L'uscita dal labirinto Af-Pak e la “stay strategy” del network Haqqani
Asia e Pacifico

L'uscita dal labirinto Af-Pak e la “stay strategy” del network Haqqani

Di Laura Borzi
29.03.2012

Da alcuni anni gli insorti del network Haqqani hanno aumentato potere e visibilità. Non a caso, alla fine dello scorso settembre, l’allora CSM americano, Amm. Mike Mullen, parlando davanti alla Commissione Difesa del Senato aveva indicato il network come “braccio strategico” del servizio d’intelligence pakistano.

Mullen, in procinto di lasciare l’incarico al Gen. Martin Dempsey, segnalava il sostegno operativo diretto fornito dall’ISI (Inter Services Intelligence) a Haqqani, le cui azioni configurano una delle minacce maggiori alle truppe della coalizione e alle forze di sicurezza locali in Afghanistan. Il riferimento era ad una lunga serie di attacchi nei confronti di obbiettivi di grande rilievo psicologico in una sequenza crescente iniziata nel 2008.

La problematica relazione Washington - Islamabad risente non poco di questa ipoteca. Nella seconda metà del 2011 la già scarsa fiducia reciproca si è erosa ulteriormente mettendo a dura prova il legame tra le rispettive agenzie di Intelligence. A maggio, con l’uccisione di Osama Bin Laden in territorio pakistano sotto gli occhi “distratti” degli uomini dell’ISI, poi a fine novembre con l’incidente costato la vita a ventiquattro militari pakistani a causa di uno strike condotto dalle forze americane proprio al confine con l’Afghanistan. Nonostante il logoramento dei canali di comunicazione, la rottura tra le parti sembra uno scenario inconcepibile. Nonostante il dissidio, gli Stati Uniti hanno bisogno del Pakistan per arginare il terrorismo internazionale in gran parte di matrice pakistana di cui Islamabad è al contempo vittima e promotore.

L’intento della diplomazia americana è di evitare la trasformazione della relazione bilaterale in un gioco a somma zero. Le mosse sono volte a far si che l’establishmnent militare pakistano si adoperi perché cessino le azioni del network Haqqani contro le truppe della coalizione che moltiplicano le difficoltà del contingente internazionale di lasciare sul terreno una situazione gestibile dalle forze di sicurezza locali in vista del ritiro completo del dispositivo militare in assetto combat previsto per il 2014. Reflusso militare e surge diplomatico costituiscono i cardini di una strategia volta a rendere l’Afghanistan e il suo contesto regionale più stabili.

Preso atto dell’impossibilità della vittoria militare, si va alla ricerca di un’intesa politica che porti la riduzione della violenza nel Paese. Le prospettive di un accordo dipendono in primis dalla riconciliazione tra la leadership talebana i vari gruppi etnici, con la maggioranza relativa del Paese, i pashtun, e ovviamente, il governo di Amid Karzai. Questa soluzione politica richiede che la variabile fissa del meccanismo regionale, il Pakistan, sostenga l’intesa. L’uso degli insorti come strumento asimmetrico è però caposaldo della politica estera pakistana. Per questo la sponsorizzazione del network Haqqani, la più letale e sofisticata delle organizzazioni insurrezionali della galassia talebana, è una “naturale” scelta per Islamabad. I legami con il gruppo risalgono agli anni '90 quando il network è diventato il vessillo stesso del concetto di profondità strategica.

Le peculiarità di questo gruppo d’insorgenza, cruciale alleato di Al-Qaeda, lo rendono un grimaldello ideale per gli obbiettivi pakistani. Sebbene ufficialmente sotto l’ombrello dei talebani del Mullah Omar e della Shura di Quetta, il network di etnia pasthun mantiene rispetto a questi distinte linee di operazione. Esso opera a ridosso della “Linea Durand”, nelle agenzie pakistane che costituiscono la Loya Paktia. Il sud est dell’Afghanistan rimane la maggiore fonte d’instabilità per il Paese. Qui, oltre al dominio degli Haqqani, che si sono ritagliati una nicchia economica lucrativa sfruttando traffici e dazi imposti agli stessi talebani, si trovano gruppi d’insorgenza afghani (Hezb-e-islami)- e pakistani (Terik- i -Taliban Pakistan). I santuari di Haqqani si trovano nelle FATA, i territori tribali solo nominalmente controllati da Islamabad. La base operativa del network è a Miranshah, nel Nord Waziristan.

Si tratta di un’area che può definirsi “target rich enviroment”. Qui, nascosti nelle montagne tra Miramshah e il confine afgano, ci sarebbero almeno 2.000 militanti di Al Qaeda. Ad essi si aggiunge un universo di combattenti stranieri costituito da arabi, Uzbechi, Uiguri, Ceceni e Tagiki. Il Pakistan, pur vittima di alcuni di questi gruppi di militanza radicale si rifiuta di lanciare operazioni militari nell’area. Quest’atteggiamento è emblematico del peso specifico del network Haqqani per Islamabad. Il gruppo ha per il Pakistan una doppia valenza, come asset strategico della politica regionale anti-indiana e una funzione diplomatica interna, d’interlocutore privilegiato tra l’ISI e le varie leadership dei gruppi ostili a Islamabad.

Il non intervento nella regione ha però conseguenze dirette sull’andamento del conflitto in Afghanistan. L’esperienza storica mostra che l’esistenza di un retroterra logistico sicuro rende difficile sconfiggere l’insurrezione. L’inazione pakistana in proposito favorisce il rigenerarsi della militanza radicale nonostante le azioni mirate dei droni per decapitare la catena di comando del network. Per giunta la tempistica di ritiro del dispositivo militare dall’Afghanistan non favorisce il miglioramento delle condizioni di sicurezza in questa zona. Le scarse risorse a disposizione del Comandante ISAF, il Generale dei Marines, John F. Allen fanno si che nel sud est del Paese possano essere condotte solo operazioni di contro-terrorismo invece che di contro-insurrezione. Il surge del 2010 (30,000 uomini) è riuscito a bonificare le province di Helmand e Kandahar, roccaforti dei talebani della Shura di Quetta, con un inizio di trasferimento delle responsabilità della sicurezza alle Forze afgane. Tuttavia, a differenza di come previsto nel 2009, non ci sarà lo spostamento delle truppe verso l’est del Paese. Il ritiro delle unità impedisce cioè che anche nella roccaforte di Haqqani possa essere portata avanti la controinsurrezione che necessita notoriamente di un maggior numero di uomini sul terreno. Continueranno dunque le azioni mirate a decapitare i quadri del network rendendoli meno capaci di colpire Kabul con attacchi che, pur non mutando militarmente i significativi successi raggiunti, danno la percezione mediatica alla popolazione che gli insorti sono in grado di operare contro bersagli fortificati che il Governo locale non è in grado di proteggere. Nell’est il focus dell’azione ISAF non potrà essere diretto sulla “messa in sicurezza” della popolazione. Le operazioni di contro terrorismo contro gli Haqqani potrebbero però sortire il migliore dei risultati possibili in questo contesto. Ciò deriva dalla peculiarità di questo gruppo che ha una struttura meno orizzontale rispetto al resto dell’insorgenza ossia gerarchicamente ordinata ed il cui collante è costituito da legami familiari ed etno-tribali stretti.

I leader hanno una responsabilità diretta di guida strategica, operativa e, a volte, tattica. La rimozione dei quadri apicali ha effetti diretti sulle infrastrutture di C2. Sono questi gli stessi soggetti che interagiscono sia con elementi dell’ISI che con la leadership degli altri gruppi terroristici. La rimozione dei quadri senior e la pressione nella parte orientale dell’Afghanistan offrono le migliori possibilità di degradare l’operatività del network. A dieci anni dall’inizio del conflitto nelle regioni orientali del Paese servono strikes mirati, per cambiare la situazione sul terreno. Quasi paradossalmente e nonostante il surge diplomatico, la soluzione più efficace continua ad essere essenzialmente militare.

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