Elezioni presidenziali in Egitto: le tante incognite di un risultato scontato
Tra il 10 e il 12 dicembre, circa 67 milioni di egiziani tra gli aventi diritto (in patria e all’estero) sono stati chiamati alle urne per eleggere il Presidente della Repubblica . Secondo previsioni, Abdel Fattah al-Sisi dovrebbe essere confermato con una larghissima maggioranza e rimarrebbe in carica fino al 2030. Una vittoria plausibile per al-Sisi sia per il basso tenore dei suoi sfidanti, sia per la reale scarsa competizione tra i candidati, essendo questi personaggi pressoché sconosciuti nel Paese e, in un certo senso, “calati dall’alto” e “scelti” a rappresentare le opposizioni. Proprio quest’ultime, da tempo avevano annunciato la decisione di disertare il voto e focalizzato la loro attenzione – specie dopo l’arresto avvenuto il 7 novembre di Ahmed al-Tantawi, l’unico vero sfidante al Presidente in carica – sulla possibilità concreta di brogli. Tale situazione si collega anche con le diffuse accuse internazionali di violazione dei diritti umani e delle libertà personali e, più in generale, di involuzione di qualsiasi processo democratico nel Paese.
Al di là dei risultati prevedibili, l’unico elemento politico saliente che questa elezione potrà presentare sarà il dato sull’affluenza in quanto tale fattore potrebbe mostrare una certa discontinuità qualora si presentasse sotto una certa soglia tollerata dal regime. Infatti, nelle ultime rilevazioni del 2018, il dato ufficiale dell’affluenza era stato del 41,5%, benché in molti osservatori – anche indipendenti – hanno ritenuto questo elemento sensibilmente più basso nella realtà. Quindi un rilevamento inferiore alla già bassa soglia del 2018 potrebbe essere interpretato dalle opposizioni come un elemento di criticità in termini di scarsa affezione e partecipazione alla vita dello Stato. Pertanto, ciò potrebbe essere interpretabile come un fattore di debolezza e potenziale fragilità del sistema egiziano che vive una stagione di turbolenze su più fronti, domestici ed esterni.
Il voto, infatti, cade in un momento di grande difficoltà per l’economia nazionale, con 1/3 dei quasi 109 milioni di egiziani che vivono al di sotto o appena sopra la soglia di povertà dei due dollari al giorno stabilito dalle Nazioni Unite, un debito estero di oltre 165 miliardi di dollari, una moneta fortemente svalutata della metà del suo valore rispetto al dollaro e con un’inflazione galoppante (oggi poco inferiore al 38% su base annua), gravata dagli alti prezzi dell’energia e dai costi crescenti sulle importazioni, in particolare quelle alimentari. Una condizione complessiva di crisi economica e sociale che ha portato il Paese a dover ricorrere al quarto prestito in meno di dieci anni del valore di 3 miliardi di dollari del Fondo Monetario Internazionale (FMI) – del quale è il secondo debitore globale dopo l’Argentina; a ciò si aggiungono le trattative del Cairo con il FMI per finanziare un ulteriore fondo di aiuti da 5 miliardi di dollari, necessario specie ora che l’Egitto vive una condizione grave accentuata anche dalla guerra a Gaza. Emergenza in parte attenuata dagli aiuti – non più incondizionati come nel passato – delle monarchie arabe del Golfo, che hanno versato nelle casse egiziane quasi 30 miliardi di dollari in fondi di assistenza al Cairo.
A ciò vanno aggiunte le criticità crescenti derivanti da un quadro regionale esterno fortemente critico e caratterizzato non solo dal conflitto tra Israele e Hamas, con tutti i suoi riflessi umanitari e di sicurezza per la Penisola del Sinai, ma anche dagli impatti strategici legati alla navigazione e alle royalties del Canale di Suez. Altresì, non vanno sottovalutate le instabilità provenienti dai confini prossimi come la Libia e il Sudan, realtà già affette da situazioni pregresse di crisi. Non a caso, la palese fragilità domestica ha già avuto alcuni impatti sulle ambizioni e sulle volontà di proiezione regionale e internazionale dell’Egitto nei suoi teatri di interesse, purtuttavia senza aver indebolito in toto le capacità di azione. A riprova di ciò è il caso della guerra tra Israele e Hamas a Gaza, lì dove il Cairo si è proposto nel suo tradizionale ruolo di mediatore e qualsiasi sviluppo nel conflitto armato, così come sul piano diplomatico, non può avvenire senza un suo fondamentale avvallo. Inoltre, il Paese nordafricano rimane imprescindibile anche per consentire alle organizzazioni internazionali di entrare a Gaza – tramite il valico di Rafah – per fornire aiuti alla popolazione civile palestinese della Striscia.
Proprio questa sua peculiarità è stata strumentalizzata (sia internamente sia dai partner internazionali) come un chiaro do ut des per definire una sorta di compromesso nei problemi che attanagliano il Cairo : un eminente ruolo di attore cardine nella gestione della crisi umanitaria a Gaza in cambio di un alleggerimento del debito estero contratto con i creditori internazionali o nella ricezione di ulteriori aiuti provenienti dal FMI. Infatti, il crack economico-finanziario, le trattative con l’Istituto di Washington, le tensioni lungo i confini e le numerose pressioni esterne (da parte USA e delle monarchie alleate del Golfo) per cercare di portare il Paese lungo una strada sostenibile di riforme hanno mostrato alcune increspature all’interno del piano egiziano, specie nella peculiare dialettica tutta interna al regime tra Presidenza della Repubblica e Forze Armate egiziane, le quali hanno palesato, in alcuni casi, opinioni differenti su come intervenire nella crisi domestica e impedire impatti nefasti sulla stabilità e la sicurezza dello Stato.
In conclusione, l’elezione presidenziale in Egitto non presenterà sostanziali novità , ma rappresenterà un banco di prova fondamentale per l’establishment al potere, soprattutto nella gestione diretta della fase post-voto, in quanto è in quegli spazi che si definiranno molti degli impatti politici del prossimo futuro del Paese.