La vittoria elettorale di Shinzo Abe e la sfida della riforma costituzionale
Asia e Pacifico

La vittoria elettorale di Shinzo Abe e la sfida della riforma costituzionale

Di Paolo Crippa
06.12.2017

Lo scorso 31 ottobre si sono tenute in Giappone le elezioni per nominare i membri della Camera dei Rappresentanti ( ShÅ«giin). La coalizione guidata dal Premier Shinzo Abe, con 313 seggi su un totale di 465, ha conquistato i due terzi della camera. L’affluenza è stata straordinariamente bassa, segnando il record negativo dal dopoguerra ad oggi. All’interno della coalizione vittoriosa, il Partito Liberaldemocratico (LDP) di Abe ha ottenuto il 48.21%, per un totale di 284 seggi, mentre il principale alleato, il partito conservatore di ispirazione buddista Komeito ha eletto 29 deputati.

Nonostante il rinnovo dei rappresentanti fosse previsto per il 2018, Abe ha voluto sciogliere anticipatamente la camera ed indire nuove elezioni per perseguire una precisa strategia politica. Obiettivo del Primo Ministro era infatti rafforzare il proprio mandato per imprimere un’ulteriore accelerazione alle riforme economiche, nonché dare il via al lungo percorso parlamentare necessario per emendare l’articolo 9 della costituzione.

Per fare ciò il Premier ha sapientemente sfruttato un momento di grande debolezza per i partiti di opposizione, colpiti da profonde divisioni interne e da una crisi di immagine generale. La principale forza d’opposizione, il Partito Democratico Costituzionale (CDP), guidato da Yukio Edano, ha ottenuto solamente l’8.75% dei consensi, una pesantissima sconfitta per la nuova piattaforma di centro-sinistra.

Grande sorpresa di questa tornata elettorale è stato il neo-nato Partito della Speranza (Kibo no To), afferente all’area conservatrice e guidato dalla governatrice di Tokyo Yuriko Koike, che si attesta al 20.6%. Questa formazione politica, che nei primi sondaggi era data a testa a testa con il LDP, è stata in seguito penalizzata da un sostanziale appiattimento della sua proposta politica, ritenuta troppo simile a quella dei Liberaldemocratici.

Abe, al suo quarto esecutivo, si conferma il leader giapponese più longevo di sempre, avendo governato dal 2005 al 2007 e ininterrottamente dal 2012 ad oggi. Fattori premianti in queste elezioni sono stati per il Premier i discreti risultati ottenuti negli ultimi due anni con il pacchetto di politiche economiche conosciuto con il nome di “Abenomics”, che hanno mantenuto la crescita del PIL stabile intorno all’1% e la volontà, condivisa da un numero sempre più elevato di cittadini, di dotare il Giappone di un esercito regolare. In questo senso, l’atteggiamento intransigente nei confronti del regime di Pyongyang ha influenzato positivamente l’indice di gradimento del Primo Ministro che, da un iniziale 38% è salito al 51% poco prima delle elezioni.

Sul piano delle riforme economiche le principali sfide per il leader giapponese si concentrano attorno a due problematiche che affliggono il Paese da decenni: l’enorme debito pubblico e il costante calo demografico. Shinzo Abe ha dichiarato che non intende posticipare la preannunciata riforma fiscale volta ad aggredire gradualmente il debito, che ad oggi ha raggiunto il 249% del PIL. Si inizierà con un aumento della tassazione diretta sui consumi dall’8 al 10% entro il 2019, che restituirà alle casse dello Stato 5.6 trilioni di Yen (4.6 miliardi di dollari) da destinare ad investimenti per la produttività, e con una leggera riforma correttiva del sistema pensionistico. Abe ha inoltre annunciato la volontà, da parte del proprio govenro, di non abbandonare le politiche monetarie espansive che hanno da sempre caratterizzato l’Abenomics, preservando in primis i tassi d’interesse negativi volti a disincentivare il risparmio privato. I mercati hanno reagito positivamente alla riconferma del Premier, premiando la linea di continuità sulla politca economica e rinnovando la fiducia nella solidità del Paese, che continua ad essere la terza economia al mondo, nonché uno dei principali hub globali per l’innovazione tecnologica.

Tuttavia, il nodo centrale di queste elezioni è sicuramente stato il dibattito sull’emendamento dell’articolo 9 della costituzione, che impedisce al Paese di dotarsi di Forze militari di offesa, rendendo di fatto il Giappone un “Heiwa Kokka”, uno Stato di pace. Nonostante dal 1954 il Paese possieda solamente un esercito di auto-difesa, il Japan Self-Defence Force (JSDF), le variazioni nell’interpretazione dottrinale proposte dai governi che si sono susseguiti negli ultimi decenni hanno consentito ai giapponesi di intervenire in diversi scenari internazionali, senza potere però utilizzare armi per scopi offensivi. Nel 1992 infatti, la Dieta nazionale ha approvato una Legge per la Cooperazione con le Nazioni Unite per il Mantenimento della Pace, che ha permesso alle JSDF di partecipare a operazioni umanitarie, mediche, logistiche o di assistenza ai rifugiati. Il primo banco di prova fu nel 1993 il Mozambico, dove 53 soldati furono impiegati in operazioni di peacekeeping. La prima operazione all’infuori dei trattati ONU si è svolta invece nel 2004 in Iraq, durante l’amministrazione Koizumi, sempre in funzione di corpo di pace. Nonostante l’intervento delle JSDF abbia sempre sollevato enormi dibattiti e l’antimilitarismo sia ancora profondamente radicato all’interno dell’opionione pubblica, la recente assertività della Cina, nonché i test missilistici nord-coreani che hanno sorvolato l’arcipelago, hanno reso necessaria agli occhi dell’opinione pubblica una ridiscussione di questo pilastro dell’identità giapponese.

Negli ultimi quindici anni numerosi sono stati i tentativi di avviare il percorso istituzionale per emendare l’articolo 9. Nel 2005 fu il Premier Koizumi, grande alleato del Presidente George W. Bush e leader del LDP, a instaurare per la prima volta un dibattito organico sulla questione. Nel 2007 Abe, che si è sempre presentato come un candidato fortemente critico nei confronti della costituzione “pacifista” del ’47, ha ereditato la discussione, salvo poi desistere dalla propaganda politica in seguito a numerose manifestazioni scoppiate in tutto il paese nel maggio 2007, in occasione del 60esimo anniversario della costituzione. Nel 2012 il Partito Liberaldemocratico guidato ancora una volta da Abe aveva divulgato un’ennesima proposta di riforma costituzionale, distribuendo tra l’elettorato un volantino informativo. Il progetto, giudicato troppo radicale dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, era stato in seguito utilizzato come punto di partenza per un’ulteriore tentativo di emendamento nel 2016, anch’esso naufragato.

Questa volta, cavalcando la retorica del “diritto ad essere un Paese normale” e sfruttando il clima di paura diffuso tra l’elettorato, il Primo Ministro è riuscito a guadagnare i seggi della camera bassa necessari per dare via alle consultazioni preliminari. Tuttavia, l’iter costituzionale richiede una maggioranza di due terzi anche alla camera alta (Sangiin). In questa circostanza il Premier probabilmente non riuscirà ad avere i numeri necessari facendo affidamento sui soli componenti della coalizione di governo. Il Komeito, unica forza alleata al LDP, è infatti storicamente arroccato su posizioni pacifiste, eco del retaggio culturale buddista che anima l’identità del partito. Abe dovrà dunque rivolgersi alla leader del Partito della Speranza Yuriko Koike, che in campagna elettorale si era detta favorevole all’emendamento. Qualora il fronte revisionista riuscisse ad ottenere l’approvazione dell’intera Dieta giapponese, l’ultima istanza andrebbe al popolo, chiamato ad un referendum con maggioranza semplice. Storicamente, l’elettorato giapponese è spaccato a metà sulla questione. Tuttavia, a seguito delle continue minacce di Pyongynag e di un sostanziale miglioramento dell’opinione pubblica riguardo l’esercito dopo gli interventi umanitari nel post-terremoto del 2011, non è da escludere il consolidamento di una timida maggioranza.

Qualora Abe riuscisse nel suo intento, il Giappone si troverebbe una forza militare già pronta e ben equipaggiata. Nonostante sia impossibilitato ad intervenire direttamente in scenari di guerra, il Giappone possiede infatti una delle armate più tecnologicamente avanzate al mondo, che può contare su 247.000 uomini e circa 7.000 riservisti. Ad oggi Tokyo destina circa l’1% del PIL alla difesa, una cifra sostanziale, se si considera che il Paese ha un PIL equivalente a circa la metà di quello cinese, ma con un decimo dei suoi abitanti. Tuttavia il budget è destinato a lievitare. Infatti nei mesi scorsi il governo, sempre in luce delle crescenti minacce presenti nel Mar Cinese Orientale (Cina e Corea del Nord), ha annunciato la volontà di aumentare il budget della difesa del 2.5%, destinando questo incremento prevalentemente al settore della marina militare.

Il voto del 31 ottobre consegna un Paese sempre più compatto attorno alle posizioni di Abe, dopo una campagna elettorale in cui l’elemento paura ha giocato un ruolo davvero preponderante. Un eventuale ripensamento del ruolo delle Forze giapponesi, tuttavia, potrebbe ulteriormente complicare i già precari e delicati equilibri nel Pacifico. In primis  la presenza di un Giappone militarmente più presente all’interno di acque contese come il Mar Cinese Orientale ed eventualmente il Mar Cinese Meridionale, non farebbe che acuire le tensioni con la Cina, al centro di delicate dispute territoriali sia con Tokyo (su tutte quella riguardante il gruppo di isole Senkaku-Diaoyu) sia con gli attori rivieraschi più a sud, soprattutto il Vietnam e l’Indonesia che potrebbero iniziare a guardare al Giappone come alleato su cui contare per portare avanti la campagna di libertà di navigazione in queste acque. Dal canto suo, anche la Corea del Sud si è espressa con preoccupazione riguardo ad un eventuale irrobustimento militare del Giappone, con il quale Seoul intrattiene ancora una complicata relazione.

Tuttavia, un Giappone più conservatore, con una crescente fetta di opionione pubblica disposta ad appoggiare una deciso ripensamento delle proprie Forze Armate significa non soltanto un nuovo elemento di preoccupazioni per gli altri attori regionali ma innanzitutto un alleato più solido per la Casa Bianca.

Nella sua visita istituzionale avvenuta in data 6 novembre, il Presidente americano Donald Trump ha ribadito la sua profonda sintonia con il Primo Ministro giapponese, con il quale condivide una linea intransigente nei confronti del regime di Kim Jong Un, nonchè la necessità di costruire un fronte Indo-Pacifico (India, Giappone, Corea del Sud e Australia) per contenere l’espansionismo cinese. In un momento in cui il governo di Pechino sembra sempre più intenzionato ad aumentare la propria capacità proiezione di potenza ben al di là dei propri confini naturali, una maggior assertività in ambito militare consentirebbe al Giappone non solo di ribadire il proprio status di alleato di riferimento per Washinton nella regione ma soprattutto di cercare di incrementare il proprio ruolo all’interno di un’area strategica come il Pacifico, nel quale inziaire ad implementare una strategia più autonoma per la tutela dei propri interessi nazionali.

Articoli simili