Ri(guerra) a Gaza
Medio Oriente e Nord Africa

Ri(guerra) a Gaza

Di Staff Ce.S.I.
21.09.2014

All’origine dell’Operazione PROTECTIVE EDGE (Margine di Protezione) contro i gruppi palestinesi della Striscia di Gaza, a cominciare da Hamas, non vi è stato il lancio di razzi verso Israele (rispetto al quale, ormai, Israele ha messo a punto un sistema di allerta, protezione e reazione molto efficace), ma i numerosi tentativi dei combattenti di Hamas di utilizzare una rete di tunnel sotterranei per introdursi sul territorio dello Stato ebraico.

È stata proprio questa nuova minaccia alla sicurezza di Israele la causa di un’escalation che, fino a pochi giorni prima, era parsa poco probabile per via dei prevedibili rischi derivanti da un’operazione condotta in un territorio urbanizzato e densamente popolato come quello della Striscia. Inoltre, decisivi per l’intervento sono stati il rifiuto dei vertici di Hamas di una tregua proposta dalle autorità egiziane a metà luglio e la forte spinta dei “falchi” presenti all’interno della Knesset e del Governo Netanyahu, che da oltre 10 giorni spingevano per l’ingresso a Gaza dell’Esercito di Tel Aviv e lo smantellamento dell’infrastruttura militare di Hamas. Nel corso dei primi giorni dell’intervento terrestre, le operazioni militari si sono concentrate principalmente nell’area di Gaza City, più precisamente nel quartiere di Shejaiya, dove ha agito la Brigata GOLANI, la più attiva nella fase iniziale del confronto armato.

In 2 giorni, l’unità ha perso 18 uomini ed ha assistito anche al ferimento del suo comandante, Rassam Aliyan. Al fianco della GOLANI, sono state impiegate le brigate di fanteria GIVATI e NAHAL e la 101ª Unità del Battaglione Paracadutisti, oltre a unità del Genio, attive nella distruzione di tunnel con i bulldozer Caterpillar D-9, e a reparti corazzati per il supporto dei nuclei della fanteria. Inoltre, sono stati utilizzati anche reparti di artiglieria che, attraverso i droni da ricognizione in dotazione, hanno appoggiato la fanteria con tiro di precisione (anche se la precisione, in un territorio come quello di Gaza, non può mai essere massima). Come accennato in precedenza, ad avere un impatto decisivo sulla scelta israeliana di intervenire via terra è stata, con ogni probabilità, la notizia dell’aumento dei tentativi delle Brigate Ezzedin al-Qassam, braccio armato di Hamas, di utilizzare la rete di tunnel sotterranei per entrare in territorio israeliano e sferrare attacchi contro i villaggi meridionali.

Costruiti fino a più di 25 metri sotto la superficie terrestre per una lunghezza che può arrivare a superare i 2 chilometri, i tunnel palestinesi possono essere raggruppati principalmente in 3 tipologie. In primo luogo, vi sono quelli che collegano Gaza all’Egitto. I tunnel in questione iniziano dal cosiddetto Corridoio Filadelfia, la zona cuscinetto tra la Striscia e il Sinai, e sono utilizzati dai Palestinesi per cercare di aggirare l’embargo imposto dalle autorità israeliane. La seconda tipologia di tunnel costituisce la rete di comunicazione sotterranea all’interno della Striscia. Costruito al di sotto delle città e dei campi profughi di Gaza (come Khan Yunis, Rafah, Jabaliya e Shatti), questo network di tunnel è utilizzato per nascondere razzi e lanciatori, per movimentare materiali e risorse e per garantire vie di comunicazione sicure ai leader di Hamas. All’interno di questa rete, che prevede che ciascun membro del consiglio direttivo dell’organizzazione e la sua famiglia abbiano un numero di tunnel assegnati, vi sono delle strutture utilizzate come sale operative per le situazioni di emergenza. L’intero network è cablato con fibra ottica, più difficilmente intercettabile dall’intelligence israeliana, sull’esempio di quanto fatto dagli Hezbollah nel sud del Libano. Infine, la terza tipologia include i tunnel che, dal territorio di Gaza sbucano in Israele, il cui numero è cresciuto esponenzialmente negli ultimi 2 anni.

Detto ciò è molto difficile fare una stima affidabile del numero di questi tunnel, viste la scarsità di informazioni e la difficoltà di mappatura della rete, e considerato il fatto che le bocche di ingresso sono nascoste all’interno di abitazioni e garage.

Nonostante le autorità di Israele abbiano finora impedito ai combattenti palestinesi di attaccare i villaggi e i kibbutz delle aree di confine, l’assenza di strumenti utili a localizzare i vari tunnel del sottosuolo ha indotto Israele ad avviare le operazioni di terra. Non è casuale che la decisione delle Forze Armate israeliane di avviare l’offensiva terrestre sia giunta il 17 luglio, poche ore dopo che un drone aveva individuato e attaccato 13 combattenti di Hamas,

EDGE), le IDF hanno sviluppato una capacità capillare sia di individuazione delle minacce sia di risposta in un lasso di tempo molto inferiore al minuto.
Oltre ai tentativi di introdursi in territorio israeliano per via sotterranea, i miliziani di Hamas hanno attaccato Israele anche via mare. Il 7 e 9 luglio, 2 commando palestinesi hanno cercato di giungere sulle spiagge a sud di Ashkelon, fallendo in entrambi i casi. Non è chiaro se i militanti abbiano superato i confini marittimi e i controlli navali a nuoto, a bordo di un natante di piccole dimensioni o sfruttando un veicolo elettrico subacqueo come “avvicinatore” resta il fatto che si è trattato di 2 episodi indicativi della volontà di Hamas di diversificare le proprie tattiche contro Israele.

In ogni caso, sulla strategia militare e politica di Hamas aleggia più di un’incognita. Il movimento da tempo soffriva di pericolose avvisaglie di ridimensionamento della propria influenza all’interno della Striscia, dovute al malcontento sociale derivato dall’enorme precarietà socioeconomica. Infatti, la chiusura dei tunnel tra Gaza e l’Egitto da parte delle autorità del Cairo ha messo in ginocchio la popolazione locale e peggiorato ulteriormente le capacità militari del gruppo. Nonostante questa situazione, la leadership di Hamas ha deciso ugualmente di affrontare i costi e i rischi di un conflitto aperto con Israele. Dietro questa scelta potrebbero celarsi 2 ipotesi.

La prima è che l’escalation delle violenze e la retorica antisionista siano funzionali a rinvigorire l’immagine di Hamas quale baluardo del popolo palestinese. In questo senso, la crisi avrebbe un uso prettamente interno e servirebbe a mantenere l’attuale equilibrio di potere nella Striscia. La seconda ipotesi è che la leadership politica di Hamas, indebolita dal correntismo e incalzata dall’ascesa della sua ala militare, le Brigate Ezzedin alQassam, non sia riuscita a tenere sotto controllo le sue tante anime, cedendo all’onda d’impeto dei “falchi”. In questo caso, l’obiettivo del movimento sarebbe stato proprio quello di spingere Israele a proseguire l’invasione terrestre, magari estendondola all’interno delle città, per aumentare i costi politici, militari e umani di PROTECTIVE EDGE e massimizzare i propri vantaggi.

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