Il Libano torna in piazza
Dal 21 aprile scorso, manifestazioni sotto forma di convogli di automobili hanno riempito le strade in varie città del Libano, sfidando l’isolamento imposto per contrastare il COVID-19. Nei giorni successivi si sono verificati anche episodi di violenza, concentrati soprattutto nel nord nella zona di Tripoli, una delle aree più povere del Paese. Il 27 aprile alcuni manifestanti si sono scontrati con le forze di sicurezza libanesi dopo aver sfasciato le vetrine di istituti bancari e aver dato fuoco ad un veicolo dell’Esercito, esasperati dalla rapida svalutazione della lira libanese e dall’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Nel fine settimana precedente la valuta ha toccato il nuovo minimo venendo scambiata a 4.000 lire per un dollaro sul mercato nero, mentre il tasso di cambio ufficiale è rimasto a 1.507 lire per un dollaro.
Si tratta di una ripresa della fase di proteste iniziata nell’ottobre 2019, che si erano solo momentaneamente fermate tra febbraio e marzo scorsi proprio a causa dell’incertezza legata alla diffusione e alla gravità dell’epidemia. Tuttavia, proprio la crisi sanitaria, seppur sotto controllo, con 710 contagiati e 24 decessi attestati al 27 aprile, ha messo ulteriormente in luce alcune problematiche all’interno della società libanese. Prima tra tutte, la catastrofica situazione dell’economia nazionale e le conseguenti disuguaglianze socio-economiche.
Il Primo Ministro Diab ha dichiarato, lo scorso 7 marzo, il default sul debito pubblico, che ammonta a circa il doppio del PIL nazionale. Il Paese sta attraversando la peggior crisi economica dal momento della sua nascita e, a partire dalla guerra del 2006, ha visto un incremento considerevole delle disuguaglianze socioeconomiche, a loro volta risultato dell’alto tasso di corruzione e del sistema politico radicato tradizionalmente su una base settaria.
Secondo il World Inequality Database, nel 2016 l’1% più ricco della popolazione recepiva un quarto (23,4%) dei proventi nazionali, mentre il 50% più povero ne guadagnava soltanto il 10,7%. Queste stime mostrano un peggioramento di una situazione già altamente ineguale: nel 2006 gli stessi dati erano, rispettivamente, 21,3% e 13,1%. I dati sono ancora più esplicativi se si prende in considerazione la ricchezza accumulata: secondo il Credit Suisse Global Wealth Databook, l’indice di Gini sulla diseguaglianza, in Libano ha subito un aumento da 79,7 nel 2010 a 88,9 nel 2018 (100 indica il massimo), collocando il Paese al terzo posto nel mondo per le disuguaglianze relative alla distribuzione della ricchezza. Il tasso di disoccupazione è stimato al 11,4%, un dato che cresce al 23,3% tra i giovani, da cui sfuggono, però, i lavoratori del grande settore informale. E ultimamente, sia a causa della rampante crisi economica che dell’isolamento sanitario, la situazione si sta aggravando: molti lamentano di aver perso il lavoro o di aver subito una riduzione nella paga. Secondo la World Bank, il tasso di povertà assoluta è destinato a crescere da un terzo (2018) a metà della popolazione nel 2020, che si vedrà costretta a vivere sotto la soglia globale di povertà, fissata a 3,10$ al giorno. Si riporta infine un sostanziale aumento dei prezzi dei generi alimentari stimato, a seconda dei prodotti, tra il 50 e il 150%.
Anche la sicurezza economica della fascia intermedia della popolazione sta erodendo velocemente: il ministro degli Affari Sociali Ramzi Moucharafieh ha dichiarato che circa il 75% della popolazione necessita assistenza. All’aumento del costo dei beni di prima necessità e alla crescente disoccupazione si è aggiunto il peso dell’isolamento sanitario che costringe a casa anche chi, ad esempio, per potersi permettere l’affitto del proprio negozio deve poter vendere su base quotidiana. Una situazione in cui, potenzialmente, secondo stime governative potrebbe trovarsi il 19,8% dei lavoratori libanesi, impiegati nel settore della vendita. Le drammaticità della situazione si riflette anche nei numerosi gesti di protesta disperata osservati nel Paese. Per citare un solo caso esemplificativo, il 24 marzo un tassista di Beirut, multato per aver infranto l’isolamento per effettuare delle corse, si è dato fuoco davanti alle autorità a causa dell’impossibilità di pagare la retta scolastica per la figlia. Il gesto ha ulteriormente esacerbato le proteste degli ultimi giorni, in cui i manifestanti hanno contestato l’incapacità del governo nel sostenere gli strati più deboli del popolo. In molti, infatti, accusano lo stato di aver lasciato alla popolazione due opzioni: morire di fame o di COVID-19.
Dunque, a ben vedere, la crisi sanitaria ha anche innescato una trasformazione della fisionomia delle proteste. I manifestanti scesi in piazza nella prima fase lo scorso ottobre erano soprattutto studenti universitari, professori, membri della classe media che potevano permettersi di non percepire un reddito per settimane e scendere in strada reclamando un cambio radicale per il Paese. Le loro richieste facevano esplicito riferimento alla volontà di assicurarsi un futuro migliore, e molte anime delle proteste erano spinte da, o condividevano, ideali progressisti. Le fasce più basse della popolazione non avevano però preso parte alle proteste, poiché tali motivazioni non erano riuscite a far breccia in quegli strati sociali che soffrono la fame quotidianamente e hanno esigenze più urgenti legate alla sopravvivenza. Le rivendicazioni dei manifestanti riguardavano la dimissione di tutti i membri del governo, la fine della corruzione e del sistema confessionale.
Al malcontento delle classi medie di fine 2019, da marzo-aprile si è aggiunto il tracollo delle condizioni di vita, anche per quelle fasce che in passato godevano di una certa sicurezza economica. Se le proteste continuano a condannare la corruzione e l’inattività del governo, ora le principali rivendicazioni riguardano le necessità di sostentamento di base, più che la fine del sistema settario. E, di conseguenza, includono anche i reclami della fascia più bassa della popolazione, che ha visto la propria condizione peggiorare ulteriormente.
Su questo sfondo, gli sviluppi futuri di questa nuova stagione di proteste dipenderanno soprattutto dall’ampliamento della composizione socioeconomica dei manifestanti e dallo sfruttamento del sistema clientelare come ultima risorsa nell’emergenza.
In primo luogo, il cambio di priorità nelle proteste aumenta la possibilità che i segmenti più bassi e marginalizzati della popolazione vi partecipino in maniera ancora più massiccia già nelle prossime settimane, a causa del peggioramento delle loro estreme condizioni di vita. Si tratta soprattutto di lavoratori del settore informale o stagionali nel settore agricolo, ad esempio, ma anche di rifugiati, che numericamente farebbero ampliare la portata delle dimostrazioni in modo esponenziale. A fronte di una popolazione di circa 7 milioni di persone, i soli rifugiati siriani sono circa un milione e mezzo, i palestinesi 300mila e, a causa della mancata firma della Convenzione di Ginevra, il loro status non è riconosciuto dalle autorità libanesi.
Le proteste probabilmente non saranno omogenee della dislocazione e nelle rivendicazioni avanzate e si renderanno visibili vari punti caldi, con richieste più o meno legate a quelle delle prime proteste. La diversificazione del bacino potrebbe, però, rivelarsi determinante: la partecipazione di strati popolari privi di mezzi di sostentamento immediati aumenta la probabilità di un’escalation delle tensioni con le forze di sicurezza, sia statali che non. Infatti, l’astensione dalla violenza delle proteste di ottobre era motivata dall’esempio delle primavere arabe del 2011, quando quest’ultima aveva innescato (e, nella narrativa statale, aveva anche giustificato) l’uso della forza da parte delle autorità e la repressione delle manifestazioni. Un calcolo che, già nel prossimo futuro, potrebbe non rispecchiare più le priorità di alcune anime della protesta, specialmente quelle composte dagli strati più poveri, che sono spinti da necessità immediate di sussistenza.
È altresì verosimile che l’estensione delle proteste non resti relegata al periodo di emergenza sanitaria, visto il lungo termine degli effetti economici del lockdown, premonitore del perpetuarsi e persino dell’inasprirsi delle condizioni di vita.
In secondo luogo, il sistema clientelare confessionale è così radicato nelle dinamiche sociali libanesi che potrebbe essere sfruttato sia dai leader per riguadagnare legittimità, sia, con un paradosso solo apparente, dalla popolazione stessa per necessità di sostentamento.
Il sistema clientelare libanese, infatti, si sviluppa su linee settarie ed è guidato dagli za’im, capi delle famiglie notabili di ciascuna confessione, come quella dei drusi Berri, dei sunniti Hariri o dei maroniti Gemayel, o da personalità affermatisi durante la guerra civile, come il Presidente Aoun. Il clientelismo, innestato sull’appartenenza religiosa, è la principale fonte di supporto politico per i leader, ed è mantenuto tramite l’allocazione di fondi governativi su base settaria e finanziamenti transazionali. Lo za’im, grazie al suo radicamento sul territorio, è responsabile per la provvisione dei servizi alla propria comunità, ma anche per l’assegnazione di incarichi nella burocrazia statale. Il sistema clientelare ha portato alla creazione di una élite politica ed economica che, a causa del basso controllo delle autorità centrali sul territorio, mantiene il potere da decenni.
Il meccanismo è inoltre corroborato dalla segregazione geografica su linee settarie della popolazione: i quartieri di Beirut e i villaggi libanesi hanno una precisa appartenenza confessionale. È perciò inevitabile, ad esempio, che gli aiuti del partito-movimento sciita Hezbollah si concentrino zone sciite e che, di conseguenza, ne beneficerà soprattutto la comunità sciita, oppure che le donazioni dello za’im cristiano di Bsharre saranno utilizzate per la comunità autoctona, della medesima fede.
Questo è evidente anche nell’emergenza che il Paese sta vivendo. Non è una coincidenza che i vari partiti, primo tra tutti Hezbollah, abbiano iniziato a distribuire aiuti tramite quel meccanismo clientelistico attaccato dalle manifestazioni di fine 2019. Proprio il partito guidato da Hassan Nasrallah è il responsabile del Ministero della Salute, il quarto per capacità di spesa. Si tratta di un canale tramite cui Hezbollah può garantirsi determinati flussi di finanziamenti, soprattutto alla luce delle sanzioni statunitensi che hanno indebolito i flussi di sovvenzioni dall’Iran e reso difficile la fornitura di sussidi e il finanziamento di operazioni militari. D’altronde, il Partito di Dio sta avendo un ruolo cruciale nella gestione dell’emergenza, probabilmente anche per difendersi da tali accuse: ha convertito varie infrastrutture, soprattutto nel sud del Paese, in centri ospedalieri per pazienti affetti dal virus, annunciandone la gratuità e l’apertura a tutte le confessioni religiose, nonché ai rifugiati, che in Libano non godono di alcuna protezione sanitaria. E così altri partiti hanno fornito mascherine, tute e finanziato operazioni di sanificazione, come il Partito socialista druso, le Forze Libanesi o il Movimento Patriottico Libero, entrambi maroniti. Alcuni leader politici e uomini d’affari miliardari, come Saad Hariri, hanno donato ingenti somme agli ospedali.
In questo contesto, non si può escludere che nel breve termine gli strati più bassi della popolazione si rivolgeranno naturalmente al sistema clientelare, accettando le offerte di aiuto dei vari za’im. In modo del tutto consequenziale, successivamente, nel caso si prolungasse la difficile situazione economica e politica, è altrettanto probabile che anche chi oggi appartiene alla classe media si veda costretto ad accettare gli aiuti dei leader confessionali, depotenziando così quelle rivendicazioni di cambiamento radicale che animavano l’ondata di proteste dell’autunno 2019. In breve, in una congiuntura così complessa, con uno Stato strutturalmente assente, il network confessionale può essere sfruttato anche da chi, fino a pochi mesi fa, ne reclamava la caduta in piazza dei Martiri a Beirut. Dunque, il sistema settario messo a lungo sotto accusa dai manifestanti potrebbe invece sopravvivere a se stesso, rinvigorendo il ruolo clientelare dei leader politici delle varie comunità tramite la tradizionale fornitura di servizi e sussidi.