Geopolitical Weekly n.314

Geopolitical Weekly n.314

Di Andrea Posa, Antonio Scaramella e Luca Tarantino
20.12.2018

Corea del Nord

Giovedì 20 dicembre la televisione nordcoreana ha emesso un comunicato con il quale si afferma che, prima di iniziare il processo di denuclearizzazione della Nord Corea, non sarà sufficiente per gli USA rimuovere le sanzioni contro il Paese, ma dovranno anche procedere alla dismissione dell’arsenale nucleare in tutta la penisola e nelle aree limitrofe. L’annuncio segue l’imposizione di nuove sanzioni da parte del Dipartimento del Tesoro statunitense, avvenuta il 19 dicembre, nei confronti di tre alti ufficiali nordcoreani. Il complesso processo di normalizzazione dei rapporti fra i due Paesi, iniziato il giugno scorso con un incontro tra Donald Trump e Kim Jong-un a Singapore con la promessa di denuclearizzare l’intera penisola (anche se senza un piano d’azione concreto), sembra aver incontrato una battuta d’arresto.

La Corea del Nord considera le truppe americane nella penisola, così come l’ombrello nucleare che protegge Corea del Sud e Giappone, come un rischio troppo grande da affrontare senza un deterrente. La dichiarazione arriva in un momento delicato per le relazioni diplomatiche fra gli Stati Uniti e le due Coree e mette in luce delle sostanziali divergenze fra USA e Corea del Nord, ma crea un problema di credibilità sia per il governo di Seul che per quello di Washington.

L’attuale stallo, infatti, sembra essere frutto della vaghezza dell’intesa firmata da Kim Jong-un e Donald Trump a Singapore, dalla quale non era emerso un chiaro accordo né sulla definizione né sulle modalità del processo di denuclearizzazione. Inoltre, è da notare come l’amministrazione USA sembra non seguire una direzione univoca, in quanto se da una parte i collaboratori di Trump sembravano intenzionati ad organizzare un nuovo incontro fra i due all’inizio del 2019, dall’altra il Dipartimento del Tesoro applica nuove sanzioni causando la reazione di Pyongyang. L’annuncio mette in difficoltà anche il Presidente della Corea del Sud Moon Jae-in, che si era infatti molto speso per un alleggerimento delle sanzioni americane, facendosi garante dell’interesse della sua controparte per la denuclearizzazione e incontrando Kim ben tre volte nel corso dell’anno. La distanza delle posizioni al tavolo negoziale non solo potrebbe rallentare il dialogo, ma anche compromettere il processo di distensione delle relazioni sia tra Pyongyang e Washington sia all’interno della Penisola Coreana.

Libia

Giovedì 20 dicembre, il Colonnello Ahmed al-Mismari, portavoce dell’Esercito Nazionale Libico (ENL) guidato dal Generale Khalifa Haftar, ha annunciato l’avvio di un’offensiva presso al-Sadada. La località è situata circa 200 chilometri a sud-est di Tripoli, sede del Governo di Unità Nazionale (GUN) guidato da Fayez al-Sarraj, e a soli 100 da Misurata, roccaforte delle più potenti milizie del Paese.

L’attacco, guidato dalla Brigata Tareq Bin Ziyad con il supporto delle Brigate 115, 116 e 128 dell’ENL, ha l’obiettivo di contrastare le milizie di Ibrahim al-Jadhran, ex capo delle Guardie Petrolifere (GP) della cosiddetta Mezzaluna Petrolifera, zona nell’entroterra del Golfo di Sirte dove sono situati i principali bacini idrocarburici del Paese. Infatti, Jadhran era stato cacciato dalla Mezzaluna a fine 2016 dalle forze di Haftar, ma era riuscito a riorganizzarsi più a sud, in quella zona di contatto tra Tripolitania e Cirenaica non controllata da alcun centro di potere libico. Inoltre, il capo delle GP è riuscito anche a stringere un’alleanza tattica con le Brigate di Difesa di Bengasi, gruppo salafita-jihadista ostile ad Haftar e attivo nella stessa area.

Ciò ha permesso a Jadhran di effettuare diverse incursioni nella Mezzaluna Petrolifera negli ultimi due anni. La più significativa è stata sinora quella del 14 giugno 2018, quando un attacco a Sidra e Ras Lanuf è risultato nella distruzione di buona parte dei siti di stoccaggio di petrolio operativi, causando seri danni alla produzione petrolifera nazionale.

La prossimità di al-Sadada a Tripoli e a Misurata ha portato però immediatamente il GUN a condannare fortemente l’attacco, bollandolo come una provocazione ingiustificata e una violazione dello status quo. Infatti, si tratta dell’offensiva più a ovest mai compiuta da Haftar. Dunque, la crescita della tensione tra Haftar e il GUN rischia di rallentare o, addirittura, congelare il processo diplomatico e di riconciliazione nazionale guidato dall’ONU che, dopo la Conferenza di Palermo di novembre 2018 e la concomitante pubblicazione del nuovo Piano d’Azione del Palazzo di Vetro, sembrava aver trovato un accordo minimo tra le principali fazioni libiche per emendare la Costituzione e tenere elezioni politiche entro giugno 2019.

Marocco

Lunedì 17 dicembre, due turiste europee sono state uccise mentre campeggiavano nella regione marocchina dell’Alto Atlante, nei pressi del paese di Imlil, non lontano da Marrakesh. Le due ragazze, una studente danese di 24 anni e la 28enne amica norvegese, si apprestavano a compiere un’escursione sul monte Toubkal, la cima più alta della catena montuosa e meta turistica molto frequentata. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, le turiste sarebbero state uccise con dei coltelli e decapitate.

La modalità dell’omicidio ha fatto propendere le autorità marocchine per un possibile atto di terrorismo, in quanto il modus operandi appare simile a quello di gruppi terroristici di matrice jihadista. I sospetti sono stati corroborati da alcuni video circolati online nei giorni successivi. In un primo filmato, che riprende la scena dell’omicidio, gli esecutori sostengono di compiere l’azione per vendicare la morte di miliziani di IS in Siria. Un secondo video, apparso il 19 dicembre su Twitter e su alcuni canali Telegram, consiste nel giuramento di fedeltà allo Stato Islamico (IS o Daesh) da parte di 4 giovani marocchini, di cui almeno uno sarebbe coinvolto direttamente nell’omicidio delle turiste.

Le forze di sicurezza del Marocco hanno arrestato in tutto 6 persone con l’accusa di appartenere a una cellula jihadista e aver compiuto o supportato logisticamente l’uccisione delle ragazze scandinave. Tre degli arrestati erano diretti in bus verso Agadir, altra meta turistica molto rinomata, ed erano in possesso di alcuni coltelli a lama lunga.

Se l’autenticità dei video fosse confermata, si tratterebbe del primo attentato di IS in Marocco. Il Regno è rimasto largamente immune dal gruppo di Abu Bakr al-Baghdadi negli ultimi anni, ma le autorità hanno smantellato almeno 50 cellule terroristiche attive nel Paese dal 2015. Già colpito in passato da al-Qaeda con gli attentati di Casablanca (2003 e 2007) e Marrakesh (2011), il Marocco resta particolarmente esposto alla minaccia jihadista a causa degli oltre 1.600 foreign fighters partiti negli ultimi anni, di cui almeno 240 avrebbero già fatto ritorno nel Paese. In ragione del basso livello di sofisticazione dell’attentato del 17, la cellula potrebbe essere composta principalmente da terroristi autoctoni, che hanno agito su innesco di alcuni combattenti di ritorno dai teatri del jihad in Siria e Iraq, oppure su semplice ispirazione della propaganda online di Daesh.

Siria

Mercoledì 19 dicembre, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato il ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria. La motivazione, stando alle parole di Trump, sarebbe la vittoria nella guerra contro lo Stato Islamico (IS o Daesh), che tuttavia continua ad avere una presenza territoriale presso Hajjin, a cavallo del confine siro-iracheno. Anche il Pentagono ha confermato il piano di rientro dei circa 2000 militari, annunciando tempistiche piuttosto brevi, tra i 60 ed i 100 giorni.

Non è la prima volta che il Presidente statunitense annuncia il ritiro del contingente militare USA dal territorio siriano. Infatti, la medesima decisione era stata presa già a febbraio 2018. Allora, però, il progetto restò sostanzialmente congelato, finché nell’estate venne definitivamente accantonato con l’annuncio della nuova strategia USA per la Siria. Questa, imperniata sul mantenimento della presenza militare in Siria, prevedeva tre punti fondamentali. Innanzitutto, la prosecuzione della guerra all’IS, a cui si aggiunge il contrasto all’Iran e alle milizie sciite guidate da Teheran. Infine, ribaltando la posizione precedente, la strategia accantona l’obiettivo di un cambio di regime a Damasco, puntando invece ad esercitare pressioni sul Governo di Bashar al-Assad e sui suoi sponsor regionali, in particolare la Russia, anche attraverso la presenza militare USA nel Paese, affinché venga avviato un processo di riforme politiche che assicurino garanzie alle opposizioni siriane.

Dunque, l’eventuale ritiro americano configurerebbe un importante cambio di scenario in Siria. Innanzitutto, nonostante le sconfitte e l’isolamento subiti dai miliziani di Daesh, soprattutto grazie all’apporto militare degli USA, il gruppo jihadista mantiene ancora un radicamento territoriale che può agevolare una riorganizzazione dell’IS nel Paese. Inoltre, verrebbe fortemente limitato il ventaglio di opzioni per contrastare Teheran, poiché la presenza militare americana nelle regioni ad est dell’Eufrate è finalizzata a ostacolare il funzionamento del “corridoio sciita” che collega l’Iran ai libanesi di Hezbollah tramite Iraq e Siria. Infine, un effettivo ritiro americano dal territorio siriano depotenzierebbe di molto la capacità degli USA di fare pressioni su Damasco e sulla Russia, preludendo quindi a una diminuzione dell’importanza di Washington nella gestione diplomatica della crisi siriana.

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