Africa Standby Force, l’eterna incompiuta
Dal 19 ottobre al 7 novembre il Combat Training Centre dell’Esercito Sudafricano di Lohathla, nella provincia di Capo Nord, ha ospitato l’esercitazione internazionale AMANI AFRICA II (Pace in Africa), organizzata dall’Unione Africana (UA) per testare i progressi dell’Africa Stand-by Force (ASF), la forza multinazionale a dispiegamento rapido destinata ad essere impiegata nelle maggiori crisi per la sicurezza e la stabilità del Continente africano.
Durante AMANI AFRICA II, che ha visto la partecipazione di oltre 20 Paesi, compresi i pesi massimi regionali (Egitto, Nigeria, Algeria, Etiopia, Sudafrica, Kenya), i contingenti della ASF si sono esercitati su 2 scenari di crisi nella fittizia Repubblica di Carana. Il primo riguardava il dispiegamento rapido di truppe in una situazione di contrasto ad un’insurrezione armata anti-governativa, mentre il secondo si è configurato secondo gli standard di una classica peace support / peace enforcement operation con un grado crescente di utilizzo della forza militare. Appare evidente come il primo scenario fosse ispirato alla crisi maliana del 2011-2013 mentre il secondo si ispirasse alle più recenti evoluzioni operative di AMISOM (African Union Mission in Somalia) e MONUSCO (Mission de l’Organisation des Nations Unies pour la stabilisation en République Démocratique du Congo). Nello specifico, AMANI AFRICA II aveva l’obiettivo di dimostrare il salto capacitivo compiuto dalla ASF e annunciare la sua imminente ed effettiva operatività, prevista per i primi mesi del 2016.
Tuttavia, sussistono numerosi dubbi sia sulla possibilità che l’ASF entri in servizio nei tempi dichiarati sia, nel caso in cui questo si verifichi, sulle reali capacità della forza multinazionale. Infatti, sin dal 2002, anno dell’istituzione dell’UA, i Paesi africani hanno costantemente paventato l’imminenza dell’operatività dell’ASF, andando incontro a continui ritardi (2003, 2005, 2011, 2013). Diverse sono le cause all’origine di tale continua procrastinazione. Innanzitutto, a livello politico, il limitato potere dell’UA e l’unilateralità delle maggiori potenze continentali hanno costantemente rallentato il processo di risoluzione collegiale delle crisi regionali. Infatti, nonostante i significativi miglioramenti nei meccanismi negoziali sovranazionali, i maggiori attori africani si sono dimostrati reticenti nel rinunciare a importanti quote di sovranità nella gestione della propria politica estera e di sicurezza.
La seconda criticità è di carattere operativo ed attiene alla penuria di mezzi, alla generale mancanza di addestramento adeguato e alle drammatiche lacune nella catena logistica in cui vessano la maggior parte delle FA africane. Infine, la terza e più importante problematica riguarda il finanziamento delle attività dei contingenti, al momento sprovvisti di autonomia di bilancio ed incerti su quelli che saranno i canali di approvvigionamento per il futuro. Anche in questo caso esistono una profonda incertezza ed un marcato conflitto tra Paesi membri ed istituzione, entrambi alle prese con la tradizionale carenza di risorse e con la dipendenza dalle donazioni straniere.
Nata nel 2002 nell’ambito dell’African Peace and Security Architecture (APSA), iniziativa congiunta dell’UA e delle Comunità Economiche Regionali (RECs) preposta alla prevenzione e alla risoluzione dei conflitti nel continente, l’ASF dovrebbe rappresentare, in teoria, lo strumento politico e militare africano per la risposta rapida ed efficace ad eventuali situazioni di grave crisi. Nello specifico, tale forza multinazionale dovrebbe includere un totale di 25.000 uomini ed essere strutturata su 5 brigate regionali, corrispondenti alle RECs in cui è diviso il continente, ed ognuna formata da 5.000 tra soldati, forze di polizia e personale civile e di supporto.
Dunque, nel dettaglio, esiste una SADCBRIG, integrata nella Southern Africa Development Community (SADC), una EASTBRIG, parte dell’East African Peace and Security Mechanism (EAPSM), una ECOBRIG, all’interno della Economic Community of West Africa States (ECOWAS), una NASBRIG (North African Standby Brigade) o North African Regional Capacity, promossa dall’AMU (Arab Maghreb Union) e la FOMAC (Multinational Force of Central Africa), promossa dall’Economic Community of Central African States (ECCAS). La principale base logistica di tutta l’ASF si trova a Douala, in Camerun, mentre il Quartier Generale è localizzato ad Addis Abeba. Dal punto di vista politico, le brigate possono intervenire soltanto tramite mandato dell’UA, mentre le RECs sono responsabili dell’approntamento delle forze e del comando di contingenti ed operazioni.
Nelle intenzioni dell’UA e delle RECs, ogni brigata della ASF dovrebbe avere una struttura identica e replicabile, formata dallo staff di Comando e dal Quartier Generale (65 persone e 16 veicoli); da una compagnia comando (headquarter company – HCC, 120 persone); da 4 battaglioni di fanteria leggera, ognuno composto da 750 persone e 70 veicoli; da un’unità del genio (505 persone); da un’unità trasmissioni (135 persone); da una compagnia esplorante dotata di mezzi ruotati (150 persone); da una componente elicotteristica (80 persone, 10 veicoli, 4 elicotteri); da un’unità di polizia militare
(48 persone e17 veicoli); da una unità logistica multiruolo leggera (190 persone e 40 veicoli); da un’unità medica di II livello (35 persone e 10 veicoli); da un gruppo di osservatori militari (120 ufficiali); da un gruppo civile di supporto per la logistica, l’amministrazione e il bilancio. Oltre a questo personale militare, interamente comandato e coordinato dalla singola REC, ogni brigata dovrebbe disporre di personale sotto diretta responsabilità dell’UA.
Nello specifico si tratterebbe di 300-500 osservatori militari, di 240 poliziotti e di un numero variabile di esperti civili nei settori umanitario, governance, disarmo, ricostruzione. Secondo i piani di contingenza preparati dall’UA, l’ASF potrebbe intervenire in un elevato numero e in differenti tipologie di scenario. Nella fattispecie, l’APSA ne prevede 6, dal semplice invio di consiglieri militari a fianco di una delegazione politica impegnata in un negoziato multilaterale (scenario 1), al massiccio dispiegamento di forze in caso di gravissima violazione del diritto umanitario e della sicurezza regionale e continentale, quale una rivolta armata con tendenze genocidarie (scenario 6). In quest’ultima eventualità, l’ASF dovrebbe essere in grado di mobilitare i propri assetti ed essere pienamente operativa in meno di 14 giorni.
Nonostante le buone intenzioni, ad oggi simili obiettivi restano ben lungi dall’essere realizzati. Infatti, oltre alle criticità sottolineate in precedenza, l’eventuale decollo dell’ASF è frenato dalla presenza di un concreto concorrente: le missioni di stabilizzazione delle Nazioni Unite. Infatti, al netto dei ritardi nella realizzazione delle diverse brigate, negli ultimi anni, ogniqualvolta il Continente africano era scosso da una guerra civile o da una crisi umanitaria, sono state le Nazioni Unite ad intervenire con lo strumento militare. Questo è avvenuto perché il Palazzo di Vetro, nonostante le tante critiche di cui spesso è oggetto, continua ad essere l’unica organizzazione in grado di elargire legittimità politica internazionale, disporre di un meccanismo di approntamento e organizzazione delle forze efficace ed oliato e, soprattutto, di risorse finanziarie per sostenere le missioni. In questo senso, ad oggi, una delle poche possibilità a disposizione dell’ASF per assicurarsi uno stabile futuro operativo è quella di trasformarsi in un pacchetto di forze pre-configurato attivabile, utilizzabile e finanziato dalle Nazioni Unite in caso di improvvisa e pericolosa crisi nel Continente.
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