La trasformazione della minaccia salafita nelle Filippine: il caso Abu Sayyaf Group
Asia e Pacifico

La trasformazione della minaccia salafita nelle Filippine: il caso Abu Sayyaf Group

Di Francesca Manenti
11.12.2014

Le origini del movimento
Conosciuto anche con il nome di Mujahedeen Commando Freedom Fighters (MCFF), il gruppo Abu Sayyaf (ASG) nasce nei primi Anni ‘90 sull’isola di Basilan, nelle Filippine meridionali, su iniziativa di Abdurajak Janjalani, accademico islamista formatosi in Libia, in Siria e in Arabia Saudita, Paesi nei quali era entrato in contatto con le interpretazioni più radicali dell’Islam salafita, e, presumibilmente, unitosi alle fila dei mujaheddin stranieri contro l’Unione Sovietica durante la guerra in Afghanistan. L’esperienza afghana è stata una tappa fondamentale per il percorso formativo di Janjalani non solo perché gli ha consentito di acquisire expertise operative ma soprattutto ha permesso al futuro leader di ASG di entrare in contatto con la leadership di al-Qaeda e, attraverso di essa, di stabilire dei legami preziosi per il futuro finanziamento e addestramento del gruppo filippino. Sono ormai noti, infatti, i frequenti contatti tra Janjalani e Mohammed Jamal al-Khalifa, cognato di Bin Laden e gestore di un fitto network di società e di organizzazioni non governative utilizzate come tramite per erogare i finanziamenti di al-Qaeda in tutto il sud Est asiatico. Sarebbe stato proprio attraverso la sede filippina dell’Islamic Relief Organization (IRO), capeggiata da Khalifa, che Janjalani avrebbe reperito le risorse necessarie per costituire un gruppo di ispirazione jihadista impegnato per l’istituzione di uno Stato Islamico nel territorio filippino.

Terminato l’impegno sul fronte afghano, infatti, Janjalani ha deciso di cercare di applicare i precetti dell’interpretazione wahabita dell’Islam all’interno della società filippina e di coniugare il concetto di jihad con le rivendicazioni separatiste storicamente presenti nei territori meridionali dell’arcipelago filippino (Mindanao, Basilan, Sulu, Tawi-Tawi e Palawan). Questa regione, conosciuta anche con il nome di Bangsamoro (il regno dei Mori), infatti, è stata l’enclave natale dei primi movimenti indipendentisti islamici, sviluppatesi già a partire dalla dichiarazione di indipendenza dello Stato nel 1946. Raccogliendo l’eredità di quei guerriglieri musulmani che in passato si erano opposti al tentativo da parte di potenze straniere (gli spagnoli, prima, e gli americani, poi) di importare il cattolicesimo nel Paese, infatti, in questa regione i movimenti ribelli islamici si sono ben presto organizzati come gruppi armati strutturati, il Moro National Liberation Front (MNLF) e, successivamente, il Moro Islamic Liberation Front (MILF), in lotta contro il governo centrale per ottenere l’indipendenza dell’isola di Mindanao.

All’interno di questo tessuto sociale, fortemente orientato all’irredentismo e sensibile al risentimento nei confronti della maggioranza cattolica, dunque, ASG ha mosso i primi passi, dapprima come costola di un gruppo religioso di matrice radicale impegnato in attività di proselitismo e propaganda nell’isola di Basilan (Jamaa Tableegh) e poi come gruppo autonomo che, grazie alla notorietà del suo leader, ha raccolto rapidamente consensi anche nella limitrofa penisola di Zamboanga e nelle isole di Jolo, Sulu e Tawi-Tawi. Il successo dei sermoni di Janjalani e il fascino suscitato dall’idea di stabilire uno Stato Islamico nei territori meridionali dell’arcipelago filippino hanno rappresentato un richiamo per giovani militanti desiderosi di indebolire il governo centrale e pronti a coordinare i propri sforzi per portare avanti la comune causa jihadista nel Paese. La consacrazione all’interno del panorama insurrezionale filippino è avvenuta tra il 1991 e il 1992, in seguito all’attentato contro la M/V Doulos, nave missionaria cristiana colpita da una granata al porto di Zamboanga, e all’uccisione del missionario italiano Salvatore Carzedda, episodi che non solo segnano l’inizio effettivo dell’operatività del gruppo ma che, di fatto, lo rendono noto con il nome di Abu Sayyaf, pseudonimo scelto da Janjalani (e, fino a quel momento utilizzato durante le sue prediche) in onore al mujaheddin afghano Abdul Rasul Sayyaf, che aveva accolto e addestrato i combattenti stranieri durante la guerra in Afghanistan.

Per scongiurare che la mancanza di unità territoriale tra le cellule del gruppo, dislocate sulle diverse isole da Mindanao a Tawi-Tawi, potesse comprometterne l’efficienza, Janjalani aveva deciso di conferire al movimento una struttura ben definita. Il nucleo centrale era rappresentato dall’Islamic Executive Council (IEC), organo preposto alla pianificazione e alla definizione della strategia del gruppo. Era composto da 15 emiri e presieduto dallo stesso Janjalani. Dall’IEC dipendevano due comitati: il Jamiatul Al-Islamia Revolutionary Tabligh Group, addetto alla raccolta fondi e all’istruzione, e l’Al-Misuaratt Khutbah Committee, incaricato di organizzare le sommosse e indirizzare la propaganda. La struttura si completava poi con il braccio armato del gruppo, il Mujahideen Al-Sharifullah, diviso in tre branche operative: il Demolition Team, formato da combattenti esperti (spesso con un passato da mujaheddin in Afghanistan) in grado di costruire mine ed esplosivi da impiegare durante le operazioni del gruppo; il Mobile Force Team, formato da professionisti all’interno della società civile incaricati di consolidare la rete esterna al gruppo e trovare nuove reclute; il Campaign Propaganda Team, anch’esso formato da professionisti, soprattutto del mondo accademico, e da uomini d’affari addetti al reperimento di informazioni essenziali all’attività del Mujahideen Al-Sharifullah.

Oltre ai giovani affascinati dall’abilità retorica di Janjalani, il gruppo ha inizialmente trovato un bacino di reclutamento preferenziale tra quei militanti del MNLF che, delusi dal processo negoziale aperto dal gruppo con il governo di Manila, avevano iniziato a guardare ad Abu Sayyaf come ad una possibile alternativa per portare avanti la causa irredentista contro le autorità centrali. L’appetibilità del gruppo agli occhi dei miliziani indipendentisti era determinata anche dalla possibilità di accedere, attraverso ASG, a veri e propri programmi di addestramento direttamente gestiti da esponenti di al-Qaeda, in primis da Ramzi Yussef, nipote del più famoso Khaled Sheik Mohammed, nonché autore del primo attentato contro il World Trade Center di New York nel 1993, che nei primi Anni ‘90 trovava nei rifugi di Abu Sayyaf un prezioso appoggio per portare avanti l’agenda qaedista nella regione. Sembra ormai essere ampiamente confermato, infatti, il coinvolgimento di esponenti di ASG nel progetto Bojinka, operazione antesignana dell’attentato dell’11 settembre, ma fallita ancor prima di essere realizzata, che avrebbe dovuto portare all’esplosione di 11 aerei in volo verso gli Stati Uniti e all’uccisione di Papa Giovanni Paolo II, in visita a Manila nel gennaio del 1995. La neutralizzazione del piano e, successivamente, l’interruzione del supporto finanziario di al-Qaeda, causato dalla scoperta e conseguentemente dallo smantellamento delle società riconducibili alla famiglia di Bin Laden (tra cui anche le ONG gestite dal cognato al-Khalifa), hanno però costretto Abu Sayyaf a dover cercare nuovi canali da cui reperire le risorse necessarie a portare avanti la propria attività. A tale scopo, nella seconda metà degli Anni ’90 il gruppo ha iniziato a spostare il proprio focus da obiettivi prettamente religiosi (quali erano stati le missioni cristiane nel Paese) ad attività di natura prettamente criminale e, di fatto, più lucrative. E’ in questo periodo, infatti, che il gruppo comincia a stringere primi contatti con la criminalità organizzata urbana, spesso gestita da importanti uomini d’affari delle città meridionali che fungevano da facilitatori per il riciclaggio del denaro e il mercato nero, e a dedicarsi ad attività di pirateria, riuscendo così ad inserirsi nel flusso di denaro prodotto dal traffico di armi, di droga e di prodotti contraffatti.

La definitiva marginalizzazione della spinta ideologica alla base delle azioni del gruppo è stata sancita dalla morte improvvisa di Janjalani nel 1998, avvenuta in seguito ad uno scontro con la Philippine National Police (PNP) sull’isola di Basilan. Venuto a mancare l’ideologo e il trascinatore spirituale del gruppo, infatti, la struttura precedentemente descritta ha perso la propria organicità e gli emiri, prima riuniti dall’IEC, sono diventati comandanti di cellule sempre più autonome le une dalle altre. Tale tendenza è stata inevitabilmente accentuata anche dalla conformazione geografica dell’arcipelago filippino: la distanza territoriale esistente tra le diverse isole, infatti, ha favorito la progressiva atomizzazione del movimento in gruppi di miliziani pienamente autosufficienti in termini di reperimento delle risorse e di capacità operativa. Nonostante l’indipendenza delle diverse cellule, tuttavia i membri del gruppo hanno sempre preferito continuare ad operare sotto il nome di Abu Sayyaf per poter sfruttare la notorietà, interna e internazionale, a cui ormai il marchio era stato associato.
Tra la fine degli Anni ’90 e i primi del Duemila, dunque, ASG era diviso in due branche principali, seppur ciascuna fortemente eterogenea al proprio interno: una basata a Basilan e un’altra sull’isola di Sulu. La prima era guidata da Khaddafi Janjalani, fratello minore di Abdurajak e nominato nuovo leader alla morte di quest’ultimo: oltre agli uomini da sempre fedeli alla famiglia Janjalani, componevano questa cellula anche il gruppo dell’emiro Isnillion Hapilon, comandante dell’ala più operativa (circa trenta uomini) e quello di Abu Sabaya, responsabile della pianificazione e dell’amministrazione. La cellula di stanza a Sulu, invece, era capeggiata da Galib Andang, noto anche con il nome di Comandante Robot, ed era la branca maggiormente focalizzata sui rapimenti a scopo di estorsione: nel solo biennio 2000-2001, sarebbero circa 140 i cittadini, sia occidentali sia asiatici, rapiti dal gruppo, la maggior parte dei quali rilasciati in seguito al pagamento di ingenti somme da parte delle famiglie o dei governi di appartenenza degli ostaggi. La facilità di guadagno legata ai riscatti ha ben presto fatto del rapimento il principale metodo di finanziamento del gruppo.

L’impatto dell’11 settembre e lo sviluppo del gruppo nel nuovo Millennio
In seguito all’attentato alle Torri Gemelle nel 2001, il governo di Manila ha potuto intensificare la propria azione contro i miliziani di Abu Sayyaf grazie al coordinamento e al supporto ricevuto dagli Stati Uniti. Identificato il versante Pacifico come il secondo fronte per la guerra al terrorismo, l’Amministrazione dell’allora Presidente George W. Bush, infatti, ha lanciato, nel dicembre dello stesso anno, l’operazione Enduring Freedom Philippines, allo scopo di sradicare la minaccia terroristica dal Paese. In questo contesto, tra il 2001 e il 2003, circa 1.200 membri del Special Operation Coomand Pacific (SOPAC) di Washington sono stati dispiegati in supporto delle Forze di sicurezza di Manila dapprima nell’isola di Basilan e, successivamente, affiancati anche dalle Forze Speciali statunitensi, nell’isola di Sulu.

Se, da un lato, la campagna militare è riuscita effettivamente ad assottigliare le fila del gruppo e ad eliminare miliziani di alto profilo, dall’altro, tuttavia, la perdita di numerosi comandanti operativi e la percezione di una reale minaccia comune, di fatto, ha contribuito a ridimensionare la competitività delle diverse cellule e, conseguentemente, ad incentivarle a ridefinire un’agenda unitaria per incrementare la propria capacità di risposta alle autorità centrali. Ricompattato il fronte interno, Abu Sayyaf è così tornato ad essere una consistente minaccia per la sicurezza regionale. In particolare, in un momento in cui i governi della regione, negli anni precedenti non sempre particolarmente propositivi nella lotta alla minaccia terroristica nel proprio territorio, cominciavano ad adottare il pugno di ferro contro i gruppi locali per far fronte all’acutizzarsi dell’azione jihadista all’interno dei confini nazionali, la rinnovata operatività del gruppo filippino ha fatto sì che altre realtà dell’area abbiano guardato ad Abu Sayyaf come ad una possibile sponda per consolidare il fronte radicale nella regione. E’ in questo contesto, infatti, che si consolidano i contatti tra ASG e alcuni membri di Jemaah Islamiyah (JI), gruppo islamico indonesiano di matrice radicale, affiliato al network di al-Qaeda e con un’agenda orientata all’istituzione della sharia nel Paese. E’ ormai nota l’addestramento impartito da Dulmatin e Umar Patek, comandanti di JI e presumibilmente tra gli ideatori dell’attentato di Bali nel 2002, ai miliziani filippini allo scopo di rafforzarne l’expertise nella fabbricazione di ordigni esplosivi da impiegare nelle proprie operazioni. La collaborazione con il gruppo indonesiano è stata fondamentale ad Abu Sayyaf per riuscire a portare a termine con successo i tre grandi attentati che gli hanno permesso di essere annoverato tra i principali gruppi terroristici internazionali: l’attentato al Francisco Bangoy International Airport di Davao City (2003), durante il quale sono rimaste uccise 21 persone, l’esplosione del Superferry 14 nella baia di Manila nel febbraio 2004, che ha causato 116 vittime e, infine, le esplosioni simultanee nelle tre città di Makaty City, Davao City e General Santos City, conosciute come l’attentato di S.Valentino nel 2005, che ha provocato 8 vittime e il ferimento di circa 96 persone.

A fronte dell’effettivo acutizzarsi della minaccia terroristica nel Paese, l’incremento dello sforzo congiunto di Washington e Manila, con il lancio nel 2006 dell’operazione Oplan Ultimatum, ha progressivamente portato non solo allo sfoltimento delle fila di militanti (ridotti a circa 200 unità nell’arco di un anno), ma soprattutto all’eliminazione dei miliziani di più alto profilo, tra cui lo stesso Khaddafi e, conseguentemente, ha logorato la rete del gruppo sul territorio. Impossibilitate ad organizzare azioni sistematiche all’interno del Paese a causa del massiccio dispiegamento delle Forze di sicurezza filippine, le cellule rimaste hanno cercato di ripiegare sul fronte marittimo e di capitalizzare la propria abilità negli spostamenti via mare e la propria conoscenza della geografia insulare dell’area per portare avanti l’attività nella regione. In questo modo, il gruppo ha indirizzato nuovamente il proprio focus su pirateria, criminalità organizzata e rapimenti a scopo di estorsione, abbandonando, di fatto, qualsiasi vocazione jihadista all’interno della propria agenda. L’effettivo flusso di denaro che questo cambiamento ha portato alle casse del gruppo ha rappresentato un importante fattore di attrazione per giovani leve che hanno iniziato a guardare alla possibilità di entrare tra le fila dei miliziani affascinati dalla facilità del guadagno più che per autentiche rivendicazioni di irredentismo nei confronti del governo centrale. Con uno stipendio fisso di circa 200 dollari al mese e una razione di riso mensilmente assicurata, molti adolescenti provenienti dai villaggi più poveri delle isole meridionali hanno scelto di sposare la causa di ASG per garantire alle proprie famiglie una forma di sostentamento che spesso lo Stato non è in grado di erogare. L’adesione al gruppo diventa così la miglior prospettiva per molti giovani, i quali, senza alternative né aspettative future, rappresentano un considerevole bacino di reclutamento per Abu Sayyaf, indispensabile sia per incrementare la capacità operativa della militanza sia per assicurarsi un radicamento sul territorio.

Conclusioni e prospettive future
Con un’agenda prettamente orientata sul fronte interno e un interesse operativo circoscritto alla necessità di reperire fondi e risorse da spartire all’interno del gruppo, negli ultimi sei anni Abu Sayyaf non ha rappresentato una priorità per la strategia di sicurezza della Comunità Internazionale. Tuttavia, la dichiarazione di alleanza all’autoproclamatosi Califfo al-Baghdadi in Siria e in Iraq, annunciata la scorsa estate da uno degli attuali leader del gruppo, Hapilon, ha inevitabilmente riportato l’attenzione sul problema della militanza nell’arcipelago filippino. Nonostante la presunta vicinanza di ASG con lo Stato Islamico (IS) abbia fatto temere, almeno inizialmente, una possibile espansione della propaganda di al-Baghdadi anche nell’area del Pacifico, l’adesione del gruppo filippino ad IS si è ben presto rivelata un tentativo di entrare a far parte di quello che si sta sempre più accreditando come il nuovo network del terrorismo internazionale di matrice islamica: più che ad una rinnovata affiliazione all’internazionalismo jihadista, infatti, il plauso per il progetto di al-Baghdadi sarebbe riconducibile alla volontà di beneficiare di eventuali nuovi flussi finanziari provenienti dal Califfato e di accrescere il proprio peso contrattuale durante le trattative per eventuali riscatti. Una conferma in questa direzione sembra arrivare dalla recente liberazione dei due ostaggi tedeschi, Stefan Viktor Okonek e Henrike Dielen rapiti lo scorso aprile al largo delle isole Sulu (nel sud delle Filippine). Nonostante tra le richieste preliminari per il rilascio dei due cittadini europei rientrasse anche il ritiro del sostegno di Berlino alla coalizione internazionale contro IS, il pagamento di un riscatto di circa 5.6 milioni di dollari è bastato al gruppo per acconsentire allo scambio. La marginalizzazione dell’aspetto ideologico conseguita in questi anni, infatti, ha ridimensionato la sensibilità delle cellule di ASG alla propaganda e al richiamo del jihad internazionale e, conseguentemente, ha reso meno probabile un’eventuale radicalizzazione all’interno del gruppo. Non appare causale, infatti, che dei circa 200 dei così detti foreigner fighters provenienti dal Sud Est asiatico attualmente impegnati a combattere tra le file di IS sul fronte mediorientale, tra cui anche molti filippini, solo uno sia in qualche modo riconducibile ad Abu Sayyaf.

Sembra, dunque, poco probabile che l’evoluzione degli avvenimento in Siria e in Iraq possa influenzare in modo significativo la strategia del gruppo filippino nel breve periodo. Tuttavia, la presenza di miliziani provenienti dal Pacifico potrebbe comunque avere un’influenza, seppur indiretta, sull’agenda di ASG nei prossimi anni. Il rientro dei combattenti ora impegnati al fianco di IS nei diversi Paesi dell’area (oltre alle Filippine, anche Indonesia, Malesia e Australia), infatti, potrebbe portare ad un generale rinvigorimento della causa jihadista della regione e, con essa, alla nascita di nuovi gruppi operativi all’interno di essa. Queste nuove realtà potrebbero ben presto trovare un ampio sostegno popolare: ispirate dal jihadismo internazionale e, dunque, orientate ad istituire veri e propri sistemi politici e sociali alternativi rispetto agli attuali governi, esse raccoglierebbero il consenso sia di quei militanti che, impegnati da anni nella lotta contro le autorità centrali, vedrebbero in questi gruppi, e nel loro collegamento con lo Stato Islamico, la possibilità di realizzare il proprio progetto, sia di quelle frange di popolazione che, vicine ad un’interpretazione integralista dell’Islam, guarderebbero ad essi come ad una preziosa occasione per sostituire delle istituzioni governative riconosciute come estranee.

In questo contesto, la nascita di nuove realtà terroristiche nell’area del Pacifico potrebbe coinvolgere Abu Sayyaf in due modi alternativi: da un lato, il gruppo filippino potrebbe rivelarsi un ottimo bacino di reclutamento per il rinvigorimento della causa jihadista nella regione. Dall’altro, la formazione di nuovi gruppi potrebbe generare una sorta di concorrenza interna al panorama insurrezionale della regione che vedrebbe contrapporsi alle formazioni jihadiste, con un’agenda prettamente politica e di respiro più internazionale, gruppi come ASG, con un focus maggiormente nazionale e un interesse primario di natura economica, legato alla gestione dei traffici e dell’economia criminale nella regione. Per scongiurare la perdita di sostegno popolare, indispensabile non solo per il reclutamento di nuove leve ma anche per il supporto logistico alle diverse cellule, e per preservare il proprio network di finanziamento, infatti, ASG potrebbe essere spinto ad alzare il tiro e ad intensificare la propria attività. L’ingenerarsi di tale competitività, dunque, potrebbe avere considerevoli ripercussioni non solo sulla sicurezza all’interno dei territori meridionali delle Filippine ma anche nelle acque su cui si affacciano questi arcipelaghi, con inevitabili rischi per la stabilità di una regione nel Pacifico meridionale, quale il tratto di mare tra gli stretti di Malacca, di Lombok, di Sunda e il Mar Cinese Meridionale, strategica per i commerci, e quindi per gli interessi internazionali.

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