Medio Oriente e Nord Africa

L’evoluzione dell’industria militare israeliana tra storia ed economia

Di Federica Fanuli
20.09.2011

Gli eventi storici che hanno portato alla costituzione dello Stato di Israele, la lotta costante contro le minacce arabe per garantire la sicurezza nazionale e la sopravvivenza di questo piccolo territorio, hanno determinato la nascita e il progresso dell’industria della difesa israeliana.

Negli anni venti del secolo scorso, i combattenti dell’Haganah, organizzazione militare pre-Stato ebraico, iniziano a produrre e riparare armi molto rudimentali in officine segrete e improvvisate. Con i moti arabi del 1929 in Palestina, il ruolo dell’Haganah cambia bruscamente. La sua organizzazione cresce e s’iniziano a costruire bombe e ordigni e sistemi d’arma più complessi. Secondo alcune fonti non ufficiali risale proprio a questo periodo la nascita dell’Israel Military Industries (TAAS o IMI). Questa attività produttiva si rivela una fonte necessaria al fine di sostenere i gruppi paramilitari, opposti al dominio britannico in Palestina, che combattono per Israele nella Guerra di Indipendenza del 1948.

Il 15 maggio del ‘48, le truppe britanniche si ritirano definitivamente dai territori del mandato e nello stesso giorno gli eserciti di Egitto, Siria, Transgiordania, Libano e Iraq invadono il nuovo Stato di Israele. Le forze d’occupazione sono attrezzate con armi standard: artiglieria, carri armati, autoblindate e da trasporto truppa, mitragliatrici, mortai, armi di piccolo calibro in grandi quantità. Inoltre, Egitto, Iraq e Siria schierano forze aeree. Al contrario, gli ebrei non hanno artiglieria pesante, carri armati o aerei da guerra. Alcune forniture, soprattutto da parte della Cecoslovacchia, arrivano nei giorni successivi e cambiano il corso della storia. Le unità dell’Haganah, che il 28 maggio 1948 si fondono con altri gruppi di difesa ebraica per costituire le Forze di Difesa Israeliane (IDF). A partire da allora, cominciano ad essere create vere e proprie fabbriche militari per scongiurare la sconfitta. Da qui prende avvio la produzione israeliana di armi che attraversa negli anni diverse fasi.

Inizialmente, la produzione si concentra sulle armi leggere, sulle munizioni e sulla riparazione di veicoli militari. Nei primi anni ’50, l’Israel Aerospace Industries (IAI) originariamente nota come il Bedek Aviation Company, azienda del Ministero della Difesa specializzata nella manutenzione e riparazione di veicoli militari, inizia ad affermarsi come soggetto industriale forte.

Nella seconda fase, interessi politici ed economici accelerano le trattative di una forte intesa tra Israele e Francia: aerei avanzati, veicoli blindati, imbarcazioni, in cambio di conoscenze tecnologiche a sostegno del programma missilistico israeliano e del piano d’installazione del reattore nucleare a Dimona che, secondo il governo francese e israeliano, andrebbe ad alimentare un impianto di desalinizzazione per migliorare la situazione ambientale del deserto del Negev, ma il vero obiettivo è la costruzione di armi nucleari.

Il sostegno francese gioca un ruolo fondamentale nella rapida crescita dell’industria bellica israeliana e il banco di prova è la Campagna del Sinai. Nel luglio del 1956, il Presidente egiziano Nasser nazionalizza il Canale di Suez, minacciando gli interessi anglo-francesi sul rifornimento di petrolio. Francia e Gran Bretagna, che detengono il pacchetto azionario della Compagnia del Canale, stringono accordi segreti con Israele per riprenderne il controllo e il 29 ottobre 1956, l’esercito israeliano, dotato di carri armati M4 Sherman e AMX-13, sconfigge rapidamente le forze egiziane e riprende il controllo sul Canale, occupando la Striscia di Gaza e la penisola del Sinai. Il conflitto favorisce l’affluenza di armi pesanti, aerei da combattimento, elicotteri ed efficaci sistemi di comunicazione che consentono a Israele di toccare elevati livelli di sviluppo dei servizi di manutenzione. Il Generale Moshe Dayan, Capo di Stato Maggiore Forze di Difesa israeliane, mostra la sua forza militare e il successo conseguito aumenta il prestigio del IDF.

Il Ministero della Difesa crea il Rafael Armament Development Authority, un’unità distaccata dalla sezione di ricerca e sviluppo che risponde alle pressanti richieste delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), anche in materia di armi di distruzione di massa.

Nel 1967, le truppe egiziane invadono nuovamente la penisola del Sinai, ma è soprattutto la mossa strategica del Presidente Nasser di chiudere lo Stretto di Tiran alle navi israeliane, devastante per l’economia del paese, il casus belli che spinge il governo di Tel Aviv a lanciare un massiccio attacco preventivo. L’Israel Aviation Force distrugge la maggior parte delle forze aree e di terra, e riporta una vittoria senza precedenti. La Guerra dei Sei Giorni ha grandi conseguenze per lo Stato ebraico e l’IDF. In sei giorni Israele triplica il suo territorio, sconfigge Egitto, Giordania e Palestina e i piloti dell’IAF sono considerati i migliori al mondo.

Dopo la Guerra del 1967, la Francia cambia radicalmente politica con Israele: Parigi non perdona allo Stato ebraico la vittoria contro l’Egitto, la Siria, Giordania e Palestina, tutti paesi sostenuti da alleati arabi e socialisti, e decreta un boicottaggio unilaterale sulla vendita di armi al governo sionista, tra cui gli aerei Mirage. La risposta israeliana è una nuova strategia politica che stimola l’incremento industriale ed economico della produzione di armi: la ricerca e lo sviluppo vengono intensificate, la progettazione e la produzione di armi favorite dagli accordi con nuove compagnie straniere e soprattutto, la Guerra dei Sei Giorni è l’evento storico grazie al quale Israele attira l’attenzione degli Stati Uniti, tanto da riuscire ad ottenere il 50% degli aiuti economici complessivamente forniti da Washington alle nazioni estere, senza escludere le abbondanti e aggiornate forniture tecnologiche e militari. Tra il 1968 e il 1972, ingenti somme sono investite in programmi per la costruzione di velivoli avanzati, carri armati, fucili d’assalto Galil, carabine M1, missili tattici e strategici, facendo di Israele il quinto grande esportatore di armi.

Dopo la Guerra del 1973, nonostante lo spettro arabo di un embargo petrolifero e di un boicottaggio commerciale, le nazioni europee interrompono le forniture di armi, ma il settore ha ormai ampiamente acquisito un alto grado di sviluppo: Jet ad alta velocità, caccia a reazione, missili Cruise di nuova generazione, l’avanzatissimo tank Merkava rendono oggi l’idea di quanto questa nazione avesse un’industria di prima grandezza. La Guerra dello Yom Kippur rivela però la difficoltà del governo di Tel Aviv di sostenere il peso economico della corsa agli armamenti, i cui costi sono abbondantemente lievitati a causa dell’acquisizione di sistemi di difesa sempre più moderni, e non a caso, proprio nel 1973, Israele ottiene da Washington un cospicuo aiuto in milioni di dollari, benché il governo americano contribuisse alle casse israeliane dal 1949.

Negli anni ’80, Israele ha un potenziale militare che soddisfa pienamente la domanda interna delle forze di difesa, sebbene la fine della Guerra Fredda e la crisi economica incidano negativamente sul sistema produttivo. L’inflazione, la brusca frenata dello sviluppo economico e l’instabilità del bilancio di governo, colpiscono soprattutto le imprese statali (IMI, Rafael, IAI), costringendo lo Stato a intraprendere un programma di aiuti che riduca il bilancio della Difesa e argini il tracollo finanziario di Israele. La prima impresa a essere colpita è l’IMI, che fino ai primi anni ’80 è stata leader del settore munizionamento e armi leggere.

Nel dicembre del 1992, il governo israeliano approva il trasferimento di 100 milioni di dollari per avviare un piano di ristrutturazione e di razionalizzazione dell’impresa. Rafael, invece, è danneggiata dall’insufficienza di fondi che frena la ricerca e provoca una pesante caduta degli ordini nazionali e internazionali. Meno travolta dalla crisi è invece l’Israel Aerospace Industries, nonostante la perdita di una fornitura di quaranta aerei Kfir per Taiwan e altre apparecchiature per un valore di 3.5 milioni di dollari. Un altro duro colpo per lo IAI è la cancellazione del progetto di realizzazione del caccia d’attacco Lavi, gioiello dell’industria della difesa israeliana, condotto in cooperazione con gli USA. Questi ultimi fanno alla fine mancare il sostegno finanziario perché pressati dalle proprie aziende, timorose di vedere i mercati invasi da un nuovo concorrente.

Non a caso un anno dopo la cancellazione del programma Lavi, nel 1988, Israele acquista ben sessanta F-16 e riceve stanziamenti che contribuiscono a coprire i costi per la fine del progetto. Tra i vantaggi concessi a Israele vi è anche l’erogazione di risorse destinate alla ricerca e allo sviluppo di sistemi di difesa, come il missile terra-aria Arrow e il carro armato Merkava. Il Merkava o “Carro di fuoco” è una delle più importanti opere militari israeliane, la cui innovativa caratteristica è il blocco motore nella parte anteriore del tank, che permette di utilizzare il vano posteriore per lo stoccaggio di munizioni o per trasportare personale aggiuntivo e garantirne maggiore protezione. La prima versione (Mark I) è introdotta nel 1979 e dispiegata dalle forze militari israeliane nel 1982, durante l’Operazione “Pace in Galilea” in seguito all’occupazione del Libano meridionale. La grave situazione finanziaria sfiora semplicemente il settore privato che riesce abilmente a dribblare i problemi interni, puntando su competenze concorrenziali che richiamano acquirenti, grazie anche all’emanazione della legge Tender che autorizza la concorrenza nel processo di offerta di servizi e prodotti.

Negli anni ’90, una nuova recessione monetaria è l’occasione per apportare modifiche strutturali, così le grandi aziende statali, per fare fronte alla contrazione del mercato delle esportazioni, avviano manovre di recupero che comprendono la razionalizzazione, la chiusura di alcune linee di produzione e licenziamenti di massa. L’esperienza nel settore, combinata a una politica liberale delle esportazioni, permette a Israele di acquisire una posizione commerciale dominante rispetto ai suoi concorrenti e ai suoi nemici ben armati, che hanno già testato le proprie capacità nucleari.

Nel complesso, il supporto americano e i proventi dell’export, non solo hanno compensato il taglio al bilancio della Difesa, ma hanno anche contribuito a favorire relazioni diplomatiche. La vendita di armi non è altro che una prosecuzione dei rapporti internazionali con altri mezzi, e non sono mancati i tentativi da parte delle potenze occidentali di strumentalizzare le forniture militari per costringere Israele a cedere a richieste restrittive. Ad esempio, durante la Guerra del 1991, allo Stato ebraico è stato chiesto di non attaccare l’Iraq in cambio dell’accesso a satelliti spia americani; o nell’estate del 2000, quando le minacce americane di tagliare gli aiuti hanno costretto Israele a sospendere la vendita alla Cina di un aereo di ricognizione molto sofisticato.

Il governo di Tel Aviv ha esportato ed esporta armi verso numerosi Paesi. I partner principali sono Brasile, Etiopia, Kenya, Sud Africa, Uganda, Cina, India e Russia, con un guadagno a nove zeri per l’economia del paese. Il commercio di armi è diventato lo strumento di conduzione della politica estera israeliana, un settore gestito da una lobby politica, le cui decisioni hanno avuto un effetto rilevante sul Prodotto Interno Lordo e sulle logiche occupazionali del paese.

Ciò che ha caratterizzato l’industria israeliana nel corso della sua evoluzione storica ed economica è il suo impegno per l’innovazione e la massimizzazione di risorse a sua disposizione, sia umane che tecnologiche, privilegiando l’importanza di forze aeree e terrestri, forze speciali, intelligence e unità ingegneristiche al fine di difendere un territorio eccessivamente vulnerabile.

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