Geopolitical Weekly n.330

Geopolitical Weekly n.330

Di Sara Nicoletti, Stefania Montagna e Elena Ventura
13.06.2019

Cina-Hong Kong: manifestanti in piazza contro l’Extradition Bill

Il 9 giugno, centinaia migliaia di manifestanti si sono riversati nelle strade di Hong Kong per contestare il così detto Extradition Bill, ovvero la controversa legge, che, se approvata, aprirebbe all’estradizione da Hong Kong di cittadini ricercati all’estero verso lo Stato richiedente, compresa Cina, Taiwan e Macau. Proposta lo scorso febbraio, la legge è ancora in fase di discussione al Consiglio Legislativo, organo unicamerale preposto (tra l’altro) all’approvazione delle leggi vigenti nella Regione Autonoma.

Nonostante, ci siano dati discordanti sul numero esatto di persone coinvolte nella manifestazione, la mobilitazione di manifestanti raggiunta nelle ultime ore ha reso la protesta una degli eventi politici più significativi per la città dal 1997. Il corteo, iniziato pacificamente, è degenerato in scontri lo scorso 12 giugno, dopo l’uso, da parte della polizia, di lacrimogeni e proiettili di gomma, che hanno causato il ferimento di circa 80 persone.

L’opposizione alla legge nasce dal timore della popolazione che la proposta possa aprire la strada ad una perdita di autonomia della Regione Autonoma rispetto al governo cinese. Infatti, Hong Kong gode di un limitato auto-governo e specifiche libertà civili, come sancito dal regolamento Un Paese, Due Sistemi. Nonostante questa legge dovrebbe essere applicabile solo per coloro che hanno commesso crimini per i quali sia prevista una pena minima di 7 anni, in molti temono che possa arrivare a colpire attivisti politici e lasciarli vittime del sistema giuridico cinese.

Il disegno di legge, infatti, è stato proposto su iniziativa di Carrie Lam, alla guida dell’esecutivo di Hong Kong dal 2017. La leader politica, tuttavia, è percepita dalla popolazione locale come simbolo della longa mano di Pechino ad Hong Kong, dal momento che la sua elezione è stata fortemente sponsorizzata dal Partito Comunista Cinese. In un momento in cui non sono ancora chiare le tempistiche della discussione definitiva della legge, la dilatazione dei tempi di risoluzione potrebbe generare una incerta fase di stallo in tutta la Regione Autonoma.

Mali: spirale di violenza inter-etnica a Mopti

Durante la notte del 10 giugno, una milizia di circa 50 uomini ha attaccato il villaggio a maggioranza Dogon di Sobame Da, nella regione di Mopti, uccidendo circa 100 persone. Secondo i residenti, gli assalitori sarebbero stati di etnia Fulani. Se questo fosse confermato, l’attacco potrebbe configurarsi come una rappresaglia per il rastrellamento del villaggio a maggioranza Fulani di Ogossagou, avvenuto ad opera della milizia Dogon Dan Na Ambassagou (Cacciatori in nome di Dio) lo scorso 23 marzo e costato la vita ad oltre 120 persone.

La tradizionale competizione tra Fulani, pastori semi-nomadi, e Dogon, agricoltori e cacciatori sedentari, per lo sfruttamento delle sempre più scarse risorse del suolo, in particolare nella regione di Mopti si è particolarmente inasprita a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici.

Tuttavia, essa ha assunto dei connotati particolarmente violenti all’indomani della guerra civile maliana del 2011-2012 e della proliferazione di gruppi armati su base etnica, inclusi quelli di ispirazione jihadista come il Fronte di Liberazione di Macina (FLM). Quest’ultimo ha sfruttato negli anni una solida presenza tra le sue fila dell’etnia Fulani per promuovere una narrativa identitaria transfrontaliera legata ad essi, che quindi vengono ormai quasi completamente identificati come jihadisti dagli altri gruppi etnici. Oltre alle brigate jihadiste, i Fulani si sono organizzati in una federazione di milizie di autodifesa, l’Alleanza per la Salvezza del Sahel, accusata però anch’essa di connivenza con i network terroristici regionali.

Risulta pertanto un quadro securitario deteriorato, dove né le istituzioni governative né le operazioni internazionali di peacekeeping come MINUSMA (Missione Integrata delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione del Mali) sono in grado di garantire la sicurezza dei civili, lasciando ampio spazio all’azione dei gruppi terroristici, abili nello sfruttare le perduranti tensioni inter-etniche e tra diverse categorie sociali. In questo senso, occorre sottolineare il costante malcontento dei Fulani, frustrati dalle politiche di espansionismo agricolo del governo di Bamako, tese a favorire le popolazioni sedentarie e a ridurre gli spazi di pascolo per i pastori semi-nomadi.

Russia: scoppia il caso Golunov

Mercoledì 11 giugno, l’indagine penale nei confronti del giornalista Ivan Golunov è stata ufficialmente archiviata data la mancanza di prove in supporto alla sua presunta colpevolezza. Inoltre, i poliziotti responsabili dell’arresto sono al momento sotto indagine.

Golunov, giornalista investigativo del sito anticorruzione Meduza, è stato arrestato lo scorso 6 giugno con l’accusa di tentato spaccio di stupefacenti. A prova di questo, la polizia ha dichiarato che il giornalista aveva con sé e nel suo appartamento una quantità significativa di sostanze stupefacenti e diverse bilance. Secondo varie fonti, queste prove erano state fabbricate dai poliziotti per silenziare il giornalista, in quanto era in procinto di pubblicare una inchiesta sull’FSB, il servizio di sicurezza ed intelligence nazionale.

La risposta all’arresto di Gulonov è stata tanto significativa quanto insolita. Il fronte dei media russi si è schierato in suo supporto, a dispetto della linea politica di molte testate, generalmente accondiscendenti verso le istituzioni e gli apparati dello Stato. In un raro momento di cooperazione, i principali tre giornali indipendenti russi hanno pubblicato una prima pagina identica, dichiarando solidarietà a Gulonov. Ancora più significativa è stata la presa di posizione di vari giornalisti appartenenti a canali pro-Cremlino, che hanno dichiarato la necessità di portare avanti un’indagine imparziale e di perseguire a termini di leggi i poliziotti nel caso in cui le accuse fossero decadute.

Questa mobilitazione in reazione all’arresto e la successiva chiusura del caso rappresenta un evento rilevante per le dinamiche interne russe. In un Paese nel quale molte volte la magistratura risponde a logiche politiche e non imparziali, l’archiviazione del caso e l’inchiesta nei confronti dei poliziotti mostra una maggiore fragilità del sistema di potere del Presidente Putin. Un sistema di potere che, già da tempo, è sotto pressione per le condizioni economiche del Paese.

Sudan: repressione violenta contro disobbedienza civile

Tra l’8 e il 9 giugno, durante i primi giorni di sciopero generale convocati dall’Associazione Sudanese dei Professionisti, a Khartoum e Omdurman quattro uomini sono stati uccisi nel corso degli scontri tra manifestanti e unità delle Rapid Support Forces (RSF), unità dell’élite delle Forze Armate, precedentemente conosciute con il nome di milizie Janjawid. In aggiunta, mentre una alta delegazione istituzionale etiope si recava in Sudan per mediare tra governo e insorti, le RSF arrestavano 3 figure chiave del Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese – Nord (MLPS – Nord), movimento secessionista attivo in Kordofan e Nilo Blu, espellendoli in Sud Sudan.

Questo gesto indica come  il Comitato Militare di Transizione (CMT), giunta militare che ha deposto il Presidente al-Bashir lo scorso aprile, nonostante abbia dichiarato la volontà a proseguire il negoziato con i partiti di opposizione, non intende fare eccessive concessioni.

Il fatto che siano le RSF a controllare la sicurezza di Khartoum e non altre unità delle Forze Armate denota uno spostamento sempre maggiore di equilibri all’interno del CMT a favore di Mohamed Hamdan “Hemeti” Dagolo, vicepresidente del Consiglio di Transizione e comandante dei Janjawid dai tempi del conflitto in Darfur.

A favorire la posizione del CMT concorre anche il rischio di perdita di compattezza del fronte di opposizione. Infatti, le violenze e gli arresti potrebbero portare alla formazione di due correnti: una più aperta al compromesso, l’altra più radicale e, nel caso, disposta ad imbracciare le armi. Per il momento, un primo spiraglio di apertura al negoziato sembra essere giunto dai manifestanti, che hanno dichiarato l’intenzione di nominare 8 membri su 15 del Consiglio di transizione, abbandonando le iniziali pretese di un esecutivo interamente civile.

In conclusione, con una Comunità Internazionale polarizzata e divisa tra i risoluti sostenitori del CMT (Russia, Cina, Arabia Saudita), interessati a tutelare i propri interessi economici, e gli esitanti sostenitori del fronte di opposizione (Stati Uniti, Ue, Unione Africana), preoccupati di un conflitto che possa destabilizzare la regione ed aumentare il flusso migratorio irregolare, la soluzione della crisi sudanese sembra passare inevitabilmente attraverso il negoziato tra gli attori interni. È probabile che se i manifestanti sudanesi dovessero armarsi, il CMT sfrutterebbe la situazione per avviare una repressione ancora più violenta, aumentando i rischi di guerra civile.

Tunisia: rottura all’interno di Nodaa Tounes

A margine di una conferenza stampa tenuta martedì 11 giugno, i leader di una fazione di Nidaa Tounes e gli esponenti di Machrou Tounes hanno ufficialmente annunciato la nascita di una coalizione in vista delle prossime elezioni legislative e presidenziali tunisine previste per il tardo autunno di quest’anno. L’accordo sembra mettere definitivamente fine all’esperienza di Nidaa come principale collettore delle forze laiche e riformiste dopo l’esperienza di governo degli ultimi 5 anni.

L’esecutivo di unità nazionale nato a seguito delle elezioni parlamentari del 2014 è stato finora imperniato sull’asse tra Nidaa e il movimento islamico conservatore Ennahda. Tuttavia, mentre Ennahda è riuscita a mantenersi coesa, l’esperienza di governo ha logorato profondamente Nidaa. Nel 2016, con l’ascesa di Hafedh Essebsi ai vertici del partito, Nidaa ha subito una prima scissione da cui ha avuto origine Machrou Tounes, guidato da Mohsen Marzouk. In seguito, il partito è stato travagliato da ulteriori lotte intestine, provocando uno sfaldamento progressivo di Nidaa. Il Premier Chahed ha creato un nuovo partito, Tahya Tounes, mentre le correnti interne a Nidaa si sono disputate il controllo della formazione politica, arrivando ad organizzare lo scorso aprile un doppio congresso che ha marcato la distanza tra la fazione di Hafedh Essebsi (conosciuta come clan di Monastir) e la fazione di Soufien Toubal (clan di Hammamet). Tutti questi attriti sono sorti in opposizione alla leadership di Essebsi, perché considerata eccessivamente accentratrice ed autoritaria.

Ad oggi, il panorama politico tunisino appare maggiormente frammentato rispetto al 2014, quando vigeva un sostanziale bipolarismo. In questo contesto, la nuova coalizione di Marzouk e Toubal marginalizza ulteriormente la fazione di Essebsi di Nidaa, che rischia a tutti gli effetti di risultare irrilevante nel prossimo parlamento, spianando la strada ad una vit

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