La “covert war” tra Israele e Iran
Medio Oriente e Nord Africa

La “covert war” tra Israele e Iran

Di Andrea Mottola
31.05.2012

Mostafa Ahmadi Roshan, un ingegnere chimico responsabile del procurement presso l’impianto di arricchimento dell’uranio di Natanz, ucciso da un’auto-bomba all’inizio dell’anno, è stato il quarto scienziato iraniano assassinato negli ultimi due anni. La sua morte è avvenuta dopo che, nelle settimane precedenti, si erano verificate diverse esplosioni presso impianti nucleari e siti militari iraniani.

Inoltre, poco prima dell’assassinio, un tribunale iraniano aveva condannato a morte un ex marine americano accusato di spionaggio per conto della CIA. Questi eventi sembrerebbero inaugurare un nuovo capitolo nella “covert war” in atto tra l’Iran e i servizi d’intelligence occidentali, in particolare il Mossad israeliano. Vale la pena ricordarne le tappe fondamentali:

- diversi attacchi della Quds Force iraniana ai danni delle truppe USA in Iraq e Afghanistan;

- un tentativo da parte di membri della Quds Force di assumere paramilitari dal cartello della droga messicano dei Los Zetas per progettare un attentato contro l’ambasciatore saudita a Washington;

- manipolazione e sabotaggio, da parte statunitense, di materiali acquisiti dall’Iran, propedeutici allo sviluppo del suo programma nucleare;

- la distruzione di centrifughe nucleari iraniane ad opera del virus informatico Stuxnet;

- un tasso insolitamente elevato di esplosioni presso strutture chiave in Iran: l’esplosione nei pressi di alcuni impianti nucleari ad Isfahan dello scorso novembre e quelle avvenute alla base e centro di sviluppo missilistico di Khorramabad (geograficamente il punto più vicino dell’Iran a Israele), e nei pressi di diverse raffinerie e gasdotti;

- frequenti sorvoli di droni americani sugli impianti nucleari iraniani e l’abbattimento di due di essi, prima della recente cattura, da parte di Teheran, di un drone stealth di ultima generazione RQ-170 Sentinel;

- la scoperta di una rete di spie iraniane e libanesi, coinvolte probabilmente nella penetrazione della rete informatica di comunicazioni criptate della CIA;

- l’assassinio di tecnici nucleari iraniani, probabilmente ad opera di agenti dell’intelligence israeliana;

- l’introduzione di squadre di ricognizione USA in Iran, nonché la presenza della sviluppata rete di intelligence del Mossad e della sua “strike force” d’élite, la Sayeret Matkal, all’interno di Iran e Libano.

È difficile considerare che tutti questi eventi non abbiano alcun tipo di connessione. Presi nel loro insieme, indicano che i servizi di intelligence occidentali hanno intrapreso una campagna volta ad interrompere il controverso programma nucleare iraniano, considerando tale opzione un’alternativa maggiormente percorribile rispetto ad un’operazione militare su vasta scala. Nessuno ha rivendicato la responsabilità di tali operazioni, ma Israele è ritenuto il principale sospettato, non solo perché non ha mai negato il proprio coinvolgimento, ma anche a causa del suo curriculum di operazioni covert. L’Iran, dal canto suo, ha immediatamente puntato il dito proprio contro Israele e Stati Uniti.

Inoltre, le manifestazioni presso l’ambasciata britannica a Teheran dello scorso novembre, durante le quali i manifestanti mostrarono immagini di alcuni degli scienziati assassinati, dimostrerebbero che l’Iran vede un coinvolgimento anche della Gran Bretagna. E forse non ha tutti i torti. Qualche tempo fa, infatti, Sir John Sawers, il capo del MI6, si era espresso in favore di “covert actions” per distruggere, o quantomeno rallentare, il programma nucleare iraniano. Le opinioni di Sawers sono state sostenute anche dal ministro della difesa israeliano, Ehud Barak, il quale ha recentemente affermato che “qualsiasi ritardo al programma nucleare iraniano sarà benvenuto, qualunque ne sia la causa".

Come detto, i sostenitori di tali covert actions (tra i quali l’ex capo del Mossad, Dagan) le vedono come un’alternativa ad un attacco aereo o ad una guerra convenzionale, considerandole maggiormente percorribili, dal momento che implicano costi e rischi decisamente inferiori rispetto ad un’operazione militare su larga scala e che in tal modo si può evitare uno scontro aperto con gli alleati di Teheran in seno al Consiglio di Sicurezza ONU, vedi Russia e Cina. Tuttavia, tali azioni potrebbero pregiudicare qualsiasi possibilità di dialogo con Teheran, spingendola verso una maggior intraprendenza nello sviluppo di un programma nucleare autoctono e, soprattutto, incoraggiandola a reagire con proprie covert actions. Gli attentati avvenuti in Asia all’inizio dell’anno sembrerebbero avvalorare tale ipotesi.

Il 13 febbraio, infatti, la polizia georgiana ha disinnescato un ordigno esplosivo collocato sotto un veicolo dell’ambasciata israeliana a Tbilisi. Quasi contemporaneamente, a Nuova Delhi è esplosa una bomba collegata ad un veicolo che trasportava un impiegato dell’ambasciata israeliana. Il fatto che le esplosioni si sarebbero dovute verificare a pochi minuti di distanza l’una dall’altra e che entrambe fossero mirate a colpire dipendenti delle ambasciate israeliane, fa pensare ad un qualche tipo di coordinamento. Gli attentati, peraltro, sono avvenuti a distanza di 4 anni dalla morte del capo delle operazioni di Hezbollah, Imad Mughniyah, ucciso da un’autobomba a Damasco nel 2008. Dall’uccisione di Mughniyah, Hezbollah promise di ottenere vendetta per la sua morte, attuando diversi tentativi, poi sventati, per raggiungere tale scopo.

Ciò ha portato molti a pensare che dietro questi attacchi ci siano proprio l’Iran ed Hezbollah. Altri mettono in dubbio tale valutazione, in primis molti analisti indiani che fanno notare quanto sia importante per Teheran il mantenimento di buoni rapporti con Nuova Delhi, soprattutto alla luce dell’opposizione indiana alle sanzioni finanziarie imposte all’Iran da gran parte della comunità internazionale. Inoltre, sembra improbabile che Iran o Hezbollah avessero sufficienti risorse in India per coadiuvare un’operazione simile, anche se non si può escludere la possibilità che la pianificazione e l’esecuzione dell’attentato siano state “appaltate” agli Indian Mujahideen (IM), un gruppo terroristico locale. Per Hezbollah e l’Iran, tuttavia, il rappresentante israeliano a Nuova Delhi rappresentava un bersaglio molto attraente, dati i sempre più stretti legami militari esistenti tra Israele e India.

Dal 1991, infatti, Israele ha venduto all’India armi per il valore di circa 9 miliardi di dollari; quello indiano è il più grande mercato di esportazione israeliano nel settore della difesa e ciò ha portato Israele ad essere il suo secondo maggior fornitore dopo la Russia. Non va dimenticato, inoltre, che Israele ha lanciato i propri satelliti spia su vettori indiani, satelliti utilizzati, peraltro, per la raccolta IMINT degli impianti nucleari iraniani. Si può dire, quindi, che tali attentati siano stati qualcosa in più di un’operazione di vendetta per Mughniyah. Teheran, di fatto, accusa Israele per la serie di attentati ai propri scienziati nucleari e per diverse esplosioni e attacchi informatici che hanno colpito la sua infrastruttura nucleare negli ultimi due anni. Per raggiungere quest’obiettivo, sembrerebbe che il Mossad si sia servito di un gruppo di dissidenti iraniani, i Mujahedin-e Khalq, e di diversi gruppi curdi e baluci. Inoltre, i leader israeliani non hanno mai nascosto l’intenzione di ricorrere al sabotaggio per provare ad eliminare il programma nucleare iraniano. Infine, Israele raramente si è tirato indietro quando si è trattato di scavalcare i confini geografici per perseguire i propri interessi e non sarebbe la prima volta che utilizza operazioni “covert” per eliminare i propri nemici o sabotarne i programmi d’armamento.

Il primo ministro israeliano Netanyahu ha immediatamente attribuito la responsabilità degli attentati di Nuova Delhi e Tbilisi all’Iran e ad Hezbollah. Netanyahu ha collegato il duo sciita anche ad un episodio avvenuto a metà gennaio in Azerbaigian, quando il governo locale aveva arrestato due cittadini azeri e un iraniano di discendenza azera, accusati di progettare l’assassinio dell’ambasciatore israeliano a Baku e di un rabbino della scuola ebraica della capitale azera. Secondo le accuse, l’intelligence iraniana (Oghab 2) aveva offerto agli uomini 100.000€ per il completamento dell’operazione. In risposta a tali arresti, il ministro degli esteri iraniano aveva convocato l’ambasciatore azero a Teheran per protestare, anche contro la presunta protezione fornita da Baku per l’addestramento, su suolo azero, di alcuni agenti israeliani che l’Iran afferma essere coinvolti nell’assassinio dei propri tecnici nucleari.

Pur respingendo categoricamente le accuse di Israele, Teheran in passato è stata coinvolta in diversi attentati e complotti in terra straniera. E’ vero che Israele non ha elementi certi per provare un coinvolgimento iraniano in questa serie di attentati. Tuttavia, è innegabile che, in base alla convinzione che ci sia una regia israeliana dietro agli omicidi dei propri scienziati, Teheran abbia un ulteriore motivo per colpire Israele. L’Iran, inoltre, ha subìto un numero di perdite significative negli ultimi anni e i suoi servizi di intelligence, Vevak e Oghab 2, non sono stati in grado di evitare l’uccisione di ben 4 dei propri tecnici nucleari negli ultimi 2 anni, o di proteggere Imad Mughniyah, fedele alleato iraniano. In breve, le sua capacità sono apparse di gran lunga inferiori rispetto a quelle della controparte israeliana. Data questa mancanza di successi, sembra altamente probabile che tali attentati fossero un modo di Teheran per riaffermare sé stessa e dimostrare di essere in grado di rispondere adeguatamente.

Gli sviluppi che possono scaturire da questi attentati sono molteplici. In primis, va detto che una violenta rappresaglia da parte israeliana in Libano o in Iran, in piena crisi siriana e con la potenziale caduta di Assad, è altamente improbabile. Inoltre, i recenti sviluppi nella politica interna israeliana, con la formazione di una nuova coalizione di governo composta da Netanyahu e Mofaz, nuovo leader del principale partito d’opposizione (Kadima), potrebbero avere ripercussioni anche sulle scelte in politica estera, ex-Palestina. Neanche Teheran intende destabilizzare ulteriormente l’area, dato che il suo principale alleato nella regione, Assad, comincia a vacillare. Le prospettive per una guerra sono, quindi, scarse e l’accesa retorica non si tradurrà necessariamente in un’ulteriore destabilizzazione regionale.

Di gran lunga più probabile è un aumento dello scontro ad un livello inferiore, sotto forma di “covert actions”, dato che né Israele né l’Iran sembrano pronti a fare un passo indietro, nonostante le pressioni in tal senso da parte della comunità internazionale. Le finalità strategiche generali dei due paesi restano le stesse. Israele insisterà con operazioni volte ad interrompere/ostacolare lo sviluppo del programma nucleare iraniano, proseguendo la sua politica di uccisioni mirate e sabotaggi, anche attraverso l’utilizzo di “armi” informatiche (Stuxnet). L’Iran, dal canto suo, continuerà la politica di sostegno alle sue proxy regionali, Hamas ed Hezbollah, predisponendole e preparandole per una conflagrazione più ampia, ma non necessariamente incoraggiandole a colpire Israele in un prossimo futuro, o mentre Assad lotta per restare al potere. Sia Hamas che Hezbollah, infatti, sono attualmente interessate da problemi politici interni ed è difficile che, nel breve termine, siano suscettibili ad un incoraggiamento iraniano. Non è certamente una posizione invidiabile quella in cui si trova Teheran che, nella sua ricerca di una maggior popolarità e influenza regionale, non potrà più fare affidamento su quelli che un tempo erano i suoi alleati nel mondo arabo, ora estremamente critici riguardo all’ostinato sostegno che l’Iran fornisce al regime di Assad in Siria. Di fatto, la maggior parte degli stati arabi non vede nelle provocazioni di Israele un motivo sufficiente ad eliminare le preoccupazioni sulla continua ambiguità che Teheran mantiene riguardo alla dimensione militare del proprio programma nucleare e sulla percezione che l’Iran stia fomentando conflitti settari in tutta la regione, favorendo gli sciiti in Siria, Libano, Iraq e Bahrain. Il risultato è che l’Iran è stato lasciato a combattere Israele da solo, senza alcun sostegno degli stati arabi. Certo, anche per Israele sta diventando una battaglia difficile.

Le uccisioni mirate di scienziati iraniani e i tentativi di sabotaggio indeboliscono enormemente la sua posizione a livello internazionale. Inoltre, difficilmente porranno fine in modo definitivo al programma iraniano e, anzi, rischiano di incrementare le probabilità di una escalation in grado di creare un “casus belli” per una vera e propria guerra totale, il che è “ironico” considerando che queste azioni vengono spesso utilizzate proprio per evitare l’esplosione di un conflitto di maggiori proporzioni.

Nell’attesa che i negoziati sul nucleare aprano uno spiraglio sulle possibilità di giungere ad un compromesso riguardo alla questione nucleare iraniana, è verosimile che queste operazioni covert proseguiranno. Resta da vedere quanto a lungo potranno essere efficaci e per quanto tempo può essere sostenuta una tale strategia, tenuto conto anche del pericolo insito in queste “covert war”, vale a dire la loro facilità nel finire fuori controllo.

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