Il crollo dei prezzi del petrolio: ripercussioni macroeconomiche e geopolitiche
Medio Oriente e Nord Africa

Il crollo dei prezzi del petrolio: ripercussioni macroeconomiche e geopolitiche

Di Veronica Castellano
02.03.2015

Negli ultimi 5 mesi il prezzo del petrolio ha subito un crollo dell’ordine del 38%, toccando i livelli più bassi dalla crisi economica del 2009.

Variazioni nel prezzo del petrolio hanno forti ricadute sugli equilibri economici e geopolitici mondiali, e spesso sono influenzate dagli stessi. Il greggio costituisce, infatti, un terzo di tutta l’energia consumata sul pianeta e condiziona in maniera determinante l’attività di milioni di persone, di settori industriali e d’interi Paesi.

Da un punto di vista economico, il trend al ribasso è dovuto a un surplus di offerta accompagnato da una domanda in debolissima crescita. Gli squilibri tra domanda e offerta non bastano tuttavia a spiegare l’andamento del complesso mercato petrolifero, fortemente influenzato da più profonde dinamiche geopolitiche e speculative che mettono in gioco gli interessi di alcuni attori principali: l’Arabia Saudita, l’OPEC, la Russia e gli Stati Uniti.

Un declino nei prezzi del petrolio gioca ovviamente a beneficio degli Stati importatori, e a svantaggio degli esportatori. Per i primi il minore costo da sostenere per l’acquisto di energia ha un effetto simile alla riduzione delle tasse: il reddito disponibile aumenta e così la propensione al consumo (che stimola la domanda interna senza ricorso a politiche monetarie inflative) con un effetto positivo sul PIL e sulla crescita economica. Al contrario, il rincaro dei prezzi del petrolio ha costituito una delle maggiori cause di recessione dal dopoguerra ad oggi.

In un contesto in cui le recenti dinamiche di mercato, dalla diffusione dello shale gas e shale oil, che ha attratto flussi di capitali precedentemente convergenti nel mercato petrolifero, all’indebolimento della domanda globale, non bastano a spiegare il trend decrescente, lo scenario geopolitico potrebbe fornire una panoramica più accurata.

Nel mondo delle risorse energetiche, infatti, ogni variazione negli equilibri tra livello dei prezzi e output è dovuta a diversi ordini di fattori, tra cui meccanismi di aggiustamento di mercato, aspettative, preferenze intertemporali e equilibri strategici occupano una posizione di primo rilievo.

Letto in chiave economica, l’attuale deprezzamento del petrolio riflette le aspettative future di una ridotta domanda e di una più ampia offerta.

L’indebolimento della domanda dipende sia dal rallentamento della crescita globale, che dalle innovazioni tecnologiche che porteranno all’uso di energia solare e altre fonti rinnovabili.

L’aumento dell’offerta è invece dovuto non solo ai nuovi volumi di produzione derivanti dall’estrazione di Shale gas e shale oil ma anche alle aspettative che influenzano le preferenze intertemporali (di risparmio e investimento tra presente e futuro) degli agenti economici.

Nel condizionare le scelte d’investimento, infatti, i tassi d’interesse giocano un ruolo fondamentale.

Bassi tassi d’interesse incoraggiano i produttori a vendere meno petrolio al momento presente (in quanto meno incentivati a investirne i proventi), risultando in una minore offerta, con effetti inflativi. Al contrario, quando i tassi d’interesse aumentano i maggiori ricavi attesi dall’investimento dei proventi delle vendite spinge i produttori a ad aumentare l’offerta, che riduce il livello dei prezzi, come sta accadendo negli ultimi mesi.

Da un punto di vista geopolitico, i prezzi del petrolio diventano una variabile fondamentale negli equilibri tra potenze.

I produttori di petrolio possono, infatti, influenzare i prezzi restringendo l’offerta (effetto inflativo) o aumentandone i volumi (effetto deflativo).

In tali operazioni strategiche, un ruolo fondamentale è giocato dall’Arabia Saudita, il più grande produttore ed esportatore di petrolio a livello mondiale, che già in passato ha manipolato i prezzi del petrolio per raggiungere i propri obbiettivi geopolitici.

Nel 1973, infatti, i sauditi tagliarono i livelli di produzione per fare aumentare i prezzi, presumibilmente in risposta al supporto americano fornito a Israele contro i Paesi Arabi nella guerra dello Yom Kippur. Al contrario nel 1986 l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) guidata dall’Arabia Saudita, avrebbe lasciato che prezzi crollassero per colpire la Russia, considerata una minaccia alla loro supremazia settoriale.

Anche l’OPEC, cartello economico composto da 12 Stati che controllano circa il 78% delle riserve mondiali accertate di petrolio (Algeria, Angola, Ecuador, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Venezuela), ha spesso mantenuto i livelli di produzione volontariamente bassi per influenzare gli equilibri di mercato a proprio vantaggio, creando un eccesso di domanda che tenesse i prezzi ‘artificialmente’ alti. Nel modellare tali dinamiche di mercato, l’Arabia Saudita ha agito nelle ultime decadi come una sorta di ‘banchiere centrale’ per la comunità petrolifera mondiale, esercitando un’influenza determinante nel regolare i prezzi del petrolio.

Negli anni ’80 ad esempio, al crollo dei prezzi del petrolio i sauditi reagirono restringendo il proprio output per frenare il trend decrescente. Mossa strategica, quest’ultima, che ci si aspettava (e si sperava) venisse nuovamente implementata per combattere il ribasso degli ultimi mesi, soprattutto in Paesi come l’Iran e il Venezuela che avevano programmato i propri budget sula base di prezzi del petrolio sostenuti.

Contrariamente alle previsioni, oggi l’Arabia sembra aver scelto di non sottoporsi nuovamente a un tale sacrificio, che venti anni fa gli costò perdite consistenti in termini di ricavi e quote di mercato.

I sauditi possono infatti permettersi di sopravvivere a un periodo di prezzi bassi grazie ai ridotti costi di estrazione dovuti sia a una manodopera molto economica (a differenza degli USA) che alla facilità di estrazione in acque poco profonde (a differenza dell’Iran).

Nel lungo termine infatti i bassi prezzi potrebbero giocare a loro vantaggio sbaragliando la concorrenza dei produttori che soffrono costi più alti e facendogli riguadagnare quota di mercato.

Quindi l’Arabia Saudita sembra intenzionata a mantenere invariati i livelli di produzione. La direzione intrapresa negli ultimi mesi potrebbe rispondere a diverse logiche. Da un lato, l’Arabia Saudita avrebbe interesse a mantenere prezzi ridotti per ridurre la profittabilità di alcuni specifici progetti a livello globale, come l’estrazione del gas di scisto, che potrebbe attrarre grossi flussi di capitale se risultasse troppo conveniente rispetto al petrolio.

Il gas metano derivato da argille potrebbe infatti andare a sostituirsi al petrolio se i prezzi fossero notevolmente più bassi, assottigliando la porzione di mercato detenuta dalle attuali compagnie petrolifere e agendo come forza centrifuga nell’attrarre flussi di investimento.

Dall’altro, il deprezzamento del petrolio potrebbe essere mirato a colpire Paesi come l’Iran e la Russia, le cui economie sono fortemente dipendenti dall’export di greggio, e sbaragliarne la concorrenza. In tale ottica assumono un certo rilievo strategico i consistenti sconti recentemente applicati dai sauditi alla Cina, il più grande acquirente di petrolio iraniano, volti a danneggiare il potere finanziario del Paese avversario.

L’Arabia Saudita (i cui maggiori competitors sono Iran, Iraq e Kuwait) potrebbe anche stare agendo per ristabilire l’ordine e riaffermare la propria leadership tra i membri dell’OPEC, come già fece nel 1986 e nel 1999, lasciando che i prezzi crollassero. Quando i prezzi sono sostenuti e si produce al massimo della capacità, come nella prima metà del 2014, cartelli come l’OPEC hanno infatti minore rilievo poiché mosse strategiche di contenimento dell’offerta esercitano un minore effetto sulla domanda, dunque sulla variazione dei prezzi (domanda inelastica). Al contrario quando i prezzi sono in calo e la riduzione dei livelli produttivi è l’unico strumento in grado di scongiurare il default in molte aree geografiche, l’Arabia Saudita diventa essenziale per i membri del cartello e più in generale per ogni Paese esportatore. Quindi il reale obbiettivo dei sauditi nel restare impassibili al deprezzamento del greggio potrebbe consistere nel ristabilire la propria egemonia sui Paesi dell’OPEC, le cui economie rischierebbero di sprofondare se il livello dei prezzi non si aggiustasse.

Ulteriore possibile bersaglio della linea di non intervento intrapresa dall’Arabia potrebbe essere il Qatar, che non ha mai realmente riconosciuto la leadership saudita nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (QCC, creato nel 1981 da Arabia Saudita, Bahrein, UEA, Kuwait, Oman e Qatar per rispondere alla minaccia della nuova repubblica sciita in Iran) e non ha mai smesso di adottare una politica estera in diretta concorrenza con Riyadh. Nemmeno l’Oman e il Kuwait si sono mai realmente allineati ai disegni egemonici dall’Arabia e degli Emirati, creando crescente frammentazione all’interno del QCC.

Nello scontro tra potenze i prezzi ridotti giocano a vantaggio dei Paesi importatori e a svantaggio degli esportatori.

L’impatto sugli Stati Uniti sarà dunque misto poiché il Paese è non solo un grande produttore di petrolio, ma anche il maggiore importatore e consumatore. Il bilancio finale dovrebbe essere comunque positivo, e portare una ridistribuzione della ricchezza dai produttori di petrolio a consumatori.

Questi ultimi, disponendo di maggiori risorse economiche, potranno destinarle ad altri usi spendendole nell’economia reale e favorendo la crescita, senza che il governo debba ricorrere a strumenti di politica monetaria espansiva. Al contrario, una maggiore ricchezza detenuta dai produttori di petrolio restringe l’economia reale in quanto gran parte delle rendite viene reinvestita nel settore finanziario. Per la stessa dinamica i prezzi più bassi stimoleranno la domanda in altri Paesi importatori come Asia ed Europa.

I veri vincitori del crollo dei prezzi saranno tuttavia le economie più dipendenti dal settore agricolo, come l’India, che racchiude un terzo della popolazione mondiale. L’agricoltura fa un uso più intensivo dell’elettricità rispetto ai settori manifatturieri, ed essendo i Paesi basati sull’agricoltura generalmente povera, gli stessi trarranno forti benefici dal trend decrescente.

Lo scenario sarà meno ridente per molti dei Paesi esportatori come l’Iran, il Venezuela e la Russia, che dipendono fortemente dalle rendite del petrolio per finanziare spese governative e programmi di trasferimento che mantengono il consenso popolare.

In particolare l’economia Russa, già fortemente colpita dalle sanzioni per la guerra in Ucraina, e con entrate dipendenti per circa il 70% dall’export di petrolio, potrebbe entrare in recessione e la figura di Putin (che ha acquisito forte consenso in seguito all’annessione della Crimea) potrebbe perdere popolarità tra l’élite imprenditoriale.

Il ribasso dei prezzi ha causato un fortissimo deprezzamento del rublo e un crollo delle azioni delle compagnie petrolifere che potrebbe essere seguito nei prossimi mesi nella vendita di valuta straniera per fare riaffluire moneta nell’economia russa ed evitare spirali deflative (in cui la moneta perde velocemente valore), letali per il funzionamento del sistema.

Un simile scenario potrebbe riguardare l’Iran, quarto Paese al mondo per il volume di riserve petrolifere. L’economia iraniana, già arrancante per le dure sanzioni sul programma nucleare, per l’embargo sul petrolio imposto da EU e USA e per le forti restrizioni al commercio internazionale e al settore bancario, sarà ulteriormente colpita dal trend decrescente.

Un chiaro sintomo delle difficoltà che sta attraversando il Paese è il declassamento da quarto a ottavo produttore per volumi tra i Paesi dell’OPEC, dal 2010 a oggi. Il Break Even Point (BPP: livello dei prezzi che consente di coprire i costi, senza margine di profitto) per l’Iran si aggira intorno ai 140$ al barile a causa degli alti costi di estrazione in acque profonde.

Qualsiasi cifra al di sotto dei 120$ mette in difficoltà Paesi come il Venezuela che già quando il prezzo era sceso a quota 100$ stavano attingendo alle proprie riserve e riducendo i fondi per combattere la povertà, causando rivolte antigovernative che negli scorsi mesi sono finite nel sangue. Il colpo è ancora più duro per la Libia, che accusa prezzi di estrazione altissimi (intorno ai 40$ a barile) e il cui BEP supera i 180$. Il più basso BEP per la Russia, intorno ai 105$, non ne attenua l’impatto sull’economia, poiché il crollo dei prezzi ha bloccato molti settori manifatturieri. Meno esposti al ribasso (grazie ai più ridotti costi di estrazione) alcuni Paesi del Golfo come gli Emirati e il Kuwait, con BEP rispettivamente pari a 73$ e 53$ a barile, mentre gli unici che riescono a mantenere un margine di profitto, seppur minimo, sono i produttori norvegesi con un BEP di 50£ a barile.

Anche l’Arabia Saudita, l’economia più ampia del mondo arabo con un BEP intorno ai 106£ soffrirà del crollo. Tuttavia, i prezzi di estrazione più bassi in assoluto e i 700$ miliardi di riserve finanziarie permetteranno ai sauditi di resistere abbastanza a lungo da mettere in ginocchio tutti gli altri Paesi con BEP simili: Russa, Iraq e produttori di shale oil americani.

Qui le leggi economiche si fondono alle strategie di politica estera.

L’Arabia Saudita potrebbe arrestare il declino (come già fece negli anni ’80) tagliando la produzione, ma oggi sembra voler intraprendere la strada opposta lasciando che i prezzi crollino, e insieme ad essi i suoi maggiori competitors.

Se mantenesse questa linea di azione per un certo arco di tempo (nemmeno troppo esteso, basterebbe un quadrimestre) l’Arabia potrebbe ottenere tre grandi risultati strategici che la porterebbero a una posizione di dominio a livello mondiale, quali sbaragliare la concorrenza dei suoi principali antagonisti russi e iraniani; frenare la forza centrifuga dello shale gas americano nell’attrarre flussi di investimento; riaffermare la propria influenza all’interno dell’OPEC.

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