Geopolitical Weekly n. 281

Geopolitical Weekly n. 281

Di Lorenzo Nardi
22.02.2018

Israele

Il 19 febbraio scorso, Tel Aviv ed il Cairo hanno annunciato un accordo riguardo l’esportazione di gas israeliano verso l’Egitto. La compagnia israeliana Delek Drilling ed il suo partner americano Noble Energy provvederanno all’esportazione di gas nei confronti dell’azienda egiziana Dolphins Holdings. In base all’intesa raggiunta, l’Egitto riceverà circa 64 miliardi di metri cubi di gas naturale nell’arco di dieci anni, per un valore totale intorno ai 15 miliardi di dollari. Inizialmente, il gas proverrà dal giacimento Tamar, attivo già dal 2013, mentre in futuro potrebbe essere sfruttato anche il bacino idrocarburico Leviathan (la cui entrata in produzione è prevista per il 2019). L’esportazione di gas dovrebbe iniziare nel 2020-2021, ma non è ancora chiaro quali infrastrutture saranno utilizzate.

Oltre agli evidenti vantaggi economici che deriverebbero dall’accordo, con questa intesa  Israele punta a rafforzare i legami politici con l’Egitto, in particolare per quanto riguarda le comuni minacce alla sicurezza. Infatti, su questo dossier, Tel Aviv e Il Cairo hanno avviato una stretta cooperazione (benché mai ufficializzata) già all’indomani dell’estromissione dell’ex Presidente egiziano Mohamed Morsi nel 2013, sia riguardo all’espandersi della minaccia jihadista dello Stato Islamico nella penisola del Sinai, sia relativamente alla Striscia di Gaza.

L’accordo con Israele è stato siglato nonostante l’Egitto possa contare sul bacino gasiero super-giant di Zohr (stimato in 850 miliardi di metri cubi), entrato in produzione lo scorso dicembre, che potrebbe avvicinare il Paese all’autosufficienza energetica. D’altronde, l’apporto del gas israeliano potrebbe permettere al Cairo di candidarsi come possibile hub energetico nel Mediterraneo Orientale. In più, l’eccedenza di gas potrebbe permettere alle autorità egiziane di destinarne parte al consumo interno, corrispondendo a una domanda energetica in forte crescita, e parte all’export per attrarre valuta pregiata.

Libia

Lo scorso 16 febbraio, il leader delle Forze speciali al-Saiqa Col. Wanis Bukhamada è stato sollevato dal comando della Joint Security Force Operation Room di Bengasi, la struttura centralizzata cui è deputata la sicurezza della città libica. Figura estremamente popolare all’interno del composito e eterogeneo Esercito Nazionale Libico (ENL) del Generale Khalifa Haftar, Bukhamada aveva guidato fin dal 2014 l’offensiva contro i gruppi salafiti e jihadisti nella città della Cirenaica nell’ambito dell’Operazione Dignità. Al suo posto, Haftar ha nominato il suo fedelissimo Abdul Razzaq Al-Nadhuri, Capo di Stato Maggiore dell’ELN e governatore militare dell’est del Paese.

L’estromissione di Bukhamada mette in luce le crescenti difficoltà di Haftar nel garantire la sicurezza a Bengasi e nel tenere insieme le diverse anime del suo ENL. Infatti, la decisione è arrivata dopo i due attentati contro altrettante moschee della città (23 gennaio e 9 febbraio), con i quali i network salafiti-jihadisti di Bengasi, riconducibili ad Ansar al-Sharia, hanno dimostrato di essere ancora vitali dopo anni di scontri con le forze di Haftar. Inoltre, all’inizio di febbraio le stesse al-Saiqa avevano manifestato l’esistenza di spaccature sempre più profonde al loro interno. L’arresto di Mahmoud Warfalli, ufficiale delle Saiqa ricercato dalla Corte Penale Internazionale per presuti crimini di guerra, per mano della Brigata 106 guidata dal figlio di Haftar, Khalid, e avallato da Bukhamada, aveva scatenato diffuse proteste da parte dei miliziani sostenitori di Warfalli, poi rilasciato. L’allontanamento di Bukhamada, quindi, potrebbe rappresentare un tentativo, da parte di Haftar, di evitare che gli attriti tra le componenti dell’ENL si approfondiscano e diventino ingestibili, a Bengasi come in altre aree della Cirenaica.

Myanmar

Mercoledì 21 febbraio una bomba è esplosa nella città di Lashio, capoluogo dell’omonimo distretto situato a nord-est dello Stato orientale di Shan. L’esplosione, che è avvenuta in una delle zone centrali della città, nei pressi delle sedi di due istituti bancari e del Ministero della salute, ha causato due vittime e il ferimento di 22 persone. Lo Stato di Shan è già stato interessato in passato da attacchi dinamitardi a causa della presenza dell’insorgenza etnica armata in lotta con le autorità di Nay Pyi Taw, per il controllo del territorio e delle rotte dei traffici illeciti al confine con la Cina. In particolare, l’area è teatro di operazione della così detta Alleanza del Nord, la coalizione militare composta da quattro gruppi militanti: l’Arakan Army, il Kachin Independence Army, il Myanmar National Democratic Alliance Army e il Ta’ang National Liberation Army. L’Alleanza è stata responsabile di una serie di violenti scontri con le Forze Armate del Myanmar (Tatmadaw) nei primi mesi del 2017, che hanno interessato diverse città nei distretti settentrionali dello Stato di Shan e la principale arteria autostradale della zona che collega la città di Mandaly con la frontiera cinese.

Benchè l’esplosione di Lashio non sia ancora stata rivendicata, dunque, non è da escludere che possa essere ricondotto all’insorgenza armata dell’Alleanza. Se ne fosse confermata la matrice,  l’attacco potrebbe rispondere alla volontà di lanciare un chiaro segnale di forza da parte dell’Alleanza, in un momento in cui il governo sta cercando di organizzare il terzo round del processo di riconciliazione (conosciuto con il nome di Union Peace Conference - 21st Century Panglong). Il gruppo, infatti, si è fino ad ora rifiutato di prendere parte al dialogo a causa dell’insoddisfazione delle condizioni di negoziato e la sua assenza ha inevitabilmente avuto un impatto negativo sull’efficacia del processo per la stabilizzazione interna.

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