Geopolitical Weekly n. 275

Geopolitical Weekly n. 275

Di Matteo Ritucci
09.11.2017

Arabia Saudita

Sotto decreto reale, sabato 4 novembre in Arabia Saudita è stata istituita una commissione anti-corruzione presieduta dal principe ereditario Mohammad bin Salman. Il giorno stesso la commissione ha emesso un mandato di cattura e proceduto all’arresto di circa 30 tra esponenti della famiglia reale e alcuni dei più facoltosi uomini d’affari del Regno. Tra questi, il principe Waleed bin Talal, uomo d’affari con un capitale di circa 30 milioni di dollari e partecipazioni in società occidentali; Miteb bin Abdullah, figlio dell’ex Re Abdullah e ministro della Guardia Nazionale saudita, in passato indicato come possibile erede al Trono; il miliardario Bakr bin Laden, capo del Bin Laden Group, una delle maggiori multinazionali del mondo arabo.

Al di là delle accuse presentate, gli arresti rappresentano la continuazione di un’opera di riorganizzazione interna al Regno promossa da bin Salman. Lo scorso giugno, ribaltando l’ordine di successione al Trono, Re Salman aveva nominato suo figlio Mohammad come diretto erede, estromettendo Mohammad bin Nayef. A settembre erano invece avvenuti diversi arresti tra membri di spicco del clero wahabita, come Salman al-Ouda e Awad al-Qarni, protagonisti negli anni ’90 del Movimento del Risveglio, che aveva rappresentato uno dei movimenti di critica ai Saud più importanti e strutturati.

In questo modo, bin Salman sta preparando la sua ascesa al Trono su diversi piani. Infatti, il Principe è riuscito a estromettere gran parte di quei potenziali avversari che avrebbero potuto promuovere un fronte di opposizione a bin Salman interno della famiglia reale, minacciare la tenuta del patto tra i Saud e il clero wahabita su cui si regge tradizionalmente la monarchia, ostacolare in ambito economico l’ambiziosa agenda di riforme per il Paese di bin Salman, o ancora minacciare il suo futuro ai vertici del Regno grazie al controllo delle forze di sicurezza interne.

Cina

Lo scorso 8 novembre, il Presidente cinese Xi Jinping ha ricevuto a Pechino il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Terza tappa del viaggio istituzionale in Asia Orientale del leader statunitense, che nei giorni precedenti aveva visitato Giappone e Corea del Sud, la visita è stata la seconda occasione di incontro ufficiale tra i due Capi di Stato e ha messo in evidenza una rinnovata intesa tra le due potenze globali.

I temi cardine degli incontri, infatti, sono stati argomenti di importanza strategica per i due governi sia nell’ambito delle relazioni bilaterali sia nel più ampio contesto degli equilibri regionali: la questione nordcoreana e il ripensamento dei rapporti economici tra i due sistemi Paese.

Per quanto riguarda la minaccia nucleare di Pyongyang, il bilaterale Pechino-Washington sembra aver raffreddato quell’escalation di tensioni che aveva portato la Casa Bianca nelle settimane precedenti ad accelerare sull’opzione militare contro la Corea del Nord. Nonostante Trump abbia esortato la Cina a intervenire con più decisione nel supportare le sanzioni internazionali e ad interrompere di conseguenza qualsiasi relazione economica con il problematico vicino, Trump e Xi sembrano aver ritrovato un’intesa sulla possibilità di non escludere un contatto diplomatico con il governo nordcoreano come tentativo di risolvere la crisi in corso.

Per quanto concerne gli scambi commerciali, la rinnovata intesa tra i due leader sembra aver aperto la porta ad un rafforzamento dei rapporti economici tra i due Paesi. Durante la visita della delegazione americana, infatti, sono stati siglati accordi commerciali per il valore di 9 miliardi di dollari, più una serie di memorandum d’intesa (la cui effettiva implementazione non è ancora certa) il cui valore è stimato intorno ai 250 miliardi di dollari. Tra questi, di particolare rilevanza è il progetto congiunto tra l’Alaska Gasoline Development Corp. e Sinopec, Bank of China e China Investment Corp. per lo sviluppo dell’industria del gas naturale nell’Alaska Settentrionale.

Libano

Lo scorso 4 novembre, il Primo Ministro libanese Saad Hariri ha rassegnato le dimissioni durante un discorso pronunciato da Riyadh. Hariri, che guidava il governo di unità nazionale dal dicembre 2016, ha affermato che la sua decisione è dovuta ad un presunto attentato contro la sua persona, che sarebbe stato sventato in Libano pochi giorni prima. Il Premier ha poi accusato l’Iran di voler perseguire una politica volta a destabilizzare l’intera regione assieme al suo alleato libanese Hezbollah.

Nonostante le accuse di Hariri coinvolgano direttamente un importante attore regionale quale Teheran, le ragioni del suo gesto vanno ricercate nelle dinamiche della politica interna libanese. Nell’ultimo anno, il movimento sunnita del Premier uscente, Partito Futuro (PF), che fa parte della Coalizione 14 Marzo, ha visto il proprio peso politico affievolirsi notevolmente a seguito dell’elezione del nuovo Presidente e dell’approvazione della nuova legge elettorale.

Con l’arrivo alla presidenza del cristiano-maronita Michel Aoun, appartenente al Movimento Patriottico Libero (MPL), l’equilibrio politico si è spostato fortemente a favore di Hezbollah, suo alleato all’interno della Coalizione 8 Marzo, che ne aveva appoggiato la candidatura. Hariri, che non è riuscito a imporre il proprio candidato, ha rischiato di vedere la propria leadership messa in discussione e occupare una posizione subalterna al Partito di Dio.

Un ulteriore elemento di preoccupazione per Hariri è stata l’approvazione, lo scorso giugno, di un’attesa riforma della legge elettorale. Infatti, il suo impianto proporzionale favorirebbe con tutta probabilità le minoranze del Paese, contribuendo ad accrescere il peso di Hezbollah nel prossimo governo.

Quindi, rassegnando le dimissioni Hariri ha voluto smarcarsi da un esecutivo sempre più egemonizzato da Hezbollah, per poterlo criticare liberamente dall’esterno. Così facendo, l’ex Premier cerca di recuperare una maggiore sintonia con il proprio elettorato in vista delle nuove elezioni, previste per maggio 2018. La scelta di annunciare le dimissioni da Riyadh rientra a sua volta in un disegno preciso, volto a ribadire che Hariri resta il principale referente nel Paese dell’influente monarchia saudita.

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