La Libia post - rivoluzionaria tra CNT e milizie
Medio Oriente e Nord Africa

La Libia post - rivoluzionaria tra CNT e milizie

Di Mara Carro
21.02.2012

Ad un anno esatto dalla Rivoluzione del 17 febbraio 2011, la Libia si ritrova in una situazione di estrema gravità.

Il Consiglio nazionale di transizione (CNT), organo politico nato durante le rivolte popolari in Libia contro il regime del colonnello Muammar Gheddafi , divenuto poi di fatto governo ad interim del Paese, non è effettivamente riconosciuto dalla popolazione, sebbene comprenda alcuni capi ribelli.

La ricostruzione di uno stato di diritto è infatti caratterizzato da diversi ostacoli.
Innanzitutto, in un Paese la cui vita politica è stata caratterizzata dalla dittatura cinquantennale di un solo uomo e del suo clan, fattore che ha condotto alla progressiva de istituzionalizzazione della Libia, la prima grande incognita riguarda la creazione di un tessuto politico istituzionale unitario che permetta di superare l’attuale sistema tribale e le logiche di fedeltà che lo governano.

La questione più urgente della Libia rivoluzionaria è però il problema della legittimità del CNT. Interprete di prima istanza delle ambizioni rivoluzionarie libiche e rappresentante legittimo dei ribelli sul piano internazionale, il CNT si è, però, dimostrato debole e incapace di imporre la sua autorità su tutto il territorio libico. La paralisi attuale deriva dalla presenza di rivalità tra i vari potentati locali (facenti capo ai leader delle principali città libiche) che hanno costretto il CNT a dividere il potere seguendo linee di confine e personalità, dalle aspettative che la caduta di Gheddafi ha generato e da questa impotenza marcata, tant’è che lo stesso Esercito Nazionale è visto come una delle tante milizie presenti in Libia.

Un’ulteriore sfida per il CNT è legata alla questione della sicurezza e dell’ordine pubblico. La fine delle rivolte ha consegnato alla Libia uno scenario caratterizzato da un’eccessiva presenza di armi e soprattutto dalla presenza delle milizie che hanno combattuto durante la Rivoluzione. Il CNT si è dimostrato anche qui incapace di disarmare e smantellare questi gruppi armati che si comportano come tante organizzazioni istituzionali indipendenti e continuano a controllare intere regioni.

Gli scontri di natura clanica che si sono verificati nella regione occidentale, in particolar modo a Tripoli, a fine gennaio, per il controllo di depositi di armi, sono elementi di tensione derivanti dall’antagonismo tra le diverse anime militari della recente Rivoluzione che, forti del contributo dato, aspirano a difendere gli interessi delle proprie tribù nella corsa per il potere, l’influenza e l’accesso alle risorse nella Libia post-rivoluzionaria.

Agli scontri tra milizie e tra milizie e CNT, vanno a sommarsi abusi, detenzioni illegali e torture condotte dalle milizie nei confronti di sospetti lealisti gheddafiani.

“Braccio armato” del CNT, il nuovo Esercito libico è, come si è detto, visto come una delle tante milizie. L’esercito è poco radicato sul territorio poiché paga la diffidenza verso gli ex ufficiali di Gheddafi che lo compongono e il suo essere espressione della sola Cirenaica. Il suo quartier generale era originariamente stanziato a Bengasi e non ha praticamente avuto nessun ruolo nella presa di Tripoli. Per cercare di riassorbire queste milizie in un contesto unitario nazionale, il CNT ha istituito una commissione incaricata della registrazione di ex combattenti per farli confluire sia nelle forze armate che in quelle di polizia, dietro un ragionevole corrispettivo economico. Pare che dalla fine delle rivolte 5000 ribelli abbiano aderito all’Esercito Nazionale.

La stessa capitale, Tripoli, è la posta di una lotta tra alcune fazioni principali.
Il Consiglio Militare di Tripoli è un gruppo di milizie d’ispirazione salafita/qaedista che fa capo all’islamico radicale, Abd el-Hakim Belhaj. Belhaj è stato protagonista della presa di Tripoli. Sulla scia del consenso guadagnato, mira ora ad un ruolo militare di primo piano nella nuova Libia.

Il suo gruppo conta più di 7000 armati, ha il sostegno di uomini ideologicamente formati e disciplinati ed è supportato finanziariamente dal Qatar.

Un altro attore importante è il gruppo Zintan, berbero, che proviene dal Jebel Nefusa intorno alla città di Zintan. L’attuale Ministro della Difesa libico, Osama al-Juwaily, è l’attuale leader della milizia. I suoi uomini hanno giocato un ruolo decisivo nella presa di Tripoli. Oggi controllano un’area di circa 25 Km circostante l’aeroporto internazionale di Tripoli, compreso lo stesso aeroporto. Con circa 1200 uomini sono la forza militare più importante della città cui si sommano quasi altre 2000 unità. Questo gruppo si è progressivamente rafforzato, sia militarmente che sul piano del sostegno popolare. La milizia detiene Saif Al–Islam Gheddafi, figlio del Colonnello e a fine novembre ha tentano di fermare Belhaj all’aeroporto di Tripoli in procinto di imbarcarsi per la Turchia.

Un’altra fazione è la milizia di Misurata. La città di Misurata è stata sotto assedio per mesi e uno dei suoi gruppi armati ha rivendicato la cattura del rais. I suoi miliziani sono perlopiù civili insorti contro il regime. Questi si sono resi protagonisti anche di scontri con gli abitanti della città Tawargha, a sud – est di Misurata, accusati di aver servito nelle forze pro - Gheddafi e con una parte della tribù Warfalla, nocciolo duro delle forze lealiste che hanno condotto l’assedio contro la città di Misurata.
Proprio a Bani Walid, città d’origine della tribù Warfalla e considerata, assieme a Sirte, una delle roccaforti del Rais pare raccogliersi un gruppo di milizie lealiste protagoniste di scontri con la brigata 28 maggio del CNT.

In questo ripiegamento su identità claniche, il CNT è sempre  più isolato e impotente. Il pericolo maggiore potrebbe arrivare dalla neonata Federazione delle Milizie Occidentali, che raccoglie, oltre alle milizie berbere Zintan, altri berberi del Jebel Nefusa.

Questa condizione di estrema frammentarietà potrebbe avere ricadute sull’unità nazionale. Allo stesso modo, l’avanzata di un network jihadista e l’influenza che in questi mesi stanno assumendo alcuni Paesi del Golfo, in particolare il Qatar, sembrano in grado di condizionare e/o compromettere la transizione democratica.

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