Geopolitical Weekly n.248

Geopolitical Weekly n.248

Di Monica Esposito
23.02.2017

Nigeria

Il 17 febbraio, sette attentatori suicidi si sono fatti esplodere nei pressi del campo profughi di Muna, nella periferia di Maiduguri, capitale della Regione di Borno, a nord-est della Nigeria. Anche se nessun gruppo ha rivendicato l’attacco, i responsabili potrebbero essere affiliati al gruppo jihadista Boko Haram. L’obiettivo dell’attentato sembrerebbe essere stato quello di colpire i rifugiati del campo Muna che in quel momento stavano preparando il rientro nelle loro case. Nell’attentato sarebbero stati uccisi 8 soldati della Multilateral Joint Task Force, un dispositivo militare composto da contingenti nigeriani, ciadiani, nigerini, beniniani e camerunensi, impiegato per le operazioni di law enforcement e contro-terrorismo nella regione del Lago Ciad. Maiduguri è la città dove Boko Haram fu fondata nel 2002 ed è, assieme alla regione del Lago Ciad e alla foresta di Sambisa, uno dei bastioni del gruppo terroristico. Gli attacchi suicidi perpetrati dal gruppo jihadista sottolineano che la minaccia terroristica resta alta, nonostante le misure di adottate dai governi della regione e le difficoltà interne a Boko Haram a causa del conflitto tra le due leadership di Abubakar Shekau e di Abu Musab al-Barnawi. Quest’ultimo è stato nominato emiro del gruppo dal Califfo Omar Bakr al-Baghdadi nell’intento di ufficializzare la trasformazione di Boko Haram in una wilayat (provincia) di Daesh. Il conflitto nella regione del Borno è cominciato nel 2009, quando Boko Haram ha cominciato la propria campagna terroristica e di insorgenza contro il governo. Dopo oltre un quinquennio di guerriglia e attacchi terroristici, nel 2015 i governi regionali hanno lanciato una vasta operazione contro-terrorismo che ha ridotto significativamente il territorio controllato da Boko Haram e contestualmente le sue strutture logistiche e operative. Ciò nonostante, il gruppo continua a dimostrare una notevole resilienza ed una perdurante capacità di effettuare sia attentati suicidi che attacchi “mordi e fuggi” ai danni sia della popolazione civile che delle Forze Armate.

Pakistan

Il 16 febbraio, un attentatore suicida ha colpito il tempio Sufi di Lal Shahbaz Qalandar a Sehwan, città nel Sindh, regione meridionale del Pakistan, e ha provocato circa 75 morti e 200 feriti. L’attentato è stato rivendicato, attraverso il canale di propaganda Amaq, dallo Stato Islamico che considera apostati coloro che professano il sufismo, una forma mistica e generalmente moderata dell’Islam. Subito dopo l’attentato, il Primo Ministro, Nawaz Sharif, ha dichiarato la sua intenzione di combattere i gruppi fondamentalisti operativi nel Paese. Pertanto, le Forze di sicurezza federali, provinciali e le Forze di polizia hanno lanciato una serie di raid in tutto il territorio con l’obiettivo di neutralizzare le cellule terroristiche. A seguito dell’operazione sono stati arrestati circa 47 sospetti, e 39 militanti sono stati uccisi. Inoltre, le autorità pakistane hanno consegnato alle controparti afghane una lista di circa 76 sospetti terroristi che secondo loro fonti si starebbero nascondendo al confine tra Afghanistan e Pakistan. L’attacco si inserisce in un periodo particolarmente violento per il Pakistan. Dal 13 febbraio si sono susseguiti in tutto il Paese attacchi terroristici contro obiettivi sia civili che militari. Quello di giovedì scorso resta tuttavia l’attentato più sanguinoso dal 2014 quando dei talebani attaccarono una scuola, uccidendo 141 persone, di cui 132 bambini. Già in passato, lo Stato Islamico aveva dichiarato la responsabilità di alcuni attentati, quale l’attacco al tempio sufi Shah Noorami, a nord di Karachi dello scorso novembre. Sebbene lo Stato Islamico non sembrerebbe avere una presenza strutturata in Pakistan, non è da escludere, tuttavia, che gruppi militanti locali di ispirazione jihadista possano aver instaurato dei legami con l’organizzazione di al-Baghdadi. Le operazioni massicce di contro-terrorismo condotte dalle Forze pakistane e le conseguenti difficoltà da parte della militanza di ottenere mezzi e risorse da destinare alla propria causa, infatti, potrebbe aver spinto le nuove leve di formazioni jihadiste, quali Lashkar e-Jangvi (LeJ), a cercare di creare una relata afferente ad IS in Pakistan. L’affiliazione delle milizie pakistane allo Stato Islamico potrebbe essere funzionale ad ottenere una maggiore eco internazionale e per cercare di ottenere finanziamenti proprio dal Califfato.

Somalia

Il 19 febbraio, un attentatore suicida a bordo di un’autobomba si è fatto esplodere nel mercato del quartiere Madina di Mogadiscio. Nell’attentato sarebbero morte 39 persone e 50 sarebbero rimaste ferite. Si tratta del primo attacco terroristico subito dal Paese all’indomani dell’elezione del nuovo Presidente Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmajo”, avvenuta lo scorso 8 febbraio. Anche se l’attacco non è stato rivendicato, appare possibile che la responsabilità sia da attribuire ad al-Shabaab, formazione jihadista affiliata ad al-Qaeda ed attiva nel Paese dal lontano 2006. Nonostante i buoni risultati raggiunti dalla missione dell’Unione Africana AMISOM (African Union Mission in Somalia), al-Shabaab continua a controllare una vasta porzione del Paese, soprattutto nelle aree rurali del centro e del sud. L’attacco di Madina rivela una delle difficoltà maggiori che potrebbe incontrare la Presidenza di Mohamed Farmajo, ossia la resilienza di al-Shabaab e la perdurante precarietà nel contesto securitario nazionale. Infatti, Al-Shabaab e il Governo Federale, sostenuto dalla Comunità Internazionale, si contendono da anni il controllo del Paese. Proprio a causa del perpetrarsi della campagna terroristica di al-Shabaab le elezioni presidenziali sono state rimandate diverse volte, prima di svolgersi, finalmente, in febbraio. La sconfitta di al-Shabaab appare uno degli obbiettivi irrinunciabili per la nuova presidenza somala, poiché la pacificazione e la stabilizzazione del Paese non possono prescindere dalla neutralizzazione della formazione jihadista. Infatti, soltanto dopo aver creato le condizioni di sicurezza adeguate, il governo somalo potrebbe proseguire nell’opera di state building e di ricostruzione delle istituzioni nazionali.

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