Il Kazakistan alle urne mentre gli oligarchi preparano il dopo Nazarbayev
Russia e Caucaso

Il Kazakistan alle urne mentre gli oligarchi preparano il dopo Nazarbayev

Di Lorenzo Marinone
27.04.2015

Il 26 aprile il Kazakhstan è tornato alle urne per le elezioni presidenziali, un anno prima della scadenza naturale del mandato, che era prevista per la primavera del 2016. Il Majlis (Camera Bassa) e il Senato, i due rami in cui è diviso il Parlamento, hanno ratificato questa decisione a metà febbraio, appena due mesi prima della scadenza elettorale. Il ritorno alle urne è apparso apparentemente in forte contrasto con la solidità della scorsa legislatura e dell’azione di governo. Nessuna opposizione, tanto in Parlamento quanto a livello di società civile, sembrava anche solo lontanamente in grado di rovesciare lo status quo e la preminenza dell’élite di potere, garantita dal controllo pressoché monolitico che il Presidente Nursultan Nazarbayev ha esercitato sulle istituzioni kazake per decenni.

Per la quinta volta dal 1991, anno in cui il Kazakhstan ha raggiunto l’indipendenza dall’Unione Sovietica, Nazarbayev ha trionfato alle presidenziali. Alle elezioni del 26 aprile il Presidente ha riportato il 97,7% dei voti validi, un risultato in linea con quelli degli anni precedenti. In passato, infatti, aveva vinto ad ogni tornata con percentuali attorno al 90%, in alcuni casi (come nel ‘91) senza alcun contendente. Il suo partito, Nur Otan (“Luce della Patria”), ha ottenuto regolarmente una maggioranza schiacciante in entrambe le Camere che ha garantito agli Esecutivi monocolore un larghissimo margine di azione. In alcune legislature, infatti, Nur Otan è stato l’unico partito ad ottenere una rappresentanza. Tali risultati trovano una spiegazione nei reiterati tentativi dell’élite al potere di annichilire qualsivoglia movimento di dissenso. Nessuna sessione elettorale è stata finora giudicata “libera ed equa” dagli osservatori internazionali, e spesso ai partiti di opposizione è stato perfino impedito di concorrere per mezzo di evidenti pressioni volte al ritiro tout court delle candidature più scomode, oppure a causa di presunte irregolarità nella raccolta delle firme per la registrazione delle liste. Diverse organizzazioni internazionali che vigilano sul rispetto dei diritti umani continuano da anni a registrare sistematiche e gravi violazioni rispetto ad un ampio ventaglio di diritti, una situazione che è peggiorata in modo considerevole soprattutto negli ultimi anni. Alle restrizioni sul diritto di riunione, sulla libertà di parola e di religione, si sono sommati soprattutto a partire dalla fine del 2011 la chiusura di diversi giornali non allineati alla volontà di Nazarbayev (come l’Assandi-Times), arresti e detenzioni arbitrari durante proteste di carattere pacifico, nonché processi a noti oppositori politici che sono stati viziati dal mancato rispetto dello stesso codice kazako e, in genere, con standard ben al di sotto di quelli auspicati dalle maggiori organizzazioni internazionali.

Tutte le elezioni presidenziali svoltesi finora sono state anticipate. Il motivo non va ricercato in un momento di crisi politica e istituzionale (che non si è mai palesato in quanto tale), quanto piuttosto nel modus operandi e nella conformazione stessa della struttura di potere creata da Nazarbayev. Questa è caratterizzata da un forte accentramento delle funzioni politiche e delle principali leve economiche del Paese nelle sue mani e si regge su un’intricata trama di rapporti politici, economici, etnici e familistici in equilibrio perennemente instabile. Ogni scadenza elettorale quindi rischia di venire usata da una o più fazioni per destabilizzare l’equilibrio attuale e allargare la propria sfera di influenza. Per evitare ribaltamenti repentini e radicali, tramite emendamenti ad personam della Costituzione, Nazarbayev ha eliminato il limite massimo di due mandati presidenziali consecutivi, misura che non si applicherà però ai suoi successori. Inoltre ha garantito per sé e la sua famiglia l’immunità giudiziaria. Questa disposizione limita il rischio che Nazarbayev o una delle sue influenti figlie, Dariga e Dinara, vengano colpiti da scandali e siano estromessi dalla guida del Paese. Tale modello finora ha retto garantendo decenni di stabilità al Kazakhstan, al contrario di quanto successo in altre Repubbliche centrasiatiche come il vicino Kirghizistan, dilaniato da scontri di piazza e rivoluzioni nel 2005 e nel 2010, o l’Uzbekistan travagliato da tensioni nella valle di Ferghana e dall’esplosione di fenomeni di insorgenza jihadista.

Tuttavia, un simile sistema solleva un pesante interrogativo circa il dopo-Nazarbayev. Il Presidente quasi 75enne è ormai prossimo a passare la mano, non fosse altro che per ragioni anagrafiche, ma sul meccanismo che regolerà la successione non vi sono certezze. In questo senso, anticipare di un anno le elezioni previste per il 2016 può essere un espediente per rimandare un passaggio-chiave, perché la transizione viene disgiunta da un confronto elettorale aperto e multipolare in favore di un percorso pilotato e univoco, che Nazarbayev può approntare senza eccessiva fretta nel corso del prossimo mandato.

Per comprendere quali siano gli equilibri attuali è necessario ripercorrerne la genesi, che inevitabilmente s’intreccia con l’ascesa al potere di Nazarbayev. L’attuale Presidente ottenne la carica di Primo Ministro del Kazakhstan nel 1984, dopo più di 20 anni di lenta scalata al Partito Comunista locale fino ai suoi vertici, dove arrivò senza apparenti meriti politici. Conquistò una posizione egemonica due anni più tardi, quando riuscì a costringere alle dimissioni (formalmente imposte da Mosca) il Segretario del Partito Comunista kazako Dinmukhamed Kunayev, in carica dal 1960, con una campagna contro la corruzione che si appoggiava a una retorica di orientamento riformista. La scelta del Cremlino, dove pure Nazarbayev poteva già contare sull’appoggio del Presidente Gorbachev (che scelse di offrirgli la carica di vice Presidente dell’Unione Sovietica nel 1990 in quanto kazako, posizione che lui rifiutò), ricadde però su Gennady Kolbin, un funzionario non di primissimo piano di origine russa alla sua prima esperienza politica nel Paese. La provenienza di Kolbin fu mal sopportata dal resto del Partito e da parte della popolazione, tanto che nel giugno del 1989 fu costretto a lasciare il posto proprio a Nazarbayev, figura più eminente ma soprattutto accettabile sotto il profilo etnico, dato che era originario di un piccolo villaggio vicino all’allora capitale Alma Ata, nel sud del Paese. Da allora Nazarbayev è riuscito a gestire la fase di transizione seguita alla dissoluzione dell’Unione Sovietica mantenendo sotto un’unica entità statuale le diverse etnie presenti nel Paese e arginandole tendenze separatiste, senza che la nuova fase sfociasse in rivolte locali rilevanti. Operazione non semplice poiché il Kazakhstan racchiude più di 140 etnie differenti, fra cui una forte minoranza russa (23%), oltre a quella uzbeka (2,9%), ucraina (2%) e uiguri (1,4%). Inoltre Nazarbayev ha dedicato un’attenzione particolare nel tessere nuovi rapporti economici e politici con i soggetti emersi nello spazio post-sovietico, così come con i due vicini più ingombranti, Russia e Cina, riuscendo a bilanciare la propria politica estera senza entrare eccessivamente nell’orbita dell’uno o dell’altro Stato.

Nel concretizzare questo passaggio Nazarbayev ha favorito una gestione prettamente oligarchica delle immense risorse naturali del Kazakhstan, ritagliando per sé la posizione di vero e proprio dominus. La più preziosa eredità sovietica consisteva in un settore, quello dell’industria pesante, che presentava ancora margini di sviluppo. Risorse abbondanti come petrolio, gas e uranio (di cui il Kazakhstan è il secondo Paese al mondo dopo l’Australia per riserve e detiene una quota di produzione a livello globale del 35%) hanno consentito un rapido rilancio dell’economia. Lo sviluppo del settore degli idrocarburi ha permesso di controbilanciare la contrazione delle esportazioni verso la Russia dei primi anni ’90, in particolare con l’avvio a fine 1996 dello sfruttamento del giacimento di Tengiz affacciato sul mar Caspio, con adeguamenti infrastrutturali per l’esportazione verso l’Europa.

Parallelamente è stato avviato un programma di riforme caratterizzate da una rapida privatizzazione di tutti i principali asset del Paese. Oltre a petrolio e gas, infatti, il Kazakhstan è ricco di carbone, ferro, rame, fosfati, bauxite e titanio. La creazione di un copioso numero di aziende private impegnate in questi settori, tuttavia, non può essere definito come un vero e proprio percorso di liberalizzazione dell’economia kazaka, in quanto furono fin dal principio controllate da poche figure, che si arricchirono grazie alle concessioni e ai favori erogati dal nascente regime politico, cui rimangono non solo legate ma dipendenti a tutt’oggi. In tal modo, Nazarbayev è riuscito a imbrigliare e rendere più stabile un fenomeno, come quello dell’ascesa di oligarchie situate a cavallo fra la politica e il potere economico, che ha caratterizzato grosso modo l’intero spazio post sovietico.

Lo sviluppo però non ha riguardato in modo omogeneo l’intero Kazakhstan. Se è vero che il PIL a partire dagli anni 2000 è cresciuto anche con percentuali a doppia cifra, la distribuzione della ricchezza ha lasciato le steppe centrali del Paese e larga parte del sud in condizioni arretrate. Le regioni a maggiore industrializzazione sono quelle nord-orientali (Nord Kazakhstan, Pavlodar, Est Kazakhstan e Astana), come già in epoca sovietica. A queste vanno aggiunte le aree costiere attorno al mar Caspio dove sono presenti i bacini di idrocarburi. Tale distribuzione riveste una certa importanza dato che si sovrappone pressoché perfettamente a quella della minoranza russa (in quelle regioni a volte predominante sulle altre), fatto che fin dall’indipendenza ha alimentato spinte separatiste, concretizzatesi però soltanto in brevi rivolte a Oskemen e Semey (Est Kazakhstan) fra il 1999 e il 2000 e in scontri sporadici al sud, presso il confine con Uzbekistan e Kirghizistan, la cui fase più critica si è svolta in concomitanza con le rivolte che hanno interessato quei Paesi fra 2010 e 2011.

Lo sviluppo diseguale, unito alla concentrazione di poli industriali e al passaggio da un’economia prettamente centralizzata a una più aperta all’iniziativa privata, ha quindi delineato un quadro in cui le élites che detenevano il potere politico al momento dell’indipendenza hanno potuto sfruttare ogni leva economica per consolidare la propria posizione. La creazione di colossi come KazMunaiGaz, Kazakhstan Electricity Grid Operating Company (KEGOC), KazakhTelecom e Tay-Ken Samruk National Mining Company, oltre alla sostanziale mancanza di concorrenza in ciascun settore hanno permesso a ristretti gruppi di persone di controllare in modo pressoché totale l’economia del Paese, favorendo pertanto la nascita di un vero e proprio conglomerato clientelare interdipendente rispetto alla classe politica. A dispetto delle più volte annunciate riforme in direzione del libero mercato, la situazione reale mostra come sia la politica stessa ad avere il più profondo interesse nel mantenere una condizione monopolistica. A tal riguardo si può citare la creazione nel 2008 del National Welfare Fund Samruk-Kazyna, la cui architettura finanziaria si colloca a metà fra fondo sovrano e società per azioni. Tramite il Samruk-Kazyna, che possiede la totalità o più spesso quote di maggioranza nei principali asset del Paese, è possibile controllare più della metà del PIL nazionale. È il Presidente Nazarbayev insieme ai suoi più stretti collaboratori a scegliere chi guida questo fondo.

Benché sia Nazarbayev in prima persona e da solo a guidare effettivamente il Paese e certamente eserciti un’influenza che non trova paragoni in quello di qualsiasi suo alleato, la commistione fra il piano politico e quello economico permette tuttavia la presenza di una molteplicità di protagonisti. Le loro alleanze variabili hanno determinato spesso cambiamenti anche ai vertici delle istituzioni. In pratica dal 1991 Nazarbayev ha continuamente tentato di arrestare l’ascesa di chiunque dimostri una verosimile ambizione di guidare il Paese, spesso con la redistribuzione degli incarichi. Su questo sfondo va considerato un secondo elemento, decisivo per comprendere le possibili dinamiche che si svilupperanno una volta messo in moto il meccanismo della successione. Ad assicurarsi il controllo delle fette più consistenti dell’economia kazaka infatti sono le due figlie maggiori di Nazarbayev, Dariga e Dinara. Queste, tramite il benestare politico del padre e un’accorta strategia di matrimoni e alleanze, hanno guadagnato con gli anni una solida posizione anche nel tessuto economico del Paese, tanto che i loro patrimoni sono fra i cinque più consistenti a livello nazionale. Una tale situazione rende altamente probabile che il successore di Nazarbayev faccia parte della cerchia più ristretta della sua famiglia (figlie, generi o nipoti). Cedere il potere politico a una personalità esterna, benché fidata, esporrebbe i famigliari e i loro interessi economici a rischiose rese dei conti. Pertanto appare improbabile che la competizione assuma fin dal principio le caratteristiche di uno scontro frontale e dichiarato, mentre potrebbe risultare più efficace una strategia volta all’isolamento tramite una progressiva estromissione degli alleati dai posti di potere.

Questa dinamica è già stata utilizzata da Nazarbayev contro le sue stesse figlie Dariga e Dinara, ogniqualvolta le loro ambizioni venivano giudicate premature. La figlia maggiore, Dariga, viene da anni considerata come la candidata più probabile alla successione. Dopo aver fondato la principale agenzia di stampa del Paese, Khabar, sposò nel 1983, appena ventenne, Rakhat Aliyev, uomo politico di primissimo piano che ha ricoperto incarichi politici di prestigio (vice capo dei Servizi Segreti kazaki e vice Ministro degli Esteri). Durante questo periodo Aliyev è riuscito ad arricchirsi considerevolmente, estendendo i suoi interessi in molteplici settori (bancario, estrattivo, media e telecomunicazioni). Nei primi anni 2000 Dariga decise di entrare anch’essa in politica, probabilmente per consolidare la propria posizione, ma allarmando Nazarbayev. Dariga infatti fondò nel 2004 un suo partito (Asar, “Tutti insieme”), col quale si presentò alle elezioni legislative dello stesso anno raccogliendo l’11% dei voti e 4 seggi su 77. Non si trattò di un risultato effettivamente rilevante, dato che il Parlamento restava saldamente sotto il controllo del partito di Nazarbayev. Ma Dariga impostò la sua campagna elettorale su temi riformisti in chiara opposizione alle politiche del padre, e si spinse fino al punto di criticarlo apertamente. La contromossa di Nazarbayev arrivò poco tempo dopo: lo Stato comprò il 100% delle quote di Khabar, sottraendo così un media alla possibile propaganda di opposizione. Dopo poco Dariga decise di sciogliere il proprio partito per aderire direttamente a quello del padre, mentre Aliyev veniva “promosso” ambasciatore in Austria.

Appena due anni dopo le ambizioni di Dariga furono nuovamente bloccate. Aliyev infatti venne coinvolto in uno scandalo di enormi proporzioni che lo estromise definitivamente e costrinse Dariga a chiedere il divorzio. Aliyev fu accusato di essere il mandante dell’omicidio di due oppositori politici avvenuto nel 2006 (Altynbek Sarsenbaev e Zamanbek Nurkadilov), di riciclaggio di denaro e della tortura di due guardie del corpo dell’ex premier Akezhan Kazhegeldinov con lo scopo di costringerli a confessare che il loro capo stesse preparando un colpo di Stato. Per Dariga ogni velleità di ribaltare l’equilibrio di potere era svanita. Il 24 febbraio 2015, subito dopo l’annuncio di elezioni anticipate, Aliyev è stato trovato impiccato nel carcere di Vienna dove era detenuto in attesa di processo. Pochi giorni prima aveva annunciato di voler fare rivelazioni importanti su presunti casi di corruzione che implicherebbero direttamente il suo ex suocero Nazarbayev.

Tuttavia, nell’ultimo periodo Dariga sembra aver riconquistato il favore di Nazarbayev. Dal 2012 e nel volgere di poco tempo è diventata deputata per Nur Otan, poi capogruppo al Majlis e infine segretaria del Partito. Il ritorno al potere di Dariga e della sua cerchia è sottolineato anche dall’ascesa del figlio maggiore, il 30enne Nurali, che nel dicembre 2014 è stato nominato vicesindaco di Astana, posizione che gli permette di acquisire esperienza politica sotto la tutela del sindaco Adilbek Dzhaksybekov, un fedelissimo di Nazarbayev. Nurali ricopre già incarichi di alto livello soprattutto nel settore bancario, fra cui la direzione di Nurbank e Development Bank of Kazakhstan, due dei maggiori istituti del Paese.

La vicenda della seconda figlia di Nazarbayev, Dinara, ha ricalcato in molti punti quella di Dariga. Dinara è a capo di un vero e proprio impero economico che ha costruito insieme al marito Timur Kulibayev. I loro interessi spaziano dal settore bancario (tramite la compagnia d’investimento Almex controllano la seconda banca del Paese, la Halyk Bank) a quello energetico. Kulibayev ha guidato le principali aziende di idrocarburi del Kazakhstan, fra cui KazTransOil, KazMunayGaz, ma soprattutto è stato a capo del fondo Samruk-Kazyna. Anche le chances di Kulibayev, però, hanno subìto una pesante battuta d’arresto. Nel maggio del 2011 a Zhanaozen, importante centro del sud-ovest legato agli idrocarburi del vicino mar Caspio, scoppiò la più grande rivolta della storia recente del Paese, guidata dai lavoratori delle aziende del settore energetico e fomentata anche da alcuni esponenti del Democratic Choice of Kazakhstan (DCK), l’unico partito a costituire una qualche forma di opposizione. Le sommosse durarono fino a dicembre, quando Nazarbayev si risolse a reprimere il dissenso tramite l’uso della forza, anche per evitare che si allargassero ad altre zone del Paese in occasione delle vicine elezioni. Ma soprattutto approfittò di quel frangente per costringere Kulibayev a dimettersi dal Samruk-Kazyna, che controlla importanti quote delle società interessate dagli scioperi. Non è improbabile che Nazarbayev temesse che dietro all’eccezionale durata della rivolta si nascondesse, oltre al DCK, anche l’intervento di Kulibayev, che in quel momento si trovava in una posizione ottimale per approfittare di una situazione destabilizzata ed eventualmente mirare a sostituirsi a Nazarbayev ai vertici dello Stato. Come nel caso di Dariga, anche Dinara negli ultimi mesi sembra essersi riavvicinata al padre. Lo suggerisce il ritorno sulla poltrona di Premier di Karim Massimov, che aveva ricoperto questa carica dal 2007 al 2012, dimettendosi (con tutta probabilità su pressione di Nazarbayev) pochi mesi dopo i fatti di Zhanaozen. Massimov, che in passato aveva già ricoperto gli incarichi di Ministro dell’Economia, dei Trasporti e delle Comunicazioni, viene considerato fra gli esponenti politici più legati a Kulibayev.

Il trattamento riservato da Nazarbayev alle sue stesse figlie non differisce per durezza da quello toccato ai più strenui oppositori del regime. Emblematico è il caso di Mukhtar Ablyazov, fondatore e leader di spicco del DCK nel 2001 dopo aver guidato sotto l’ala di Nazarbayev i Ministeri dell’Energia, dell’Industria e del Commercio. La nascita del DCK segna forse l’unico grave momento di crisi politica del Paese, con esponenti di primo piano del partito egemone che ne fuoriescono senza però abbandonare gli incarichi istituzionali che ricoprivano in quel momento. Ablyazov fu messo fuori gioco da uno scandalo che riguardava la BTA Bank, che lui controllava fin dal 1998, quindi scarcerato dietro la promessa di disinteressarsi della vita politica. Ablyazov però si rifugiò all’estero e continuò ad opporsi frontalmente a Nazarbayev, sia utilizzando il suo impero mediatico (il canale tv K+, i giornali Vzglyad e Golos Respubliki, più altri media minori) per propaganda e per dare la piena copertura degli eventi di Zhanaozen del 2011, sia svelando interessi e legami al limite della legalità fra il Presidente e multinazionali come il colosso del settore estrattivo Glencore. La risposta di Nazarbayev si concentrò sulla moglie di Ablyazov, Alma Shalabayeva, presa in carico dalle forze dell’ordine italiane in una villa di Casal Palocco a Roma nel maggio 2013 e estradata in Kazakhstan (ma lo scandalo che questa mossa creò costrinse Astana a rilasciarla). Poco dopo Ablyazov veniva arrestato in Francia dove è tuttora in attesa di processo, ma soprattutto è impossibilitato nello svolgimento di qualsiasi attività di opposizione politica.

L’orientamento di Nazarbayev rispetto alle ambizioni di Dariga e Dinara, volto a impedire ad entrambe di raggiungere un ruolo egemone in vista della successione al potere ma, allo stesso tempo, attento a non estromettere nessuna delle due, potrebbe avere un esito tendenzialmente destabilizzante. Questa corsa a due infatti avrà probabilmente un solo vincitore, poiché l’ipotesi di una spartizione fra le due sorelle è uno scenario che apre a una profonda instabilità. Infatti ciascuna, in forza della vastità e dell’influenza della propria rete clientelare di alleanze, rappresenta necessariamente un pericolo per l’altra. Specularmente, la scelta del successore dovrebbe essere presa direttamente da Nazarbayev, affinché il futuro Presidente possa muoversi in un clima di relativa stabilità senza giungere ad una “resa dei conti” dagli esiti imprevedibili per l’intero Paese.

Tuttavia, una soluzione alternativa potrebbe consistere in uno scenario che preveda una fase di transizione pilotata per garantire perlomeno continuità alle istituzioni. Questa ipotesi si sta peraltro già lentamente preparando, perché ha un’indiscutibile utilità nel caso si venisse a creare un vuoto di potere qualora Nazarbayev dovesse scomparire improvvisamente.

La figura di riferimento in questo scenario potrebbe essere Kassym-Jomart Tokayev, un politico di lungo corso e di provata fedeltà verso Nazarbayev, che nel 2013 è stato nominato Presidente del Senato, carica che secondo la Costituzione ha il compito di reggere il Paese in caso il Presidente sia incapacitato o muoia. Tokayev sembra avere le carte in regola per svolgere il ruolo di traghettatore, forte della grande esperienza politica e della legittimità acquisita anche in contesti internazionali nel corso degli anni (Premier fra il 1999 e il 2002, Ministro degli Esteri dal 1994 al 1999 e dal 2002 al 2007, Direttore Generale dell’Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra fra 2011 e 2013).

Un profilo simile potrebbe essere trovato nell’attuale Ministro della Difesa Imangali Tasmagambetov, già Premier, sindaco di Astana e Alma Ata, e considerato pressoché equidistante dai gruppi finanziari-industriali in competizione attualmente. Una terza alternativa potrebbe essere Nurtai Abykayev, attuale direttore dei Servizi Segreti, anch’egli con una lunga esperienza di Governo alle spalle e ritenuto altrettanto fedele a Nazarbayev quanto Tokayev, rispetto al quale si pone in netta contrapposizione tanto che viene tradizionalmente considerato il maggior concorrente del Presidente del Senato.

Oltre a evitare un’eccessiva destabilizzazione, una figura come Tokayev, Tasmagambetov o Abykayev potrebbe anche gestire un’eventuale “parlamentarizzazione” del momento di successione, portando le Camere a ripristinare un maggiore equilibrio dei poteri e quindi travasando alcune competenze e prerogative dal Presidente al Parlamento. In tal modo il successore avrebbe sì meno margini di azione, ma per ciò stesso sarebbe necessariamente costretto a trovare nelle istituzioni stesse una piattaforma di dialogo con gli altri aspiranti alla successione. Il vantaggio immediato sarebbe impedire che il Paese sprofondi in una feroce lotta tra fazioni rivali. Tuttavia questo scenario presenta un forte rischio dal punto di vista di una soluzione dinastica. Poiché nessuno dei profili individuati sembra avere realmente il controllo di una parte importante della vita economica del Paese, è possibile che la fase di transizione venga vista dagli oligarchi come un pericolo per le proprie aziende, che fino a questo momento hanno beneficiato enormemente proprio di un rapporto osmotico con il potere politico.

Nel caso in cui la scelta del successore cadesse su una figura eccessivamente debole, il conseguente vuoto di potere, seppur parziale, potrebbe favorire l’affermazione di gruppi la cui influenza è finora legata ufficialmente al solo campo economico, ma che avrebbero relativa facilità ad approfittare del momentaneo indebolimento del tradizionale contraltare politico per insediarsi anche a quel livello. In particolare, le figure che più potrebbero trarre beneficio da uno scenario del genere sono Alexander Mashkevitch, Patokh Chodiev e Alijan Ibragimov, oligarchi che tramite l’Eurasian Natural Resources Corporation (Eurasia Group) controllano quote rilevanti delle maggiori società impegnate nel settore estrattivo, energetico e finanziario, con interessi che spaziano dall’Asia Centrale all’Africa sub sahariana, al Brasile e alla Cina. La particolarità della posizione dei vertici di Eurasia Group, al di là dell’influenza che possono esercitare su circa un terzo del PIL kazako, è costituita dal loro ruolo di interlocutori privilegiati con gli investitori esteri, nello specifico con multinazionali del petrolio e del gas come Chevron e ExxonMobil. Qualora questo scenario si realizzasse, il tradizionale equilibrio garantito dalla precisa dialettica fra polo politico e polo economico, dove il primo ha in definitiva un peso prevalente sul secondo, potrebbe venire fortemente modificato a vantaggio degli interessi economici che legano gli investitori esteri agli oligarchi locali, e portare a sostanziali cambiamenti che andrebbero a interessare l’intero Paese. In particolare, le spinte separatiste delle regioni più industrializzate e a forte minoranza filorussa del nord-est del Kazakhstan, ma anche (seppur indirettamente) quelle causate da attriti etnici nelle zone meridionali al confine con Uzbekistan e Kyrghizistan, potrebbero trarre nuovo vigore dalla prospettiva di una riduzione dei propri privilegi e approfittare di un periodo di vacanza del potere centrale.

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