Afghanistan: nuove elezioni, vecchie criticità
Asia & Pacific

Afghanistan: nuove elezioni, vecchie criticità

By Simone Acquaviva
09.29.2019

Sabato 28 settembre ha avuto luogo il primo turno delle elezioni presidenziali in Afghanistan. L’appuntamento elettorale, incerto fino all’ultimo momento, si inseriva nel contesto dell’interruzione dei negoziati per il ritiro delle truppe statunitensi dal suolo afgano e di una nuova accelerazione dell’offensiva talebana nel Paese. I risultati preliminari sono attesi per il prossimo 19 ottobre, mentre l’ufficialità dell’esito si dovrebbe avere per il 7 novembre. Gli unici dati parziali al momento disponibili sono quelli riguardanti l’affluenza al voto, che sembrerebbero indicare un’affluenza al di sotto del 20% , in netto calo rispetto alle presidenziali di cinque anni fa, quando al primo turno votarono tre quinti degli elettori registrati.

I cittadini afghani hanno potuto scegliere il proprio Capo di Stato all’interno di una rosa di 18 candidati, sebbene 3 di questi avessero dichiarato il proprio  ritiro dalla competizione prima delle operazioni di voto. Se nessuno dovesse ottenere la maggioranza assoluta, i due più votati si sfideranno al secondo turno.

Ogni aspirante Presidente si è presentato all’appuntamento elettorale assieme a due vice. Nella formazione della squadra presidenziale, un corretto bilanciamento tra le diverse etnie del Paese poteva risultare decisivo nel determinare il risultato finale. Esempio significativo di ciò è fornito  dalla composizione del team del Capo di Stato uscente Ashraf Ghani, convinto di poter ottenere un secondo mandato anche in virtù di un pacchetto elettorale di rilievo. Ghani, Pashtun della provincia di Logar, poteva vantare l’appoggio del Vicepresidente uscente Sarwar Danesh, hazara della provincia di Daikundi, della quale è stato governatore, già Presidente della giustizia e dell’educazione durante l’amministrazione Karzai. Come secondo Vicepresidente ha corso inoltre Amrullah Saleh, tagico del Panjshir, già ministro degli interni e a lungo a capo del Riyāsat-e Amniyat-e Milli (National Direcotrate of Security – NDS), l’agenzia di intelligence nazionale. Al fine inoltre di rafforzare la propria candidatura includendo il maggior numero possibile di etnie, Ghani è stato appoggiato informalmente da Muhammad Yusef Ghazanfar, uzbeko di Balkh, per il quale potrebbe venir creata la carica di terzo Vicepresidente in caso di vittoria del Capo di Stato uscente.

Secondo i primi exit pool, al ballottaggio si dovrebbe ripetere la sfida delle presidenziali del 2014, che vide come sfidante di Ghani, Abdullah Abdullah. Già ministro degli esteri tra il 2001 ed il 2005, Abdullah ottenne il 45% dei consensi al primo turno delle scorse presidenziali, per poi perdere il ballottaggio a seguito di un contestato esito elettorale, il cui risultato ufficiale venne annunciato solamente a 3 mesi di distanza dal secondo turno. Abdullah assunse così la carica di Chief Executive, (una sorta di Primo Ministro), istituita per l’occasione in virtù di un compromesso mediato dagli Stati Uniti.

La difficile coesistenza tra Ghani e Abdullah ha minato l’efficacia dell’azione di governo ed ulteriormente indebolito la credibilità delle istituzioni democratiche. Ad aggravare l’inefficienza dell’esecutivo si sono aggiunte le tensioni degli ultimi mesi, con le accuse di Abdullah verso Ghani di utilizzare la macchina statale per fini elettorali e le diverse posizioni sull’opportunità di tenere le elezioni a prescindere dall’esito dei negoziati di pace tra l’insorgenza talebana e gli Stati Uniti. La leadership talebana, infatti, ha sempre ribadito l’intenzione di non riconoscere la legittimità del processo elettorale e la volontà di creare un governo ad interim, al quale il gruppo avrebbe potuto partecipare con propri rappresentanti. Questa richiesta ha polarizzato lo spettro politico afghano e, soprattutto, creato una spaccatura nella compagine governativa. Infatti, se da un lato, di fatto, Ghani ha spinto affinché le consultazioni, già rimandate due volte, si svolgessero regolarmente, desideroso così di ribadire la propria legittimità come leader eletto dalla popolazione, Abdullah ha sempre anteposto il risultato del processo di dialogo al voto.

Lo svolgimento delle elezioni rappresentava quindi delicato banco di prova per le istituzioni afghane, che non sono però riuscite a dimostrare una totale affidabilità nella gestione del processo elettorale. Anche in questa occasione, di fatti, accuse di brogli e problemi organizzativi (mal funzionamento dei sistema di riconoscimento biometrico e visivo, chiusura di alcuni seggi, ostilità da parte del personale di scrutinio, liste incomplete) hanno messo in discussione la capacità di gestione istituzionale delle elezioni stesse da parte di Kabul.

I quest’ottica, la percepita mancanza di affidabilità da parte delle autorità potrebbe essere una delle motivazioni alla base della scarsa affluenza al voto, che rappresenterebbe una manifestazione di disaffezione dell’elettorato verso un processo democratico che non ha portato a sostanziali miglioramenti in termini di prospettive future per il Paese e di condizioni di vita per i cittadini afghani.

Allo stesso tempo, un fattore primario nel tenere lontani gli afghani dalle urne può essere rinvenuto nell’efficace azione dissuasoria dei Talebani. Il gruppo al momento controlla o contende al governo il controllo su una buona parte del Paese. Ad oggi, infatti, solamente il 34% dei distretti e il 47% della popolazione sono fermamente sotto amministrazione del governo centrale, mentre larghe zone a nord ,nel sud e al confine orientale con il Pakistan risultano al momento disputate o sotto controllo talebano.  Fin dal 2001, anno dell’inizio dell’intervento statunitense nel Paese e della conseguente caduta dell’Emirato Islamico a guida talebana, i talebani non riconoscono alcuna legittimità al sistema statale di Kabul e conducono una serrata attività di insorgenza per scardinare un processo democratico considerato frutto di un modello etero-imposto. In questo contesto, il gruppo ha sempre alzato il tiro in occasione delle elezioni, per cercare di instaurare un clima di terrore che ne rendesse impossibile la realizzazione ed allontanasse i cittadini dalle urne.

Nonostante i timori, però, in occasione dell’appuntamento elettorale di sabato, il livello di violenza ai seggi è stato contenuto ad un livello di molto inferiore rispetto ai precedenti. La ragione di ciò può esser rinvenuta ad un corretto funzionamento del dispositivo di sicurezza, ma va tenuto in considerazione come i Talebani avessero tutto l’interesse a non provocare un numero elevato di vittime civili in occasione di un appuntamento mediatico del genere. Il gruppo è di fatti intenzionato a non minare eccessivamente  il proprio consenso, in vista di un possibile ritorno alla guida del Paese, che passa però inevitabilmente dal ritiro delle truppe statunitensi, i cui negoziati in tal senso con la Casa Bianca hanno  recentemente conosciuto una decisa battuta di arresto.

Lo scorso 9 settembre, infatti, il Presidente Donald Trump ha annunciato la sospensione sine die delle trattative, interrompendo, di fatto, bruscamente le comunicazioni tra Washington e la leadership politica dei talebani. La decisione presidenziale è giunta inaspettata, all’indomani dell’annuncio da parte dell’inviato speciale per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, di un’ imminente finalizzazione di un accordo preliminare, dopo 9 round negoziali condotti tra le parti a Doha. L’accordo, che sarebbe stato raggiunto dall’Amministrazione statunitense con il gruppo talebano, senza la consultazione con il governo di Kabul, si sarebbe basato su quattro pilastri: il ritiro delle truppe USA e NATO dal territorio afgano, una garanzia da parte talebana che l’Afghanistan non tornasse ad essere una base per organizzazioni legate al terrorismo internazionale di matrice jihadista, un cessate il fuoco permanente e lo sviluppo del dialogo intra-afghano. In particolare, la firma dell’accordo ad inizio settembre avrebbe portato al ritiro entro 135 giorni dalla firma di 5400 dei circa 14000 soldati statunitensi presenti in Afghanistan e la chiusura di 5 basi militari sul territorio. Tuttavia, l’annuncio di Trump ha sospeso ogni implementazione dell’accordo e congelato il tavolo negoziale.

La chiusura del canale di dialogo da parte statunitense potrebbe ora spingere i talebani ad intensificare la propria attività di insorgenza contro le Istituzioni afghane, per cercare di dimostrare a Washington la necessità di tornare a sedersi al tavolo per scongiurare un rapido deterioramento delle condizioni di sicurezza nel Paese.

Nonostante il canale negoziale tra Stati Uniti e Talebani sia quindi momentaneamente ad una situazione di stallo, il gruppo non sembra aver affatto messo da parte l’intenzione di portare a compimento un processo negoziale che, di fatto, gli ha permesso di tornare a d’essere considerato un interlocutore politico per il futuro dell’Afghanistan.  Al contrario, la battuta di arresto con Washington sembra aver messo in evidenza come per la leadership talebana il tavolo con Washington fosse funzionale essenzialmente al termine delle ostilità sul campo e non prevedesse alcun riferimento al futuro politico  del Paese. All’indomani dell’annuncio di Trump, infatti, delegazioni talebane sono state accolte a Mosca (13 settembre) e Pechino (23 settembre), a riprova della volontà della leadership talebana di trovare delle sponde nella regione per creare un nuovo equilibrio di forze a Kabul. Entrambi i Paesi hanno un forte interesse nella stabilità afgana, considerata fondamentale per prevenire una possibile diffusione di cellule legate al terrorismo jihadista nell’area. Mosca utilizza da tempo il proprio peso diplomatico, avendo tra l’altro già ospitato lo scorso luglio momenti di dialogo tra Talebani e diverse fazioni politiche afghane, non parte tuttavia  del governo centrale. Alle ambizioni di potenza e securitarie, Pechino aggiunge anche motivazioni economiche, in quanto considera l’Afghanistan cruciale per la messa in sicurezza della direttrice terrestre della Nuova Via della Seta.

L’emersione di questi nuovi interessi e, soprattutto, la possibile convergenza tra le posizioni dei talebani e di potenze regionali quali Russia e Cina sembra destinato ad avere un impatto sull’agenda del futuro governo afghano. Il prossimo Presidente, infatti, oltre a dover cercare di consolidare la capacità gestionale e il ruolo delle Istituzioni, ad oggi ancora traballante, potrebbe trovarsi a doversi interfacciare con una nuova congiuntura regionale, decisa a trovare una soluzione per la stabilità dell’Afghanistan, ma di cui Kabul non ha ancora avuto la possibilità di far parte.

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