Geopolitical Weekly n.112

Geopolitical Weekly n.112

Di Francesca Manenti e Alessandra Virgili
16.05.2013

Iran

Sabato 11 maggio, Akbar Hashemi Rafsanjani e Rahim Mashaei hanno presentato la propria candidatura per le elezioni presidenziali previste per il prossimo 14 giugno.
Rafsanjani, Presidente dell’Iran già tra il 1989 e il 1997, è considerato un conservatore fortemente pragmatico, che guarda alla privatizzazione economica e al dialogo con l’Occidente come due possibili soluzioni per rafforzare lo standing internazionale del Paese. Mashaei invece, è consuocero e l’attuale Capo dello staff di Ahmadinejad, con cui condivide lo spirito nazionalistico e concezioni religiose lontane dal tradizionalismo del clero. Benché entrambi potrebbero rappresentare dei potenziali competitor per l’establishment dei conservatori, espressione fedele al Leader Supremo Ayatollah Khamenei, in realtà la candidatura di Mashaei difficilmente riceverà l’approvazione del Consiglio dei Guardiani, l’organo formato da sei membri del clero e sei giuristi, costituzionalmente preposto alla valutazione preventiva dei candidati e tradizionalmente vicino alla posizione del Leader Supremo. Mashaei è sempre stato fortemente criticato dall’Ayatollah per la sua interpretazione deviante dell’Islam, tanto che nel 2009 lo stesso Khamenei, con una lettera aperta, aveva posto il veto alla sua nomina alla vicepresidenza, proposta da Ahmadinejad. Questa manifesta opposizione, potrebbe portare il Consiglio a compiacere l’Ayatollah e, di conseguenza, ad estromettere il protegè dell’attuale Presidente dalla corsa elettorale. La lista definitiva verrà resa nota il 24 maggio.
Diversa è invece la posizione di Rafsanjani: considerato da molti l’eminenza grigia della politica iraniana, nonché uomo politico di comprovata esperienza, potrebbe essere il candidato di riferimento della frangia riformista interna allo schieramento dei conservatori. Alle ultime elezioni, infatti, aveva sostenuto il Movimento Verde nella protesta contro la discussa vittoria di Ahmadinejad e, nei giorni scorsi, l’ex Presidente riformista Mohammad Khatami ha espresso il proprio endorsement alla sua candidatura…
Quella che sembrava essere una contesa tra candidati diversi, ma comunque afferenti all’area di influenza conservatrice – preparata ad hoc dal Leader Supremo per assicurarsi l’elezione di un Presidente ideologicamente a lui vicino – sembrerebbe ora portare a sviluppi meno scontati. Data l’influenza che la figura di Rafsanjani potrebbe avere in campagna elettorale, sia per la popolarità di cui gode sia per le risorse economiche che ha a disposizione, il suo ritorno in politica potrebbe catalizzare il voto di protesta, di quanti vedono in lui un’alternativa all’establishment tradizionalista e alla politica di Ahmadinejad.
Resta da valutare però quale potrà essere l’effettivo ruolo di Rafsanjani nella corsa elettorale. La sua età e le pressioni familiari a cui potrebbe essere sottoposto - la figlia ha da poco scontato una pena di sei mesi per “propaganda antigovernativa”, mentre il figlio è ancora detenuto - potrebbero indebolire di fatto la sua candidatura.

Kosovo-Serbia

Il 10 maggio oltre 3 mila persone hanno manifestato nel centro di Belgrado contro l’accordo, raggiunto il 19 aprile a Bruxelles, che mira a normalizzare i rapporti tra la Serbia e il Kosovo. “Noi restiamo in Serbia” è stato lo slogan scandito e sbandierato dai tanti serbi arrivati dal Nord del Kosovo, territorio in cui essi, reticenti all’idea di rispondere alle autorità di Pristina, rappresentano la maggioranza. I manifestanti hanno agitato bandiere serbe e mostrato cartelloni con la scritta “No alla Ue” e “Il Kosovo è Serbia”, chiedendo al contempo l’appoggio del popolo serbo nella campagna contro il “tradimento” del governo di Belgrado.
La popolazione serba del Nord del Kosovo sembra sentirsi, infatti, ingannata da Belgrado a causa dell’accordo siglato dai leader di Serbia e Kosovo, dopo un lungo periodo di difficili negoziati, con la mediazione dell’Unione Europea. L’intesa è atta a regolamentare la situazione della minoranza serba che vive in Kosovo e che passa ora sotto la tutela di Pristina, conservando comunque ampie autonomie in materia di giustizia, sanità, istruzione e sicurezza.
Piuttosto, la comunità serba nel Nord del Kosovo auspicava un accordo volto al riconoscimento del loro status e a una totale autonomia nell’ambito del sistema istituzionale kosovaro. La prospettiva di una futura adesione all’Unione Europea, di vitale importanza per entrambi i Paesi, è stata tra i principali fattori che hanno portato all’accordo Belgrado-Pristina. La normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi è, infatti, una condicio sine qua non Bruxelles non prenderebbe in considerazione la candidatura di Serbia e Kosovo.

Nigeria

Il 14 maggio, il Presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha dichiarato lo” stato di emergenza” negli Stati nord-orientali di Borno, Yobe e Adamawa, roccaforti della setta islamica radicale Boko Haram, in risposta ai recenti attacchi da questa perpetrati contro le forze di polizia, la popolazione civile e le istituzioni politiche nelle ultime settimane. Il provvedimento prevede, oltre al coprifuoco ed alla limitazione di alcune libertà, il dispiegamento delle Forze Armate per eliminare le cellule e le basi dei militanti e ripristinare le condizioni di sicurezza sul territorio. Una misura analoga era stata presa nel dicembre 2011 in seguito all’attentato contro la chiesa di S.Teresa a Madalla, nel quale erano rimaste uccise 44 persone. L’ultimo attentato di Boko Haram risale alla settimana scorsa, quando alcuni membri del gruppo hanno preso d’assalto la città di Bama, nel Borno, liberando un centinaio di detenuti e uccidendo circa 50 agenti di polizia. Inoltre, secondo la dichiarazione del leader di Boko Haram, Abubakar Shekau, il gruppo sarebbe il responsabile del rapimento di alcune donne e bambini come ritorsione per l’ingiusta detenzione da parte delle autorità nigeriane delle famiglie di alcuni militanti.
La decisione di utilizzare lo strumento militare è giunta dopo mesi di trattative tra il governo e Boko Haram volte a concedere l’amnistia ai miliziani in cambio della cessazione delle ostilità, cercando di riproporre il modello di accordo già sperimentato, nel 2009, con il MEND (Movement for the Emancipation of the Niger Delta). Tuttavia, i continui attacchi di Boko Haram hanno reso difficile il proseguo delle trattative politiche che, a questo punto, appaiono in stallo.
La decisione presa da Jonathan è stata però criticata dai governatori degli Stati settentrionali i quali temono una possibile involuzione autoritaria del provvedimento, come era avvenuto nel 2004. In quell’occasione, l’ex Presidente Olusegun Obasanjo, dichiarando lo stato di emergenza nel Paese, aveva rimosso i governatori democraticamente eletti per sostituirli con ufficiali da lui nominati, anche appartenenti alla Forze Armate.

Taiwan

Il Presidente di Taiwan Ma Ying-jeou ha annunciato il ritiro del personale diplomatico da Manila come segno di disapprovazione per l’atteggiamento del governo filippino nella gestione dell’incidente di giovedì scorso, nel quale un pescatore taiwanese è stato ucciso dalla Guardia Costiera filippina, mentre si trovava a 170 miglia nautiche a sud est dalla costa di Taiwan. 
Le autorità di Manila hanno ordinato l’apertura di un’indagine ufficiale per accertarsi della reale dinamica dell’incidente e hanno espresso la propria vicinanza alla famiglia della vittima. Il governo taiwanese ha però rifiutato di derubricare come “accidentale” la morte del pescatore e, per questo motivo, ha inviato propri investigatori a Manila per prendere parti alle indagini.
Il governo di Taipei, rifiutate le prime dichiarazioni di cordoglio espresse dal portavoce del Vicepresidente filippino, Abigail Valte, aveva inviato un ultimatum, richiedendo delle scuse ufficiali da parte di Manila. Il messaggio conciliatorio portato mercoledì dal capo della Rappresentanza delle Filippine a Taiwan, Antonio Basilio, è stato però giudicato insoddisfacente e tardivo. Taiwan ha quindi predisposto una serie di sanzioni economiche e sociali che potrebbero mettere in grande difficoltà lo Stato delle Filippine. In primis il congelamento dei visti di lavoro, provvedimento che colpirebbe circa 85.000 filippini che lavorano a Taiwan. Inoltre, il Primo Ministro Jiang Yi-huah ha paventato la possibilità che venga reintrodotta la necessità del visto d’ingresso per i cittadini filippini, nonché il blocco di ogni rapporto commerciale con Manila.
La crisi diplomatica tra i due Paesi si inserisce puntualmente nel contesto della contesa per la sovranità sulle acque del mar Cinese Meridionale. Il sovrapporsi delle rispettive Zone Economiche Esclusive (EEZ) a nord delle Filippine, è stato già in passato occasione di tensioni tra le Marine dei due Stati. In proposito, appare significativo il fatto che tra le richieste presentate la scorsa settimana da Taiwan – scuse formali, compensazioni per le vittime, punizione per i responsabili - ci fosse anche l’apertura di trattative per la pesca nell’area. I due Paesi fino ad ora non hanno mai negoziato la definizione di una frontiera marittima, poiché ufficialmente il governo delle Filippine non riconosce Taiwan.
Inoltre, l’annuncio da parte di un funzionario del Ministero della Difesa taiwanese riguardo l’invio di aerei e navi militari nel canale di Bashi per effettuare un’esercitazione di due giorni, potrebbe andare ad aumentare la tensione in una controversia che coinvolge, oltre al governo di Manila e di Taipei, anche Vietnam, Malesia, Brunei, Cina e, a latere, Stati Uniti. Mentre il governo cinese ha espresso il proprio sostegno all’iniziativa di Taiwan, il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Patrick Ventrell, infatti, ha invitato le parti a desistere da qualsiasi tipo di azione possa provocare un’escalation delle tensioni.

Venezuela

Il Presidente venezuelano Nicolas Maduro ha lanciato in questi giorni un piano di rafforzamento della sicurezza per frenare l’aumento dei crimini di strada nel Paese.
L’operazione prenderà il nome di “Patria Segura” ed impiegherà 3.000 soldati che pattuglieranno Caracas e altre città problematiche del Paese, con l’obiettivo di riportare la serenità e la pace in Venezuela.
Il piano di sicurezza rilanciato da Maduro dimostra quanto problematica sia diventata la realtà dello Stato del Sud America e come la criminalità di strada sia la questione più grave nel Paese. Il Venezuela ha uno dei più alti tassi di omicidi dell’America meridionale. L’Osservatorio venezuelano sulla violenza (Ovv) afferma che il tasso annuale degli omicidi nel Paese risulta essere di 73 su 100.000 abitanti.
Il dispiegamento di Forze Armate rappresenta un continuum del modus operandi di Hugo Chavez. L’ex Premier venezuelano nel novembre 2011 annunciò la creazione di una nuova Forza Armata, la Guardia del Popolo, per aumentare la sicurezza pubblica. Dall’inizio della sua Presidenza il tasso di omicidi e di crimini in generale in Venezuela era quasi triplicato, con la capitale, Caracas, diventata la terza città più violenta del Paese, dopo Ciudad Juarez e Bogotà.
Durante l’ultimo anno di mandato di Chavez si è cercato inoltre di combattere la violenza e la criminalità facendo entrare in vigore una legge che bandisse la vendita di armi e munizioni e concedesse l’amnistia a commercianti e acquirenti illegali di armi, a condizione che avessero consegnato volontariamente le armi contrabbandate in loro possesso.
Nella mossa di Maduro si può anche leggere una sorta di risposta agli attacchi degli antagonisti politici che per lungo tempo hanno contestato l’operato blando del governo venezuelano riguardo al problema della violenza nelle strade.

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