Geopolitical weekly n. 215

Geopolitical weekly n. 215

Di Carolina Mazzone e Olena Melkonian
21.04.2016

Sommario: Afghanistan, Etiopia / Sud Sudan, Siria

Afghanistan

La mattina del 19 Aprile a Kabul un’autobomba è esplosa nei pressi della sede del National Directorate of Security (NDS) e del Ministero della Difesa, nel quartiere di Puli Mahmood Khan, causando oltre 300 feriti e una trentina di vittime tra militari e civili. L’esplosione è stata seguita da diversi scontri a fuoco tra un gruppo di uomini armati che si era fatto strada all’interno del compound delle NDS e le Forze di sicurezza accorse per contenere l’attacco. L’attentato, compiuto con l’obbiettivo di colpire la sede dei servizi di intelligence afgana, è stato rivendicato dai talebani.

L’attentato giunge a pochi giorni dall’ufficializzazione dell’inizio dell’offensiva di primavera (quest’anno denominata chiamata “Operazione Omari” in onore dello storico leader Mullah Omar, deceduto lo scorso luglio), l’annuale ripresa delle attività dell’insorgenza in coincidenza con il ritorno della bella stagione. L’attacco, dunque, sembrerebbe essere solo il preludio di quello che è stato definito dai talebani come l’inizio di azioni su larga scala contro il governo di unità nazionale di Kabul, non riconosciuto come legittimo dall’insorgenza talebana. Nonostante il Presidente Ashraf Ghani insista nel sostenere la capacità delle Forze di Sicurezza (ANSF) nel rispondere con successo alle aggressioni dei militanti, l’attentato, portato a termine con successo nel centro della capitale e contro i simboli per eccellenza dell’apparato di Difesa del Paese, dimostra l’attuale superiorità operativa dell’insorgenza, nonché le precarie condizioni di sicurezza interne.

L’attentato è avvenuto pochi giorni dopo la visita a Kabul del Segretario di Stato americano John Kerry, il quale ha ribadito il sostegno al governo di unità nazionale di Ghani ma, allo stesso tempo, ha insistito sulla necessità di tornare al tavolo dei negoziati e riprendere i colloqui di pace con i talebani. Tuttavia, a fronte dell’attuale debolezza delle autorità centrali nell’accreditarsi come i garanti legittimi della stabilità nazionale, una ripresa del dialogo potrebbe rappresentare un possibile fattore di criticità per il governo di Kabul. In un momento in cui l’evidente superiorità operativa dell’insorgenza sta mettendo in seria discussione la tenuta delle ANSAF e la capacità di risposta delle istituzioni afghane, infatti, la leadership politica talebana, potrebbe sì accettare di riprendere il dialogo ma per negoziare da una posizione di forza e porre così sul tavolo una serie di pretese politiche che metterebbero in seria difficoltà la tenuta dell’attuale governo di coalizione.

Etiopia / Sud Sudan

Il 15 aprile scorso, diverse bande armate hanno assalito alcuni villaggi nella regione di Gambella in Etiopia occidentale, uccidendo circa 200 persone, rapendo più di 100 bambini e derubando la popolazione locale di 2000 capi di bestiame. La quasi totalità delle vittime appartiene alla popolazione Nuer. Infatti, la regione etiope ospita circa 280.000 rifugiati nuer provenienti dal Sud Sudan e fuggiti dalla guerra civile scoppiata nel Paese nel 2013 a causa dei contrasti sorti tra il Presidente Salva Kiir, espressione dell’etnia Dinka, e il suo ex-vice Riek Machar, leader dei ribelli di etnia Nuer.

Molti dubbi permangono sull’origine degli assalitori. Infatti, secondo le testimonianze dei sopravvissuti e di altri testimoni, i miliziani appartenevano sia alle etnia Murle e Dinka, entrambe stanziate in Sud Sudan, sia all’etnia Anouak, presenti in una vasta area lungo il confine etiope-sud sudanese. Mentre la presenza Anouak sarebbe giustificata dal lungo conflitto che li oppone ai Nuer di Gambela, lo stesso non può dirsi sulla presenza Dinka e Murle. Infatti, non solo i due gruppi sono generalmente divisi da una antica rivalità politica, ma le loro tradizionali aree di stanziamento in Sud Sudan sono molto distanti dalla regione di Gambela. Dunque, nonostante i Murle ed i Nuer si combattano per il bestiame, i diritti di sfruttamento delle risorse e la supremazia territoriale nello Stato Sud sudanese di Jonglei, il loro conflitto non si era mai esteso fino all’Etiopia occidentale. Inoltre, appare sorprendente il fatto che gli assalitori fossero pesantemente armati di kalashnikov, elemento insolito nel contesto della violenza inter-etnica tra comunità rurali e seminomadi della regione, dove gli attacchi vengono portati prevalentemente con armi bianche.

Alla luce dei recenti avvenimenti, al fine di scongiurare una possibile escalation delle violenze lungo il poroso confine etiope-sud sudanese, il Governo di Addis Abeba ha contemplato la possibilità di avviare una operazione militare transfrontaliera congiunta con le autorità di Juba per la bonifica dell’area e la neutralizzazione delle milizie etniche qui presenti.

Tutti questi elementi lasciano intendere che la vicenda etiope sia da considerarsi un riverbero del conflitto politico sud sudanese e dei contrasti tra Dinka, Murle e Nuer in Sud Sudan. Difatti, anche se le comunità Nuer e Murle sono rivali nello Stato di Jonglei, a livello nazionale condividono la battaglia contro il potere centrale dei Dinka. Sebbene l’attacco di Gambela possa apparire come un consueto episodio di violenza inter-etnica a sfondo economico, l’instabilità sud sudanese potrebbe attribuirgli profondi significati politici. Infatti, non è da escludere che l’assalto nei villaggi occidentali etiopi ai danni della comunità Nuer possa essere stato orchestrato da milizie filo-governative vicine ai Dinka con l’obbiettivo di destabilizzare il fronte ribelle e mettere in difficoltà l’alleanza tra Machar ed i Murle. Inoltre, il coinvolgimento etiope contro le milizie Murle potrebbe indicare la volontà di Addis Abeba di contribuire alla pacificazione sud sudanese con un intervento militare formalmente rivolto alla messa in sicurezza del proprio confine. Naturalmente, questa stabilizzazione favorirebbe i Dinka e Salva Kiir, tradizionalmente protetti dall’Etiopia.

Un ulteriore effetto degli eventi etiopi, che indica la criticità della situazione, è il rinviato rientro di Machar a Juba, previsto inizialmente per il 18 aprile, e rinviato sine die. Il leader ribelle avrebbe dovuto recarsi nella capitale sud sudanese per avviare, assieme al Presidente Kiir, le riforme politiche necessarie ad una più equa distribuzione del potere tra i diversi gruppi etnici, secondo quanto previsto dagli accordi di pace siglati ad Addis Abeba lo scorso 26 agosto 2015. Tale accordo ha rappresentato il tentativo di calmierare la guerra civile scoppiata nel 2014 a causa delle politiche nepotistiche del Presidente Kiir in favore dei Dinka, respinte ferocemente dai gruppi subalterni, tra i quali i Nuer, i Murle e gli Shilluk. Tuttavia, il frammentato mosaico etnico e la complessa geometria politica del Paese, resi conflittuali dall’estrema povertà e dal diffuso sottosviluppo, rischiano di prolungare ancora a lungo l’instabilità del Paese.

Siria

A partire dalla giornata di lunedì 18 aprile, gli esponenti delle forze ribelli siriane (specificatamente i gruppi di Ahrar al-Sham, Jaysh al-Islam e il Free Syrian Army) hanno ripreso i combattimenti contro le forze lealiste nelle province di Latakia e Hama determinando, di fatto, la fine del fragile cessate il fuoco in vigore dal 27 febbraio scorso. Tale iniziativa è stata giustificata dalle ripetute violazioni del suddetto accordo da parte dell’esercito governativo, che ha continuato a bombardare la popolazione civile in zone sotto il controllo delle forze di opposizione e ha riavviato i combattimenti a nord di Aleppo.

I recenti avvenimenti hanno avuto un forte impatto sui negoziati svolti nel corso dell’ultima settimana a Ginevra. L’Alto Comitato dei Negoziati (High Negotiations Committee, HNC), soggetto politico rappresentativo delle istanze della maggioranza dell’opposizione sunnita siriana, ha sospeso la propria partecipazione alle trattative visto il rifiuto del Presidente Assad di prendere in considerazione l’ipotesi di un periodo di transizione politica legata ad una sua uscita dalla scena politica nazionale. A difesa della posizione governativa si è pronunciato il Rappresentante Permanente siriano presso le Nazioni Unite Bashar Ja’afari, il quale ha ribadito che il Presidente Assad sarebbe disponibile ad includere esponenti delle opposizioni all’interno del Gabinetto di governo. Tale opzione, tuttavia, non è contemplata dalle fila antigovernative.

La difficile situazione delle trattative apre un ulteriore scenario di incertezza nel conflitto siriano, che potrebbe portare a un nuova escalation dei combattimenti tra le forze lealiste e le forze dell’opposizione. Data la ripresa dell’offensiva ribelle nella zona nord-occidentale del Paese, attualmente roccaforte dell’Esercito Siriano e del Presidente Assad, le forze anti-governative potrebbero aver approfittato dell’accordo che prevedeva l’interruzione dei combattimenti, per riorganizzare i propri ranghi e pianificare una strategia d’attacco. Dunque, ad oggi, anche le milizie di Assad si trovano costrette a rivedere le priorità e la disposizione del proprio apparato militare. Infatti, negli ultimi mesi, il fronte caldo del conflitto si era spostato nella zona di Palmira, dove l’Esercito siriano stava portando avanti un’offensiva verso est contro lo Stato Islamico, con l’obiettivo di raggiungere il Governatorato di Der el-Zor. La pressione del fronte ribelle a nord-ovest del Paese ha determinato difatti lo spostamento di due contingenti della “Forza Tigre” dell’Esercito siriano dalla zona di Palmira alla pianura di al-Ghab, che costituisce un luogo fondamentale per il controllo di Latakia. In queste circostanze, potrebbero dunque risultare fondamentali per evitare una nuova degenerazione del conflitto, la mediazione di potenze internazionali (Stati Uniti e Russia) e regionali (Arabia Saudita e Iran).

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