Il disgelo verso la Siria: un processo già in atto nel mondo arabo
Middle East & North Africa

Il disgelo verso la Siria: un processo già in atto nel mondo arabo

By Federica Curcio
04.14.2023

In continuità con il trend regionale in corso da oltre 18 mesi, l’Arabia Saudita, che ospiterà il vertice annuale della Lega Araba il 19 maggio prossimo a Riyadh, prevede di invitare il Presidente siriano Bashar al-Assad. La mossa segna un’importante inversione di tendenza nella politica saudita verso la Siria e rappresenta un’occasione per Assad in cerca di riabilitazione per uscire dall’isolamento in cui versa dal 2011. Mentre il conflitto nel Paese si avvicina al suo dodicesimo anno e non sembra emergere una reale soluzione di continuità, il leader siriano è invece riuscito ad ottenere significative vittorie diplomatiche grazie all’apertura di diversi governi arabi verso Damasco.

Un momento divenuto sempre più forte specie dopo i devastanti terremoti che all’inizio di febbraio hanno colpito il nord-ovest del Paese. . Il 6 febbraio un terremoto di magnitudo 7,8 ha colpito l’area tra la Turchia meridionale e la Siria settentrionale, causando oltre 50.000 morti ed enormi devastazioni. La distruzione causata dal sisma ha colpito pesantemente le città siriane di Aleppo, Latakia, Hama e Idlib dove almeno 6.000 persone hanno perso la vita ed il costo per la ricostruzione dell’area è stimato in circa 5 miliardi di dollari. In seguito al tragico evento la risposta tempestiva del vicinato mediorientale per aiutare la Siria ad affrontarne le conseguenze è stata notevole su più di un livello, e per certi versi inaspettata. Algeria, Egitto, Iran, Iraq, Israele, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Libia, Oman, Qatar, Tunisia e EAU hanno inviato aiuti urgenti alla Siria sotto forma di personale medico e di soccorso, fondi, forniture mediche e alimentari.

Infatti, nelle aspettative assadiane vi è la speranza che il sisma possa contribuire ad accelerare quel processo iniziato da alcuni anni e garantire un ritorno alla piena legittimità del suo regime nella comunità araba, riuscendo magari ad aggirare il grado regionale delle sanzioni internazionali contro il suo governo da parte di USA. Emblematico è il caso dell’Arabia Saudita: potenza regionale contraria a qualsiasi nuovo impegno con Damasco, che tuttavia ha inviato assistenza con due aerei trasportanti 30 tonnellate di aiuti atterrati ad Aleppo per la prima volta dal 2011. La grossa mole di aiuti e la mobilitazione dell’intera comunità internazionale verso Damasco hanno offerto ad Assad una finestra di opportunità per ricercare importanti ritorni diplomatici nello scacchiere regionale. Il leader siriano, infatti, all’indomani del terremoto ha ricevuto telefonate dal Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi – la prima in assoluto – e dal Re del Bahrain Hamad bin Isa al-Khalifa, oltre ad ospitare il Ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed al-Nahyan (la sua prima visita a Damasco dal novembre 2021), quello della Giordania Ayman Safadi (prima visita giordana di alto livello in Siria dall’inizio del conflitto) e quello dell’Egitto Sameh Shoukry. Vicinanza è stata espressa anche dall’Oman – Paese strategico nella corsa di Assad verso la riabilitazione – che, a poche settimane di distanza dal terremoto ha ricevuto il Presidente siriano a Muscat per colloqui ufficiali, e dalla Tunisia, che, oltre ad esprimere il suo cordoglio, ha ufficialmente avviato le procedure per ristabilire ufficialmente i legami diplomatici con Damasco.

L’evento tragico ha, quindi, sicuramente scosso le coscienze delle popolazioni arabe, ma è innegabile che è stato strumentalmente usato dalle leadership della regione per rilanciare un processo di distensione dei rapporti con la Siria, cominciato nel 2016 ed espresso plasticamente dalla “diplomazia step by step ”, intesa come un cambio di atteggiamento verso il governo siriano dall’isolamento punitivo a cui è stato sottoposto. Nel 2011, infatti, la Siria è stata sospesa dalla Lega Araba in seguito alla risposta autoritaria assunta dal regime di Assad nei confronti delle proteste popolari. Presto, però, quelle manifestazioni sono sfociate in violenze e atrocità che sono andate ad alimentare una vera e propria guerra civile che ha portato la quasi totalità dei Paesi arabi a rompere le relazioni con Damasco. Tuttavia dopo i successi militari ottenuti dal regime assadiano nel periodo 2016-2018, come la riconquista della città di Aleppo e delle province meridionali di Dara’a e Quneitra, oltre all’avanzata nei governatorati di Idlib, Hama e Deir ez-Zor (possibili grazie all’intervento della Russia nel conflitto dal settembre 2015), molti Stati arabi hanno compreso che l’uscita di scena del leader siriano non fosse più un’opzione realistica e praticabile e, di conseguenza, hanno strategicamente avviato un lento e complesso riavvicinamento verso la Siria. Primi tra tutti gli Emirati Arabi Uniti. Nel 2018, infatti, Abu Dhabi ha ristabilito ufficialmente le relazioni diplomatiche con Damasco, così come più tardi hanno fatto diversi altri Paesi della regione, tra cui Egitto, Algeria, Giordania, Bahrain e Oman. Al tempo, altri attori come Arabia Saudita e Qatar erano troppo esitanti per seguire l’esempio dei Paesi vicini, considerando anche la contrarietà delle opinioni pubbliche interne al riavvicinamento con un regime che ha causato indicibili sofferenze, provocato la morte di mezzo milione di persone durante la guerra civile, usato armi chimiche nei confronti della sua stessa popolazione, generato 6,8 milioni di sfollati interni e quasi 7 milioni di rifugiati.

Tuttavia, all’indomani del terremoto, questa strategia gradualista ha assunto forte accelerazione, spinta sia dal contesto internazionale e regionale in costante evoluzione sia dai calcoli di Assad, ormai determinato a capitalizzare il disastro umanitario per attenuare il suo isolamento e alleviare le pesanti sanzioni di cui è oggetto il Paese. Nonostante avesse già viaggiato negli EAU nel 2022 (il primo viaggio in un Paese arabo dalla guerra civile), a marzo il leader siriano ha deciso di sfruttare l’opportunità offerta dal terremoto per recarsi di nuovo ad Abu Dhabi – questa volta accompagnato dalla consorte – dove ha ricevuto la calorosa accoglienza del Presidente della Federazione Mohammed bin Zayed al-Nahyan. Questo sforzo diplomatico ha così permesso alla Siria di godere della buona pubblicità e di ingenti aiuti da parte di Abu Dhabi, allertando anche i partner arabi. In effetti, a prescindere dal conflitto in corso e dalla rottura dei legami diplomatici, gli EAU e la Siria hanno tenuto i canali commerciali relativamente aperti e, grazie alle politiche non discriminatorie emiratine, le imprese siriane (in gran parte dei casi associate al regime) hanno potuto continuare a condurre i propri affari nel Paese attraverso reti complesse e spesso clandestine. Gli uomini d’affari e le aziende siriane, infatti, sono stati in grado di utilizzare la posizione di Dubai come hub finanziario per accedere ai mercati globali, provocando la risposta piccata del Dipartimento del Tesoro USA per aver tentato di eludere le sanzioni. Un caso molto emblematico è stato quanto accaduto alla ASM International General Trading, società operante in Siria ma con sede negli EAU, di proprietà della famiglia Foz, attiva con investimenti nel settore delle materie prime. La società siriana è stata sanzionata per aver tratto enormi profitti dagli sforzi di ricostruzione nel Paese levantino, utilizzando terreni sequestrati dal regime di Damasco al suo stesso popolo – anche attraverso joint venture con aziende sostenute dallo stesso governo, contribuendo dunque al suo finanziamento. In questo contesto va letta la richiesta pubblica da parte di Abu Dhabi di rimuovere le sanzioni statunitensi del Caesar Syria Civilian Protection Act dirette alle parti che trattano con il regime siriano e che, in ogni caso, non hanno fermato gli scambi tra i due Paesi che nel 2021 hanno raggiunto il valore di 272 milioni di dollari (esclusi gli scambi petroliferi).

Il pressing diplomatico emiratino ha avuto il “merito” di aver sciolto anche l’esitazione di altri Stati, in primis quella dell’Arabia Saudita, da sempre avversi al ritorno della Siria nella legittimità politica araba. Riyadh, infatti, principale antagonista al regime di Assad, sembra aver assunto la postura di nuovo “sponsor” nel processo di normalizzazione araba. All’inizio di marzo, il Ministro degli Esteri saudita Faisal bin Farhan al-Saud ha dichiarato che la politica di isolamento verso la Siria si era rivelata inefficace, esprimendo la necessità di coinvolgere Damasco nel trovare una soluzione alla questione siriana. Alcuni giorni dopo le dichiarazioni del Ministro saudita, Damasco e Riyadh hanno concordato di riaprire le rispettive Ambasciate: un passo significativo nel più ampio sforzo arabo di normalizzare le relazioni con Assad, culminato poi nella volontà del Regno saudita di invitare il leader siriano al prossimo vertice della Lega Araba – evento nel quale anche il Qatar potrebbe ufficialmente rivedere le sue posizioni nei confronti di Damasco. Tuttavia Doha non è l’unico Paese ad essere ancora ostile alla Siria. Infatti, vi è uno zoccolo di Paesi come Marocco, Kuwait e Yemen che guarda con diffidenza a questa operazione di rilegittimazione implicita nei confronti di Assad. Alla base di ciò vi è la scarsa affidabilità che Damasco ha sempre fornito su almeno quattro punti critici: il rilancio del processo di dialogo nazionale, la questione dei rifugiati di ritorno, il traffico di captagon e, non residuale, il tema legato all’influenza iraniana.

Nonostante, quindi, alcune distanze tra gli attori arabi, si potrebbe affermare che il disgelo verso la Siria si muove ed è principalmente spinto dal Golfo, se si considera che prima del viaggio negli EAU, a febbraio 2023 Assad si era recato in Oman per incontrare il Sultano Haitham bin Tariq al-Said. Nonostante Muscat avesse ritirato il suo Ambasciatore da Damasco nel 2012 non ha mai rotto definitivamente le relazioni diplomatiche con il Paese. Un riflesso tipico della politica estera omanita: pragmatismo, non allineamento e mediazione tra gli interessi contrastanti degli attori regionali. Fattori che hanno reso il Sultanato un alleato strategico per il leader siriano e di cui potrebbe servirsi per offrire garanzie e rassicurazioni ad altri attori regionali (ma anche internazionali). In questo contesto, Assad in Oman ha espresso preoccupazione per le sanzioni che affliggono la sua popolazione, chiedendone la sospensione temporanea in cambio della disponibilità a garantire il passaggio degli aiuti umanitari nel nord-ovest del Paese colpito dal sisma. Come temuto dalla comunità internazionale, infatti, il governo siriano ha usato la gestione dell’emergenza come un’occasione per ottenere vantaggi economici e politici, ma soprattutto per uscire dall’isolamento cui è relegato da ormai dodici anni. Non a caso, nei giorni immediatamente successivi al sisma, nell’area settentrionale della Siria controllata dai ribelli, sono riusciti ad arrivare (tardivamente) solo pochi soccorsi attraverso il valico al confine turco-siriano di Bab al-Hawa – l’ultimo rimasto aperto e danneggiato dal terremoto – anche a causa delle pesanti sanzioni che limitano qualsiasi transazione verso il Paese. Una volta assicuratosi la gestione degli aiuti e quindi il controllo su aree della Siria un tempo perdute, Assad ha accettato di aprire temporaneamente due ulteriori valichi attraverso la Turchia in seguito ai colloqui tenuti con il Sottosegretario Generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari e Coordinatore dei soccorsi di emergenza Martin Griffiths ed ha così ristabilito una sorta di dialogo embrionale con la comunità internazionale. Una decisione che ha consentito al Presidente siriano di ripristinare il suo status di unico interlocutore legittimo: sono 105 i voli atterrati nel Paese dal terremoto per portare aiuti umanitari e provengono da ben 25 Stati del vicinato mediorientale. Anche sul versante delle sanzioni il leader siriano ha ottenuto ciò che cercava: con la Licenza Generale 23 gli Stati Uniti hanno autorizzato per 180 giorni tutte le transazioni relative ai soccorsi che sarebbero altrimenti vietate dal Caesar Act. Un precedente che potrebbe mettere Damasco nella posizione vantaggiosa di imporre ulteriori condizioni per un rapido recupero e la ricostruzione.

Al netto delle intenzioni di Assad, però, occorre considerare il calcolo politico approntato dai Paesi arabi circa i possibili impatti di una normalizzazione con la Siria. Il mondo arabo infatti motiva il disgelo come un modo per alleviare la sofferenza economica dei civili siriani, un passo verso il ritorno dei profughi siriani, un mezzo per incentivare il regime di Assad ad accettare le riforme necessarie a sbloccare i finanziamenti internazionali per la ricostruzione e quindi spostare la Siria verso la transizione politica richiesta dalla Risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Considerare l’idea che il Presidente Assad possa rispondere alla normalizzazione con concessioni di tale portata potrebbe rivelarsi una pia illusione: il dialogo con le opposizioni per riformare il Paese a livello politico è un tentativo già compiuto e non andato a buon fine (si pensi allo sfortunato processo di Ginevra 2), ed è impraticabile ora che il territorio siriano è sotto il pieno controllo di Assad; assicurare il ritorno dei rifugiati siriani implicherebbe la presenza di truppe arabe in Siria che ne tutelino la riuscita, questione fuori discussione per il ruler di Damasco, considerando anche che gran parte degli sfollati interni durante il conflitto erano tra le file dei ribelli che si opponevano al suo regime.

La famiglia Assad ha governato la Siria per più di 50 anni: è escluso che il mondo arabo abbia una scarsa conoscenza della sua (poca) disponibilità ad offrire garanzie e a fare concessioni. Quindi, quale è il motore della proposta araba di restituire il Presidente siriano alla piena legittimità araba e, in ultima analisi, internazionale? Considerati gli sviluppi che hanno determinato un cambiamento strategico negli equilibri della regione culminati con il recente accordo di normalizzazione raggiunto tra Arabia Saudita e Iran, sembra che l’obiettivo principale in questa fase regionale sia quello di rompere l’asse Damasco-Teheran esattamente come questa partnership contribuì a frantumare il fronte arabo quarant’anni fa. Allo scoppio della guerra civile siriana, Teheran ha offerto il suo incrollabile sostegno al suo partner di lunga data e ne ha così scongiurato la disfatta (grazie anche all’aiuto della Russia). Tuttavia, il coinvolgimento iraniano nella guerra si è evoluto nel tempo parallelamente alle diverse fasi del conflitto: iniziato nel 2011 come un trasferimento di attrezzature, armi e consiglieri presentati come pellegrini religiosi, si è recentemente trasformato in un tentativo di creare un’area di influenza nell’est della Siria a garanzia di qualsiasi tipo di scenario politico e securitario si possa aprire in futuro. Un problema che i Paesi arabi sono determinati a risolvere isolando Teheran ed i suoi alleati. Tuttavia è difficile che Assad possa acconsentire a ridurre il ruolo del partner iraniano in Siria: la Repubblica Islamica resta un importante fornitore di armi ed un attore ancora fondamentale per la sicurezza di Damasco, sostenuto anche dai suoi proxy come Hezbollah in Libano. In questo scenario non è detto, inoltre, che la normalizzazione possa arenarsi, anzi, fare la pace con i vicini arabi è il principale interesse di Assad. Infatti, nella speranza di ricevere miliardi di dollari di aiuti per la ricostruzione del suo Paese, il regime sarebbe pronto a fare buon viso a cattivo gioco sulla questione della presenza iraniana in Siria per placare le loro preoccupazioni.

Il devastante terremoto ha dunque accelerato un processo già in atto nella regione, aprendo delle finestre di opportunità inedite grazie all’intensa disaster diplomacy avviatasi tra il governo di Damasco ed il mondo arabo all’indomani della catastrofe, che potrebbe culminare nel re-inserimento della Siria nella Lega Araba dopo dodici anni di sospensione, grazie soprattutto alla recente apertura del governo saudita. Restano gli ostacoli posti dall’atteggiamento del regime damasceno, poco disponibile a lasciare la presa su questioni fondamentali come il controllo delle zone settentrionali del Paese, la riduzione dell’influenza iraniana sul territorio siriano, il ritorno sicuro dei rifugiati e l’attuazione delle urgenti riforme politiche. Sicuramente l’agenda di Assad per il 2023 sarà ricca di appuntamenti come ormai non accadeva da più di un decennio e non è escluso che altri attori possano considerare di perseguire la difficile strada intrapresa dai Paesi arabi.

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