Tunisia: crocevia jihadista
Medio Oriente e Nord Africa

Tunisia: crocevia jihadista

Di Ce.S.I. Staff
03.05.2015

Gli attacchi terroristici a Tunisi dello scorso 18 marzo hanno improvvisamente consegnato all’attenzione mediatica internazionale il fenomeno del jihadismo tunisino, sinora adombrato dagli sviluppi della crisi libica, ma non per questo meno attivo, pericoloso, radicato sul territorio e con importati collegamenti internazionali.  Riguardo agli avvenimenti che hanno scosso la capitale tunisina appare ormai chiaro che il gruppo di fuoco sia stato costituito da 2 persone, Jabeur Khachnaoui e Yassine Abidi, entrambi tunisini, probabilmente passati per la Siria per combattere il proprio jihad, e addestratisi nei campi jihadisti a Derna, nella vicina Libia.

All’organizzazione dell’attentato avrebbe partecipato anche un terzo terrorista, Maher Ben Mouldi Kaidi, ancora ricercato dalle autorità di Tunisi, che avrebbe procurato le armi poi utilizzate dagli assalitori. Il commando avrebbe inizialmente preso d’assalto il Parlamento, dove era prevista la discussione sulla nuova legge anti-terrorismo, per poi ripiegare, una volta respinti dalla Polizia, nell’attiguo Museo del Bardo, frequentato da turisti stranieri. A prescindere dalle dinamiche, ancora non del tutto chiare, l’attacco al Museo Bardo ha messo in luce la minaccia dell’universo salafita tunisino, sia per la sicurezza del Paese, sia per la stabilità della regione. Negli ultimi 20 anni, infatti, la Tunisia è sempre stata teatro di un notevole attivismo jihadista.

Il Gruppo Combattente Tunisino è stato uno degli attori principali della stagione di attentati a cavallo tra la guerra civile algerina e il post-11 settembre, per diventare poi una delle anime alla base della formazione di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI). Nella stessa AQMI la presenza tunisina è sempre stata seconda solo a quella algerina, sia tra le fila operative sia nella shura (consiglio direttivo). Il panorama tunisino, inoltre, si è sempre caratterizzato per una forte presenza di ideologhi locali che hanno contribuito a radicalizzare un numero sempre più alto di giovani. Proprio questo fattore, però, è stato alla base di un aspro confronto interno all’indomani della caduta del regime di Ben Alì tra coloro i quali propendevano per un atteggiamento più “politico” che in qualche modo si ricollegasse al partito islamico di governo Ennahda (come lo Sceicco Khatib al-Idrissi, uno dei principali imam salafiti tunisini attivo a Sidi Bouzid) e i miliziani che invece hanno continuano ad appoggiare una lotta jihadista tout court.

Da questa dialettica è nato il movimento Ansar al-Sharia, nella sua declinazione tunisina, che è stato fin da subito un punto di incontro tra
la vecchia generazione di jihadisti locali e i giovani radicalizzati nelle periferie di Tunisi e nell’entroterra rurale del Paese. Comandato da Seifallah Ben Hassine, storico leader del Gruppo Combattente Tunisino, Ansar al-Sharia si è subito contraddistinto quale movimento salafita dal duplice volto: da una parte l’anima combattente, che ha preso di mira le istituzioni tunisine e ha cercato di ostacolare (vedasi l’uccisione di Chokri Belaid che ha lanciato ampie ombre sul post-Ben Ali) il processo di ricostruzione istituzionale al quale ha preso parte Ennahda, partito sì islamista ma portatore di posizioni considerate troppo moderate da Ansar al-Sharia (a dire il vero, questo atteggiamento è stato condiviso anche dalla parte più oltranzista dello stesso Ennahda, i cui rapporti con Ansar al-Sharia non sono mai stati limpidi). Dall’altra, l’anima più sociale del movimento che ha interpretato il proprio jihad non quale lotta armata, ma come incremento del proselitismo attraverso il supporto sociale alla popolazione tunisina nelle aree più disagiate.

Di fatto, Ansar al-Sharia si è sostituito allo stato centrale quale erogatore di servizi dall’educazione alla collocazione lavorativa, portando così molti giovani tunisini ad indentificare in Ansar al-Sharia, e non più nello Stato centrale, il punto di riferimento per la definizione della propria identità. In questo modo si riesce anche a spiegare il fatto che tra i foreign fighters che si sono recati in Siria a combattere nelle fila dello Stato Islamico il gruppo più numeroso sia rappresentato proprio dai Tunisini, con un numero che nelle stime varia tra le 3.000 e le 5.000 unità. Anche perché, grazie proprio all’esperienza della propria leadership, Ansar al-Sharia in Tunisia si è subito inserita nel network internazionale del jihadismo.

Non si deve dimenticare, infatti, che oltre a Ben Hassine, nelle fila di Ansar al-Sharia sono riapparsi 2 terroristi molto conosciuti, sia alle autorità locali, sia a quelle internazionali, particolarmente italiane: Sami Essid Ben Khemais e Mehdi Kammoun che, infatti, furono arrestati nel 2001 in Italia a seguito di un’indagine delle autorità italiane in collaborazione con quelle americane che li accusarono dell’organizzazione di un attentato terroristico contro l’ambasciata americana di Roma. I 2 sono poi usciti dalle carceri tunisine a seguito della caduta di Ben Alì, riapparsi al fianco di Ben Hassine in più di un sermone pubblico del leader jihadista e di nuovo entrati nell’anonimato quando le autorità di Tunisi hanno nuovamente stretto le attenzioni su Ansar al-Sharia. Al contrario, però, di al-Idrissi, che negli ultimi anni è stato più volte arrestato
per poi essere rilasciato (circostanza che potrebbe far pensare anche ad un “passaggio” dello sceicco tra gli informatori del servizio tunisino, cosa assolutamente non verificata), Ben Hassine, Ben Khemais e Kammoun sono spariti dai radar e hanno proseguito la propria azione in clandestinità.

In questo magma di attivismo salafita, nell’ultimo anno e mezzo è apparsa una nuova sigla, Brigata Uqba Ibn Nafi (BUIN) formazione che fin dalla sua nascita si è posta a metà strada tra AQMI e Ansar al-Sharia. BUIN sarebbe stata formata su impulso del leader di AQMI, Droukdel, che avrebbe posto al suo comando un altro algerino, Luqman Abu Sakhr, per cercare di fare da collettore di tutti quei miliziani in cerca di un rifugio sicuro dopo la cacciata dal Mali per effetto dell’intervento francese. Se una parte di questa “diaspora” si è recata nel sud della Libia, grazie ai legami con le tribù nomadi Toubou, altri elementi hanno dato vita a questa nuova formazione, tra la regione di Kasserine e quella montuosa al confine con l’Algeria del Jebel Chambi. Una Brigata “internazionale” che ha raccolto tra le proprie fila Maliani, Mauritani, Algerini, Marocchini e Tunisini,  ha mantenuto i legami con AQMI e, parallelamente, si è messa a disposizione di Ansar al-Sharia nell’azione contro l’Esercito e le autorità tunisine.

In questa evoluzione non devono sorprendere le recenti notizie secondo le quali BUIN avrebbe giurato fedeltà allo Stato Islamico. In primis perché l’universo jihadista nordafricano è stato quello storicamente più indipendente rispetto alla leadership centrale di Al Qaeda. Da qui alleanze e scontri dettati più da simpatie o antipatie che da convinzioni ideologiche (vedasi la diatriba tra Droukdel e Belmoktar). Inoltre, perché la predisposizione tribale e sociale di questa regione rende più difficile un coordinamento unitario e facilita, invece, la frammentazione in gruppi che possono anche perseguire obiettivi comuni, ma in maniera poco coordinata.

La Brigata Uqba ibn Nafi è diventata così il “ponte” tra AQMI e lo Stato Islamico. A dimostrarlo, oltre alle dichiarazioni della leadership, ci sono anche le informazioni ricavate dall’arresto da parte della autorità algerine di Safiuddin al-Mauritani, esponente mauritano di BUIN arrestato mentre si stava recando in Mali per organizzare un incontro tra la leadership locale e quella della Brigata. Argomento della riunione, la possibile nascita di un nuovo movimento denominato Stato Islamico nel Maghreb Islamico.

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