eventuale reazione delle economie occidentali, le cui ripercussioni potrebbero compromettere la stabilità del commercio globale e la crescita economica cinese. È pertanto plausibile che Pechino continui a seguire una strategia non conflittuale, volta a consolidare il controllo sul settore senza innescare scontri economici frontali. In questo scenario, la capacità dell’Occidente di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento e di sviluppare alternative tecnologiche rimane un tema cruciale per ridurre la dipendenza dalle terre rare cinesi e garantirsi una maggiore sicurezza economica a lungo termine. Dal momento che i processi di derisking e decoupling hanno bisogno di un orizzonte temporale di ampio respiro, attualmente entrambe le parti hanno la necessità di bilanciare interdipendenza e competizione, non potendo recidere gli innumerevoli legami che li vincolano l’un l’altro.