Geopolitical Weekly n.105

Geopolitical Weekly n.105

Di Andrea Ranelletti e Giulia Tarozzi
27.03.2013

Corea del Nord

Il 26 marzo la Corea del Nord ha nuovamente minacciato di attaccare gli Stati Uniti. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale KCNA, Pyongyang avrebbe posto in stato di allerta le unità missilistiche strategiche equipaggiate con missili Nodong (MRBM, gittata compresa fra i 1.350 e i 1.500 Km), e Hwasong-6 (SRBM, gittata di700 Km) , e le unità di artiglieria a lunga gittata, poste lungo il 38° parallelo. Sebbene la Corea del Nord si dichiari pronta a colpire le Hawaii, Guam e le basi americane in Corea del Sud e in Giappone, i missili nordcoreani hanno una gittata insufficiente per riuscire a toccare il suolo americano. Possibile, ma non probabile, invece, un attacco alle basi statunitensi sul suolo sudcoreano, che rientrano nel raggio di azione dei missili.

In ogni caso, in passato la politica intimidatoria del Nord si è sempre limitata negli obiettivi, come l’affondamento della corvetta sudcoreana Cheonan e il bombardamento dell’isola di Yeonpyeong nel 2010, e non ha mai chiamato in causa direttamente gli Stati Uniti.

Dopo il terzo test nucleare di metà febbraio la tensione tra i due Paesi è salita vertiginosamente. Nelle scorse settimane Pyongyang aveva ripetutamente ventilato l’ipotesi di voler attaccare gli Usa e la Corea del Sud e, il 12 marzo, era arrivata a tagliare la “linea rossa” di collegamento telefonico d’emergenza con Seoul. A ciò va aggiunto che Kim Jong-Un ha unilateralmente annullato l’armistizio risalente alla Guerra di Corea e posto fine al patto di non aggressione. Ulteriore allarme è stato provocato dall’attacco hacker subito dalla Corea del Sud il 20 marzo, che ha messo fuori uso diverse banche e reti televisive, colpendo 32.000 tra Pc e server. Non è la prima volta che il Sud viene attaccato in questo modo, assalti simili sono avvenuti nel 2009 e nel 2011.

Alle minacce del Nord, il Sud ha risposto con una serie di esercitazioni congiunte con le forze americane e, successivamente, ha sottoscritto un piano di azione congiunto in caso di attacco improvviso di Pyongyang. L’imperativo per Washington è quello di evitare l’escalation del conflitto e attraverso questo accordo spera di poter mantenere un eventuale scontro su scala limitata e circoscritta.

Israele-Turchia

Lo scorso venerdì, dopo quasi tre anni di congelamento delle relazioni tra i due Paesi, è giunta notizia delle scuse del Premier israeliano Benyamin Netanyahu alla Turchia. La rottura dei rapporti tra i due Paesi era avvenuta nel maggio del 2010 con l’incidente della Mavi Marmara: le forze speciali israeliane avevano preso d’assalto una nave turca che stava violando il blocco di Gaza per trasportare aiuti umanitari ai palestinesi residenti nella Striscia. Nove attivisti di origine turca erano rimasti uccisi nell’attacco. Dopo la conversazione tra Netanyahu ed Erdogan, sarebbero stati anche avviati i colloqui per stabilire l’entità del risarcimento che Israele dovrà corrispondere alle famiglie delle vittime.

La telefonata di Netanyahu a Erdogan, giunta anche grazie alla pressione esercitata dal Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, potrebbe porre fine a un’escalation che aveva visto il congelamento della collaborazione strategica e militare e delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. In una regione mediorientale che negli ultimi due anni ha subito numerosi cambiamenti, questo riavvicinamento tra due alleati storici potrebbe portare ad una nuova modifica degli equilibri regionali.

Myanmar

Dal 20 marzo scorso, una nuova ondata di violenze interconfessionali ha ricominciato a scuotere il Myanmar. Da Meiktila, città del centro del Paese, gli scontri tra musulmani e buddisti si sono espansi fino a giungere alle porte di Yangoon; il bilancio delle vittime ha già superato le 40 persone, mentre prosegue l’assalto a villaggi e moschee. La polizia birmana ha imposto un coprifuoco per cercare di riportare sotto controllo la situazione.

Gli scontri sono i più duri dal giugno del 2012, quando nello Stato di Rakhine le violenze tra buddhisti di etnia rakhine e musulmani di etnia rohingya – causate da un’accusa di stupro a carico di un gruppo di rohingya su una donna rakhine - hanno causato un alto numero di morti (78 secondo le autorità del Myanmar e oltre 600 secondo i rappresentanti dell’etnia rohingya) e decine di migliaia di sfollati. A differenza di quanto accaduto nello Stato di Rakhine, le attuali violenze non sono indirizzate contro un’etnia, quella rohingya, percepita come “apolide”, ma contro musulmani di etnia “burmese”, cittadini a tutti gli effetti.

La persecuzione della maggioranza buddhista ai danni della minoranza musulmana, circa il 4% della popolazione del Myanmar, sta causando una vera e propria diaspora dal Paese asiatico, con una grande quantità di civili di fede musulmana costretti ad abbandonare le loro abitazioni e i loro villaggi per cercare riparo negli Stati vicini. I tentativi del Governo birmano di arrestare le tensioni potrebbero anche riportare la tranquillità nell’immediato, ma difficilmente riusciranno a porre fine al fenomeno della violenza interconfessionale, la cui radicazione nel Paese costituisce uno dei maggiori ostacoli al processo di riforme avviato dal Presidente Thein Sein.

Pakistan

La Commissione elettorale del Pakistan ha nominato il Premier ad interim che dovrà traghettare il Paese alle elezioni del prossimo maggio: si tratta dell’ottantaquattrenne Hazar Khan Khoso, ex giudice capo della Corte Suprema attivo nel Balochistan. La scelta di Khoso, proposto dal Pakistan People’s Party (PPP) del Presidente uscente Asif Ali Zardari, ha messo d’accordo i capi dei principali partiti d’opposizione, il Pakistan Muslim League-Nawaz (PML-N) dell’ex premier Nawaz Sharif e il Pakistan Tehreek-e-Insaf dell’ex stella del cricket Imran Khan.

In tutto questo, domenica 24 marzo è tornato in Pakistan il Generale Pervez Musharraf, ex Presidente e Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, dopo un esilio autoimposto durato 4 anni: anche Musharraf correrà alle elezioni di maggio prossimo con il suo All Pakistan Muslim League (APML). Musharraf ha abbandonato il Pakistan pochi mesi dopo le sue dimissioni nell’agosto del 2008, al termine di una dittatura militare da lui stesso imposta nel 1999. Numerosi i rischi per l’ex Presidente: considerato un nemico da parte dei combattenti talebani, che hanno già diramato un comunicato video in cui lo minacciano di morte, Musharraf ha perso parte del proprio credito anche all’interno degli ambienti delle Forze Armate pakistane. Restano inoltre aperti i processi a suo carico per la presunta complicità nell’uccisione del leader balochistano Nawab Akbar Bugti e dell’ex-premier Benazir Bhutto.

Lo scarso afflusso di sostenitori all’aeroporto di Karachi per salutare l’arrivo di Musharraf potrebbe essere un indicatore della scarsa consistenza della base di consenso a sua disposizione. Anche il PPP di Zardari sembra essere in svantaggio nella corsa alle Presidenziali: il PML-N di Sharif pare il partito al momento più solido, anche grazie alla sua alleanza con il Pakistan Muslim League-Functional e con il National People’s Party. Anche il PTI di Imran Khan sta crescendo fortemente, grazie al suo consenso presso le fasce più giovani della popolazione e al piglio populista del suo leader.

Repubblica Centrafricana

Il 23 marzo, nella Repubblica Centrafricana, i ribelli di Seleka, unione di vari gruppi armati tra cui quelli dell’FDPC (Fronte Democratico della Popolazione dell’Africa Centrale), del CPJP (Convenzione dei Patrioti per la Giustizia e la Pace) e del UFDR (Unione delle Forze Democratiche per l’Unità), hanno conquistato la capitale Bangui costringendo il Presidente Francois Bozizé alla fuga in Camerun. Successivamente, Michel Djotodia, uno dei leader di Seleka, si è autoproclamato Presidente della Repubblica e ha annunciato che entro tre anni verranno indette nuove elezioni democratiche.

I ribelli hanno accusato il governo di aver violato gli accordi di pace di Libreville, siglati a gennaio, che imponevano fra l’altro la liberazione di alcuni detenuti politici, l’integrazione dei ribelli nell’Esercito regolare e la fine del sostegno militare di Sud Africa e Uganda all’esecutivo in carica.

La decisione di Djotodia non è stata, tuttavia, riconosciuta da un altro leader dei ribelli Seleka, Nelson N’Jadder, presidente di Rivoluzione per la Democrazia. N’Jadder ha spiegato che gli accordi presi tra le varie fazioni del gruppo, prima del colpo di Stato, prevedevano l’arresto di Bozizé e una transizione di 18 mesi prima di nuove elezioni.

Quando i ribelli hanno raggiunto la capitale, la Francia, che è ancora militarmente impegnata in Mali, ha affermato di voler proteggere i cittadini francesi presenti nel Paese e inviato, a tale scopo,

300 soldati di rinforzo alla guarnigione che sorveglia l’aeroporto di Bangui. Il Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-Moon, ha condannato l’azione di Seleka e l’Unione africana ha sospeso il Paese, congelandone i beni, e stabilito sanzioni contro i ribelli.

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