Il ruolo dei semiconduttori nella competizione strategica Cina-USA
Nell’ultimo pacchetto di sanzioni contro la Russia -il decimo dall’inizio del conflitto-, l’Unione europea (UE) non solo ha introdotto nuove restrizioni alle esportazioni per materiali dual use e tecnologie avanzate, ma si è anche impegnata a rafforzare la cooperazione con i Paesi membri e i Paesi terzi per contrastare l’elusione delle sanzioni stesse. In particolare, l’inviato speciale David O’Sullivan ha ricevuto mandato di rivolgersi ai Paesi terzi, per garantire una rigorosa applicazione delle sanzioni e prevenire fenomeni di triangolazione volti a creare degli stratagemmi elusivi. Infatti, il quadro sanzionatorio rischia di perdere efficacia a causa, soprattutto, del fatto che altri Paesi quali India e Cina non hanno aderito alle sanzioni imposte dal blocco euro-atlantico. In particolare, la Cina ha continuato a inviare materiali dual use e semiconduttori verso la Federazione guidata da Vladimir Putin. D’altronde, né l’UE né gli Stati Uniti sono nella condizione, almeno per ora, di imporre sanzioni secondarie che andrebbero ad intaccare ulteriormente i rapporti già tesi con la Cina.
Tuttavia, la questione dei chip e del materiale dual use nell’ambito della guerra in Ucraina rappresenta solo un tassello della più grande competizione strategica per la leadership globale, che passa inevitabilmente per la supremazia tecnologica. L’obiettivo ultimo di Cina e Stai Uniti, in questo quadro, è quello di procedere verso l’autosufficienza tecnologica in tutti gli stadi della filiera, dalla progettazione alla produzione. Per raggiungere questo risultato, Pechino starebbe lavorando a un pacchetto dal valore di 143 miliardi di dollari per sostenere l’industria domestica dei semiconduttori. L’implementazione di questo ingente piano di sostegno è la risposta diretta alla decisione degli Stati Uniti e di altri Paesi legati a Washington di aumentare le restrizioni all’export nel settore.
A oggi, la produzione di chip e la messa in sicurezza delle catene di approvvigionamento sono divenute questioni geopolitiche prioritarie. L’accesso a questi materiali garantisce, infatti, un vantaggio tecnologico nella produzione industriale civile e militare. Malgrado l’importanza strategica, né gli Stati Uniti né la Cina godono di una superiorità completa in questo settore. La Repubblica Popolare Cinese (RPC), che si è affermata come monopolista nell’estrazione e raffinazione di terre rare, è arrivata nel 2021 a controllare il 54% delle estrazioni mondiali di terre rare grezze e l’85% di quelle raffinate. Questi dati si combinano con una politica di agevolazioni fiscali mirata a incoraggiare la costruzione di centri produzione sul proprio territorio, come testimoniato dal già citato piano di 143 miliardi, che consisterebbe sostanzialmente di sussidi e crediti di imposta per la ricerca e la produzione di semiconduttori. Il rafforzamento della posizione cinese nella catena di produzione costituirebbe altresì un’arma geopolitica. In tal senso, emblematica è stata la decisione della Cina di imporre nel 2010 un embargo informale sul commercio di terre rare con il Giappone a seguito di un incidente al largo delle isole Senkaku. In effetti, la dipendenza delle nazioni occidentali e, in particolare degli Stati Uniti, dalle terre rare cinesi apre una vulnerabilità importante. A oggi, la Cina produce il 60% del germanio, il 70% del silicio ed è tra i primi quattro Paesi al mondo per la produzione di gallio. Oltre a queste cifre impressionanti, la RPC è riuscita ad impedire ad altre aziende di entrare in questo settore rendendo le esportazioni particolarmente competitive e quindi riducendo le prospettive di ricavi. Tuttavia, anche per la RPC non mancano le criticità quali, per esempio, la carenza strutturale di personale specializzato e know-how. Dinnanzi a questa criticità, Pechino ha adottato delle scelte atte a favorire un’immigrazione mirata, nel tentativo di rendersi attraente per ingegneri o personale specializzato straniero promettendo un trattamento preferenziale in termini di qualità della vita, esenzione fiscale e posizione sociale. Per riuscire nel suo intento, Pechino si è avvalsa anche dei mezzi di comunicazione come la televisione dove è stato lanciato un programma che esalata gli ingegneri impegnati nella realizzazione semiconduttori, così da rendere il settore più attraente per i giovani. Nel complesso, la politica di attrazione di forza lavoro specializzata ha portato in Cina, stando ai dati del 2019, circa 3.000 ingegneri taiwanesi attivi nella realizzazione dei semiconduttori, ossia quasi il 10% della forza lavoro dell’isola impegnata nel settore. A ciò si aggiungono anche le accuse mosse nei confronti della Cina di spionaggio industriale, come quelle formulate dall’azienda olandese ASML una delle pochissime aziende in grado di costruire macchine litografiche per la produzione di chip sempre più piccoli ed avanzati. Alla fine di gennaio 2023, l’Olanda ha deciso di seguire la linea dettata dall’amministrazione Biden in relazione al blocco delle esportazioni delle tecnologie chiave (incluse le macchine litografiche di ASML), una decisione che dovrebbe complicare i piani cinesi. La conferma di questa convergenza strategica è rappresentata dall’intesa trovata tra gli Stati Uniti e l’UE durante l’ultimo viaggio di Von der Leyen a Washington, in cui la Presidente della Commissione UE ha incontrato Biden per discutere dell’approvvigionamento di materie prime. Gli USA potrebbero, infatti, accordare alle aziende europee l’eleggibilità per i bonus alla produzione, mentre l’UE potrebbe adottare una politica commerciale su terre rare e batterie elettriche più vicina alla visione statunitense, ovvero in funzione anticinese.
Inoltre, l’amministrazione Biden potrebbe procedere a breve all’annullamento delle licenze che consentono alle aziende Usa di vendere tecnologie alla società cinese Huawei, con un focus sui chip. Le politiche contro l’azienda cinese, in particolare, hanno già permesso agli Stati Uniti di assicurarsi quote di mercato nei Paesi del blocco euro-atlantico che collaboravano con l’azienda per lo sviluppo di tecnologie chiave come il 5G.
Dall’altro lato dell’oceano, gli Stati Uniti, che sono sempre stati all’avanguardia nella produzione di semiconduttori, devono confrontarsi con le crescenti minacce provenienti da Pechino. Con l’amministrazione Biden, la strategia degli Stati Uniti nei confronti dei semiconduttori è quella di precludere le linee di approvvigionamento della Cina e rafforzare l’industria domestica. In questo senso, il documento più interessante per comprendere la strategia statunitense è il “Chips for America Act” che si struttura su due binari: da un lato, mira a ricostruire l’industria statunitense dei chip con un programma di esenzione fiscale del 25% e investimenti nella ricerca e nello sviluppo per 39 miliardi di dollari; dall’altro, punta a limitare la capacità della Cina di produrre chip più avanzati. In questo modo, gli Stati Uniti possono assicurarsi chip più avanzati, adatti alle nuove scoperte industriali e militari, mantenendo un vantaggio nell’innovazione oltre che nella produzione, e ottenendo un successo strategico oltre che economico.
Un altro pilastro della strategia statunitense è l’Inflation Reduction Act (IRA), che prevede quasi 400 miliardi di dollari per aumentare l’energia pulita, attraverso una serie di sostegni alle imprese statunitensi operanti nel settore. Alla luce di ciò, i semiconduttori diventano ancora più importanti in quanto parte fondamentale per la produzione di energia rinnovabile. La transizione, dunque, contribuisce ad aumentare ancora maggiormente la domanda per semiconduttori, che l’amministrazione Biden punta a soddisfare attraverso offerta domestica, con l’obiettivo di svincolarsi dalle filiere controllate da Pechino. In particolare, Washington è interessata ad aumentare le capacità produttive statunitensi di litio, nickel, grafite, cobalto e manganese, oltre a rafforzarne la raffinazione per gli input cruciali delle batterie per gli EV e per lo stoccaggio di energia elettrica.
In conclusione, dunque, sebbene la sfida tecnologica imperversi senza esclusioni di colpi, né la Cina né gli Stati Uniti sono già nella posizione che gli consente di ergersi come unico attore, con le catene di approvvigionamento che rimangono ancora interconnesse. Tuttavia, entrambe le parti puntano in modo strategico ad uscire da questa interdipendenza: la Cina cercando di acquisire know-how e manodopera qualificata e aumentando attraverso piani di sussidi la propria autosufficienza; mentre gli Stati Uniti puntano a rilanciare la propria industria e cercano nuove forme di approvvigionamento di materie prime.
La guerra in Ucraina ha dimostrato la pericolosità di dipendere da un unico fornitore per settori strategicamente importanti. In questo contesto, le difficoltà che le due potenze devono affrontare sono molteplici: la Cina deve fare i conti con un’immagine poco attraente all’estero, che limita la capacità di “conquistare” personale, e altresì con una commistione tra aziende private e settore militare che aumenta la diffidenza dei potenziali partner. Per gli Stati Uniti, invece, contrastare l’ascesa cinese e rafforzare l’autonomia strategica è una priorità assoluta, che l’amministrazione Biden è intenzionata a perseguire senza reticenze. In questo senso, Washington punta ad attirare filiali di grandi aziende, come ad esempio TSMC, che dovrebbe costruire prossimamente una fabbrica in Arizona. Sembra che ad oggi la sfida tecnologica sia intesa da entrambi le parti come un gioco a somma zero: il rischio di questo approccio è che, qualora non si accetti uno scenario di reciproca legittimazione nel settore, lo scontro si intensifichi e altri attori, UE compresa, potrebbero rimanere schiacciati da una rivalità portata alle estreme conseguenze.