Le ripercussioni della guerra in Sudan per l’Egitto
Middle East & North Africa

Le ripercussioni della guerra in Sudan per l’Egitto

By Isabella Chiara
06.13.2023

Lo scoppio del conflitto tra l’esercito sudanese e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (RFS) minaccia di essere, per l’Egitto, gravido di conseguenze. Il Paese, già da mesi alle prese con varie difficoltà interne, si trova in equilibrio precario e guarda con preoccupazione ai disordini che dallo scorso aprile interessano il suo vicino meridionale. L’ombra delle ripercussioni si sta lentamente allungando su quelli che sono, per l’Egitto, importanti punti nevralgici: il conflitto sudanese interesserà, infatti, non solo l’ambito economico, ma anche quello strategico, politico e sociale del Paese nordafricano.

Dal punto di vista economico, la situazione di partenza non è certo rosea. Dal 2022, l’Egitto è prostrato sotto il peso di una feroce inflazione, che a maggio 2023 si è attestata al 32,7%. La bilancia dello Stato – allarmata da un crescente aumento dei prezzi e da una notevole carenza di valuta estera – ora rischia di essere esasperata dalle conseguenze del conflitto sudanese, che potrebbero articolarsi, nell’ambito economico, su tre direttrici: calo delle esportazioni, interruzione di alcuni progetti economici congiunti e blocco degli investimenti.

In merito alle esportazioni – stimate, nel 2022, a 929,2 milioni di dollari –, il Capo del Consiglio d’Affari egiziano-sudanese, Sherif el-Gabali, ha dichiarato che esse subiranno sicuramente una contrazione: se da un lato è probabile che molte aziende egiziane sceglieranno di interrompere le loro esportazioni verso il Sudan per il timore di non riuscire a riscuotere il denaro, dall’altro è innegabile che lo scoppio della violenza nel Paese possa impedire agli importatori sudanesi di recarsi al confine, contanti alla mano, per pagare le merci egiziane esportate.

Il conflitto impatterà negativamente anche su alcuni progetti economici che l’Egitto ha sviluppato di concerto con il Sudan: tra questi, la costruzione di una linea ferroviaria di 570 km – avente lo scopo di facilitare la circolazione delle merci tra i due Paesi – e il potenziamento di una linea di interconnessione elettrica che, se attuato, avrebbe confermato il ruolo dell’Egitto come potenza energetica regionale.

Infine, altre ripercussioni economiche riguarderanno gli investimenti avviati in Sudan, dove sono in corso d’opera ben 229 progetti egiziani: secondo le stime del Servizio di Informazione di Stato (SIS), questi progetti si basano su investimenti pari a circa 10,8 miliardi di dollari, che rischiano di essere congelati – o, peggio ancora, dissipati – fino al termine del conflitto. Al contempo, nel mercato interno egiziano sono presenti ben 315 aziende sudanesi, finanziate da investimenti pari a circa 97 milioni di dollari, anch’essi a rischio a causa del conflitto. Ma, in materia di investimenti, l’Egitto potrebbe subire un ulteriore contraccolpo: secondo Medhat Nafie, esperto economico e Consigliere del Ministro dell’Alimentazione egiziano, lo scoppio del conflitto sudanese potrebbe compromettere il ruolo del Paese come porta d’accesso agli investimenti nell’Africa subsahariana. L’orizzonte economico egiziano appare dunque già gravato da tristi presagi, recentemente confermati dall’agenzia di rating del credito Fitch, che a maggio ha declassato l’Egitto da B+ a B, assegnando al Paese un outlook negativo a causa delle sue difficoltà economiche.

Il secondo grande ambito suscettibile di ripercussioni derivanti dal conflitto sudanese è, invece, quello politico-strategico. Se una prima questione, in tal senso, pare essere il vociferato supporto alle RFS da parte degli Emirati Arabi Uniti (sostenitore finanziario e politico del corso del Presidente al-Sisi), il governo del Cairo guarda con preoccupazione all’ipotesi di instaurazione di un nuovo esecutivo a Khartoum, che potrebbe rivelarsi ostile alla sua leadership. L’Egitto, che ha sempre prediletto regimi “ideologicamente” affini al suo sistema – quindi retti o influenzati da un forte e decisivo ruolo delle Forze Armate locali –, rischia infatti di vedere incrinato lo status quo della regione, caratterizzato dall’indiscusso peso strategico del Cairo nei confronti dei Paesi vicini. Un cambiamento radicale in Sudan potrebbe, dunque, compromettere le ambizioni egiziane nel quadrante dell’Africa Orientale. La crisi sudanese, del resto, è anche il risultato della politica egiziana nei confronti dei governi sorti a Khartoum successivamente alla destituzione dell’ex Presidente sudanese Omar al-Bashir (aprile 2019). Opponendosi all’istituzione di un esecutivo civile e democratico nel Paese limitrofo, l’Egitto ha spinto per l’instaurazione di un governo militare, attuando, al contempo, una politica di dividi et impera non solo tra le forze civili sudanesi, ma anche tra civili e militari.

Allo scoppio del conflitto tra il Generale Mohamed Hamdan “Hemedti” Dagalo – signore della guerra, nonché leader delle milizie ribelli RFS – e il Generale Abdel Fattah al-Burhan – capo dell’esercito sudanese –, l’Egitto ha mostrato il suo supporto più al secondo che al primo: al-Burhan, infatti, rappresenta l’establishment militare tradizionale sudanese, che si accorda con la gerarchia militare egiziana. L’ipotetica ascesa al potere del Generale “Hemedti” potrebbe implicare, al contrario, non solo una rottura in termini di tradizione, ma anche – e soprattutto – una nuova postura anche internazionale per il Sudan, contraddistinta da una politica estera maggiormente ambivalente e transattiva nei confronti dell’Occidente e delle potenze globali (Cina, Russia e India) e, dunque, potenzialmente non allineata con gli interessi del Cairo. Tale prospettiva è, per l’Egitto, a dir poco angosciante, in quanto sarebbero tanti i potenziali contraccolpi di un’azione simile. Tra gli interessi in gioco, infatti, ne spicca uno particolarmente cruciale: l’appoggio sudanese nella controversia con l’Etiopia nella questione della Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD).

Questo colossale progetto idroelettrico – realizzato, a partire dal 2011, sul Nilo Azzurro – vede contrapporsi, da anni, i governi di Etiopia ed Egitto: il primo, artefice del progetto, è un Paese “a monte”, che considera la diga una questione di necessità esistenziale, con cui spera di sradicare la propria povertà e proiettarsi sull’arena internazionale come esportatore di energia nella regione; il secondo è invece un Paese “a valle”, che dipende dal Nilo per la quasi totalità dei propri usi domestici e commerciali e che considera dunque il progetto come una vera e propria minaccia alla propria sicurezza idrica e alimentare. Nella disputa, però, c’è un terzo attore: il Sudan, altro Paese “a valle” che, stretto fra gli interessi del Cairo e di Addis Abeba, potrebbe rappresentare un importante ago della bilancia nel conflitto.

La posizione del Sudan, nella controversia, è stata spesso altalenante. Quando il progetto del piano è stato presentato per la prima volta, Khartoum – così come Il Cairo – aveva espresso le proprie rimostranze, protestando contro un’infrastruttura che avrebbe minacciato l’afflusso delle acque vitali del Nilo. Nel 2015, il Sudan aveva fiancheggiato l’Egitto nello spingere l’Etiopia a siglare la Dichiarazione dei Principi, un accordo atto a regolamentare – in modo equo – il riempimento e la gestione della GERD.

Col passare del tempo, però, questa posizione si è gradualmente smorzata. Contrariamente all’Egitto, che continua ad opporsi strenuamente alla diga – emblematica, in tal senso, è la dichiarazione rilasciata nel 2021 da al-Sisi, secondo cui “le acque dell’Egitto sono intoccabili” –, il Sudan pare non solo meno combattivo, ma anche più propenso ad ascoltare la controparte etiope. Un ruolo non indifferente, in tal senso, lo ha giocato il Generale Hemedti, che nel gennaio 2022 si è recato ad Addis Abeba, dove ha incontrato il Primo Ministro etiope Abiy Ahmed con lo scopo di rafforzare i legami tra i due Paesi. Quando Hemedti e al-Burhan hanno convenuto – in seguito ad un accordo quadro siglato nel dicembre 2023 – di attuare una transizione biennale verso la democrazia, il Primo Ministro etiope ha svolto dei colloqui con entrambi i leader, cercando di appianare la controversia sulla GERD in virtù di un – presunto – allineamento fra i due Paesi “su tutte le questioni riguardanti la Grande diga”. Secondo il Premier etiope, la GERD massimizzerebbe i raccolti agricoli, soprattutto in Sudan, ponendo fine al ciclo distruttivo di inondazioni e siccità dovuto alle variazioni stagionali del flusso del Nilo.

Il clima di cordialità che ha aleggiato attorno a queste dichiarazioni – e che pareva, in un certo senso, incoraggiarle – non è però durato a lungo: a febbraio 2023, le tensioni fra i due Generali si sono inasprite, rimettendo in discussione la cooperazione regionale – così come il riavvicinamento tra Etiopia e Sudan – sulla gestione della diga. L’Egitto, dunque, attende col fiato sospeso l’esito del conflitto: se dovesse uscirne vincitore Hemedti, l’asse Il Cairo-Khartoum potrebbe infrangersi, con tutto ciò che ne consegue per la propria economia. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, infatti, l’Egitto sta cercando di espandere il proprio settore agricolo non solo per compensare le mancate importazioni di grano ucraino, ma anche per diventare più autosufficiente nella produzione del cereale: la fornitura d’acqua – così come un buon monitoraggio della sua disponibilità – è dunque diventata una vera e propria priorità, motivo per cui Il Cairo ha sollevato la questione della GERD anche in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Il conflitto sudanese, infine, rischia di ripercuotersi sull’Egitto anche sotto un altro punto di vista, per niente trascurabile: quello sociale e umanitario. Se il Paese, prima dell’inizio dei combattimenti, ospitava cinque milioni di sudanesi (corrispondenti a più del 10% della popolazione del Sudan), ora si accinge a riceverne molti di più: il mercato nero della tratta di esseri umani, alimentato dalla crisi sudanese, ad oggi è responsabile di circa 25 viaggi giornalieri in autobus tra Khartoum e Il Cairo, che riversano in Egitto circa 37.000 sudanesi ogni mese. Questa quota, nel caso di un peggioramento del conflitto, è destinata ad aumentare, portando con sé una serie di problematiche che l’Egitto dovrà inevitabilmente fronteggiare: oltre ai rischi associati all’infiltrazione di terrorismo e di gruppi estremisti, è in gioco non solo il fragile equilibrio demografico egiziano – caratterizzato dalla presenza di 104 milioni di abitanti concentrati nel 5% delle aree vivibili del Paese, ovvero nelle grandi città, lungo il Nilo o il suo delta a nord –, ma anche al bilancio statale e al mercato del lavoro della nazione.

I timori che attanagliano l’Egitto, dunque, sono molteplici e di difficile risoluzione. Il Cairo, che finora si è cautamente astenuto dal prendere un’aperta posizione nel conflitto, è paralizzato: la posta in gioco è altissima, ma qualsiasi mossa azzardata rischia di avere conseguenze catastrofiche. Il governo di al-Sisi, quindi, non può che attendere gli sviluppi del conflitto sudanese, ben consapevole che, a prescindere dall’esito, le conseguenze per il Paese – siano esse economiche, politiche o sociali – non tarderanno a manifestarsi.

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